Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5216 del 04/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/03/2010, (ud. 23/12/2009, dep. 04/03/2010), n.5216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE lavoro

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24806-2006 proposto da:

S.C., già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PANAMA 48, presso lo studio dell’avvocato STUDIO IANNI FAUDA BRESCIA

& PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato REGINA

PASQUALE,

giusta mandato a margine del ricorso e da ultimo domiciliata

d’ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

SPES S.C.A.R.L.;

– intimata –

sul ricorso 26741-2006 proposto da:

COOPERATIVA SPES A.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato FERRARESI ROBERTO,

rappresentata e difesa dagli avvocati DI MATTIA GIANFRANCO, FATIGATO

PASQUALE, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso

incidentale e da ultimo domiciliata d’ufficio presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.C., già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PANAMA 48, presso lo studio dell’avvocato STUDIO IANNI FAUDA BRESCIA

& PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato REGINA

PASQUALE,

giusta mandato a margine del ricorso e da ultimo domiciliata

d’ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1092/2006 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 26/05/2006 r.g.n. 2173/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato REGINA PASQUALE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale, rigetto incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. notificato il 12 febbraio 2004, C.S., cuoca presso la mensa della casa per anziani gestita dalla società coop. Spes a r.l., aveva impugnato avanti al Tribunale di Foggia, quale giudice del lavoro, il licenziamento intimatole da tale società il (OMISSIS), motivato con l’addebito dell’appropriazione indebita di alcuni alimenti della cucina, chiedendone l’annullamento con le conseguenze di cui all’art. 18, S.L. e, in via subordinata con quelle stabilite dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

Il Tribunale aveva, con sentenza del 19 novembre 2004, respinto le domande, che, su appello della S., sono state viceversa accolte nella versione proposta in via subordinata dalla Corte d’appello di Bari con sentenza depositata il 26 maggio 2006.

In proposito, la Corte territoriale ha valutato che la mancanza disciplinare della S. non fosse talmente grave da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti. Ritenendo peraltro che la lavoratrice non avesse neppure dedotto che la cooperativa impiegasse più di quindici dipendenti, ha applicato la disciplina cd. obbligatoria contro i licenziamenti illegittimi.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione S. C., con un unico motivo.

Resiste alle domande con controricorso la Spes s.c. a r.l., proponendo altresì contestualmente ricorso incidentale con tre motivi.

La S. ha infine contestato la fondatezza del ricorso incidentale con rituale controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – I due ricorsi, principale e incidentale, avendo ad oggetto la medesima sentenza, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2 – Col ricorso principale, S.C. deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 18, S.L. dell’art. 2697 c.c. e art. 414 c.p.c. nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Se infatti è formalmente vero che la ricorrente non aveva esplicitamente dedotto che la Spes avesse più di quindici dipendenti, aveva comunque affermato che la stessa era tenuta ad osservare la disciplina limitativa del potere di licenziamento e in particolare l’art. 18, S.L. (riproduce la frase del ricorso introduttivo), il cui presupposto è costituito dal fatto che la datrice di lavoro impieghi più di quindici dipendenti, per cui implicitamente, ma necessariamente una tale allegazione era presente in giudizio.

Del resto, la ricorrente aveva chiesto al giudice, nelle conclusioni del ricorso introduttivo, l’accertamento delle dimensioni dell’azienda della cooperativa tramite le denunce all’UPLMO e l’emissione dell’ordine di esibizione dei libri paga e matricola.

Deduzione e richieste poi reiterate in secondo grado.

Comunque, una volta chiesta in via principale la tutela reale, sarebbe stato onere della società difendersi deducendo e provando di avere una dimensione inferiore, in termini di numero di dipendenti, a quella presupposto dell’applicabilità di tale tutela, secondo la giurisprudenza più recente di questa Corte suprema (Cass. S.U. 10 gennaio 2006 n. 141).

Da ciò conseguirebbe che, non essendo la lavoratrice onerata della prova relativa al numero di dipendenti, non avrebbe neppure dovuto dedurre tale circostanza in maniera esplicita.

Il ricorso conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se la deduzione delle dimensioni dell’impresa rientri o meno tra i fatti costitutivi dell’azione d’impugnativa di licenziamento anche ex art. 414 c.p.c..

Dica quindi se, ciò premesso, ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 2697 c.c., il suo datore di lavoro dovrà essere onerato di far valere l’eccezione e la relativa prova di non ricorrenza nella fattispecie del presupposto numerico per l’applicabilità della tutela reintegratoria e risarcitoria ex art. 18, S.L.”.

3 – Col controricorso, la società deduce l’inammissibilità del ricorso in quanto accumunerebbe confusamente censure di violazione di legge ad altre attinenti alla motivazione della sentenza, senza specificare quale dei quesiti conclusivi si riferisca all’una o all’altra censura.

Nel merito, sostiene comunque l’infondatezza del ricorso.

Col primo motivo del ricorso incidentale viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c..

Il giudizio di non proporzionalità del licenziamento sarebbe stato formulato dalla Corte territoriale sull’erroneo presupposto, giudicato “assorbente e decisivo”, che l’atto era stato irrogato per appropriazione indebita e che detto reato non è previsto dal codice disciplinare.

Ma in realtà l’appropriazione indebita è un reato grave e come tale è assolutamente irrilevante la sua tipizzazione nel codice disciplinare.

Del resto, anche con riguardo ai fatti tipicizzati nel codice disciplinare il giudice deve compiere una valutazione di proporzionalità in concreto (cita Cass. 2 novembre 2005 n. 21213).

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito: Si chiede pertanto alla Corte adita se sono censurabili con il licenziamento anche comportamenti non previsti e tipizzati dal codice disciplinare quale giusta causa di recesso e se, in caso di eventuale previsione codicistica, il giudice di merito sia tenuto o meno ad effettuare il giudizio di proporzionalità del provvedimento espulsivo irrogato con l’addebito contestato.

4 – Col secondo motivo del ricorso incidentale, la società denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale indicherebbe, tra gli elementi in concreto valutati nel ridimensionare la gravità del fatto addebitato alla ricorrente, l’assenza nella stessa di un obbligo contrattuale di custodia degli approvvigionamenti della società datrice. Il che sarebbe contraddittorio con la qualificazione del fatto, operata dalla medesima sentenza, come di appropriazione indebita, che presupporrebbe infatti nell’autore il possesso a qualunque titolo del bene sottratto e quindi l’obbligo di custodia dello stesso.

5 – Col terzo motivo, viene denunciato il vizio di motivazione della sentenza relativamente alla valutazione delle risultanze istruttorie.

Sarebbe stata infatti omessa la considerazione, risultante dagli atti, che la S. sarebbe stata non soltanto una semplice cuoca ma avrebbe provveduto alla intera gestione della cucina, occupandosi anche degli approvvigionamenti e del controllo degli alimenti.

Inoltre, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di un precedente disciplinare a carico della dipendente, di sospensione di ben 10 giorni.

Del resto, secondo la società, la Corte non avrebbe dato puntualmente conto degli elementi che l’avevano condotta ad escludere la gravità del fatto addebitato alla S., in particolare quanto all’elemento intenzionale e al suo eventuale grado di intensità, quali desumibili dal fatto che gli alimenti erano stati occultati nella borsa ben chiusa, dal fatto che al momento della scoperta la lavoratrice non aveva fornito alcuna giustificazione.

6 – E’ preliminare l’esame del ricorso incidentale, che investe la pronuncia di illegittimità del licenziamento del S., mentre il ricorso principale concerne le conseguenze di tale illegittimità.

In proposito, va anzitutto rilevata la manifesta infondatezza, per inconcludenza, del primo motivo.

Ancorchè in realtà il fatto materiale contestato alla lavoratrice appaia, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte in materia, più correttamente inquadrabile nella fattispecie penale di furto e quindi ancorchè le considerazioni svolte nel ricorso incidentale siano per ciò stesso ultronee, in ogni caso è la stessa società ricorrente ad affermare correttamente, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che sia nel caso in cui il fatto contestato disciplinarmente e posto alla base del licenziamento appartenga al novero di quelli vietati dalla legge penale o che comunque violano regole fondamentali inerenti al rapporto, sia che viceversa tale fatto costituisca illecito disciplinare solo in quanto considerato tale dal contratto collettivo in rapporto al tipo di organizzazione del lavoro e aziendale nell’ambito considerato, vale in ogni caso la regola che il giudice ha il potere-dovere di valutarne l’effettiva gravità alla luce di tutte le circostanze concrete.

Che è ciò che appunto ha fatto, secondo la stessa ricorrente, la Corte territoriale valutando la gravità del fatto addebitato, alla luce del tipo di partecipazione soggettiva da parte dell’autrice, dei suoi precedenti e del suo comportamento successivo nonchè tenendo conto del danno anche potenziale emergente dalla complessa considerazione dell’episodio.

Anche il secondo motivo è infondato, anzitutto in ragione dell’erronea qualificazione del fatto in termini di appropriazione indebita. Ma anche a voler ritenere, come in effetti ritenuto dalla sentenza impugnata, che incombesse sulla S. un obbligo di custodia, la Corte territoriale ha accertato che questo era limitato al contenuto numero e qualità degli alimenti, strettamente necessari alla preparazione dei pasti.

Quest’ultima considerazione è contrastata dalla difesa della società ricorrente nel terzo motivo di ricorso incidentale, con la deduzione secondo la quale la S. sarebbe stata la esclusiva responsabile della mensa, con compiti anche attinenti alle forniture, con l’ulteriore conseguenza che, non avendo la Corte territoriale tenuto conto di ciò e dei precedenti disciplinari della dipendente, la valutazione relativa alla gravità del fatto ne risulterebbe incongrua.

In proposito va peraltro rilevato che, in violazione della regola fondamentale della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., tra le altre, Cass. nn. 5043/09,4823/09 e 338/09), applicabile anche al ricorso incidentale (Cass. 19 gennaio 2007 n. 1195), nel contrastare l’analisi e le valutazioni della Corte d’appello, la ricorrente incidentale non deduce di avere ritualmente rappresentato nel giudizio di merito quella che oggi viene indicata come la reale posizione di lavoro della S., limitandosi a richiamare una documentazione prodotta per altri scopi ed estrapolandone frasi, attribuite alla lavoratrice, non chiaramente significative dell’assunto.

Quanto poi ai precedenti disciplinari, che la società non qualifica come specifici, essi sono stati tenuti evidentemente presenti nella valutazione complessiva della Corte territoriale, che infatti ha rilevato l’assenza di precedenti specifici rispetto alla mancanza contestata.

Infine, come già rilevato, la Corte ha anche preso in considerazione, nella sua complessiva, ancorchè sintetica, valutazione relativa alla gravità dell’illecito disciplinare, anche elementi tipo soggettivo, quali l’elemento intenzionale e il suo grado di intensità, quando ha rilevato la probabile finalità della sottrazione, desunta anche dalla quantità e qualità del cibo asportato e il corretto comportamento successivo della S..

In proposito va del resto ribadito, in linea di principio, che non è sufficiente a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti.

Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione.

Occorre quindi che i “punti” della controversia dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (in proposito, cfr., di recente, Cass. sez. 3, 21 novembre 2006 n. 24744 e sez. 1, 22 gennaio 2007 n. 1270).

Nel caso in esame, per le ragioni indicate, una tale rappresentazione è mancata da parte della società ricorrente, con conseguente infondatezza del ricorso incidentale.

7 – Passando all’esame del ricorso principale, va preliminarmente rilevata l’infondatezza della eccezione di inammissibilità dello stesso “per confusione” di censure e di quesiti, formulata dalla controricorrente.

Tale ricorso principale, infatti, attiene in realtà esclusivamente a pretese violazioni di legge, sufficientemente riassunte nell’articolato quesito conclusivo, mentre la censura di omessa motivazione, in quanto relativa alla interpretazione delle norme di legge indicate, si risolve nel vizio precedente.

Passando all’esame del merito, il ricorso, col quale la lavoratrice ricorrente sostiene che una volta accertata l’illegittimità del licenziamento in accoglimento delle domande della lavoratrice che a tale illegittimità ha riconnesso la conseguente richiesta della regola della tutela reale, competa al datore di lavoro dedurre e dimostrare il fatto impeditivo della applicazione della stessa, nella specie per difetto del cd. requisito dimensionale, quanto al numero di dipendenti impiegati, in ipotesi inferiore alla soglia oltre la quale è applicabile tale tutela reale, è fondato.

Ed invero, secondo il recente arresto delle sezioni unite di questa Corte (Cass. 10 gennaio 2006 n. 141), cui questo collegio ritiene di aderire, in coerenza al principio di cui all’art. 2697 c.c. sull’onere della prova, come conformato dalle L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970 e L. n. 108 del 1990 nella specifica materia dei licenziamenti e in linea con i principi che presiedono tale onere in materia di responsabilità contrattuale, costituiscono fatti costitutivi del diritto del lavoratore a riprendere la propria attività azionato in giudizio esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e del licenziamento che si impugna, mentre sia la sussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa a fondamento del licenziamento che l’avere l’impresa un numero di dipendenti inferiore ad una determinata soglia, assunto ad elemento che consente la deroga alla regola della tutela reale in forma specifica, costituisce un fatto impeditivo di quest’ultima, che come tale va dedotto e provato dal datore di lavoro.

In relazione a tale principio, qui ribadito come principio di diritto, ha pertanto errato la Corte territoriale, negando la tutela reale alla ricorrente che ne aveva fatto richiesta, sulla base dell’assunto che la stessa non avrebbe esplicitamente dedotto nel ricorso introduttivo la circostanza che il datore di lavoro aveva più di quindici dipendenti nell’unità lavorativa considerata.

Infine, altrettanto erroneo l’affermazione dei giudici di appello ove interpretabile nel senso che con ciò la ricorrente avrebbe ammesso l’esistenza di un numero inferiore di dipendenti, dato che essa aveva in va principale invocato la tutela reale e chiesto l’ammissione di mezzi di prova per accertare il reale numero di dipendenti.

8 – Concludendo, il ricorso principale va accolto e va rigettato quello incidentale. La sentenza impugnata va cassata con riferimento al ricorso accolto, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Lecce, che si atterrà al principio di diritto enunciato.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie quello principale e rigetta quello incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 23 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2010

 

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