Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5208 del 04/03/2010

Cassazione civile sez. III, 04/03/2010, (ud. 11/02/2010, dep. 04/03/2010), n.5208

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2394-2008 proposto da:

C.V. (OMISSIS), C.R.

(OMISSIS), CA.RO. (OMISSIS) tutti eredi

di C.G., E.S. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE CARSO 34, presso lo studio

dell’avvocato BARTOLI SALVATORE, rappresentati e difesi dall’avvocato

D’ANDREA GIROLAMO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

GILLETTO DI TUMBIOLO NICOLO & C SAS (OMISSIS) in persona del

socio accomandatario ed amministratore T.N.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AGRI 3, presso lo studio

dell’avvocato MORMINO IGNAZIO, che la rappresenta e difende giusta

delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1029/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, 2^

SEZIONE CIVILE, emessa il 12/10/2007, depositata il 19/11/2007,

R.G.N. 356/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/02/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato IGNAZIO MORMILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G. e E.S. hanno convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Marsala, T.N., socio accomandatario e amministratore della Gilletto s.a.s. di Tumbiolo Nicola e C. proponendo azione di riscatto L. n. 590 del 1965, ex art. 8 e L. n. 817 del 1971, art. 7, nei confronti di due lotti di terreno seminativo, il primo esteso ettari 11.26.10, l’altro, 12.26.90.

Hanno esposto gli attori a fondamento della spiegata domanda che da molti anni conducevano in affitto tali terreni, originariamente parte di un unico compendio di proprietà di B.F., M. J., A., G., P.F., G., O. e S., in parte a titolo individuale e in parte quali coeredi della defunta L.B.S. e che con atto (OMISSIS) B.A. e F. avevano venduto i beni condotti in affitto da essi concludenti al T. nella detta qualità, in violazione del diritto di prelazione loro spettante, nonostante essi concludenti con atto (OMISSIS) avessero esercitato il diritto di riscatto.

Costituitosi in giudizio il T. ha resistito alla avversa domanda facendo presente, da un lato, che i terreni in questione facevano parte di un compendio unitario e, pertanto, gli affittuari non potevano riscattare solo alcuni di questi, dall’altro, che gli attori erano privi dei requisiti soggettivi e oggettivi per l’esercizio del riscatto.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito tribunale con sentenza 28 novembre – 4 dicembre 2001 ha accertato che gli attori avevano diritto di riscatto nei confronti dei fondi oggetto di controversia, subordinando “la domanda di riscatto al pagamento del prezzo indicato nell’atto di compravendita” con condanna del T. “nella qualità alla stipulazione dell’atto di trasferimento e retrocessione dei due fondi rustici sopra indicati, secondo le modalità che sarebbero state indicate dagli attori, nonchè al pagamento delle spese processuali”.

Gravata tale pronunzia dalla soccombente Gilletto s.a.s. di Tumbiolo Nicolò & C, nel contraddittorio di C.G. e E. S. che, costituitisi in giudizio, hanno chiesto il rigetto del proposto gravame, la Corte di appello di Palermo con sentenza 12 ottobre – 19 novembre 2007 in totale riforma della sentenza del primo giudice ha rigettato la domanda proposta da C.G. e E.S. nei confronti della Gilletto s.a.s. con la citazione 11 marzo 1995, compensate le spese di entrambi i gradi.

Per la cassazione di tale pronunzia, notificata il 6 dicembre 2007, hanno proposto ricorso, affidato a tre motivi C.V., C.R. e CA.RO., nella qualità di C. G., deceduto il (OMISSIS) nonchè E.S., con atto 8 gennaio 2008.

Resiste, con controricorso la Gilletto s.a.s. di Tubiolo Nicolò &

C..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Assume, in limine, parte controricorrente, che nel ricorso avversario sono contenute molteplici affermazioni, offensive, prive di qualsiasi attinenza con il merito della controversia, sollecitando – per l’effetto – questa Corte perchè siano disposti i provvedimento opportuni, soprattutto a tutela dell’ordine giudiziario (ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.c.).

2. L’istanza può trovare accoglimento.

Deve ribadirsi, infatti, in conformità a costante giurisprudenza, che la cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art. 89 c.p.c. – e che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità, rientrando tra i poteri officiosi del giudice – va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale e scomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte o dell’ufficio, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni (Cass. 5 maggio 2009, n. 10288) o gli errori di diritto in cui sia incorsa – a parere dell’autore dello scritto – la sentenza impugnata.

Certo quanto sopra deve escludersi che le espressioni riportate alle pagine 8 e 9 del controricorso siano offensive della controparte e del suo difensore) (Cass. 4 giugno 2007, n. 12952) o del collegio decidente.

In particolare le espressioni accalappiare, evidente artificio, colpo di mano, arzigogolare, cercare farfalle sotto l’arco di rito, ritenuto erroneamente come un tabù inaccessibile il diritto di prelazione sancito dalla legge, sono non solo abbastanza frequenti nel linguaggio corrente, ma anche nella dialettica giudiziaria e, comunque, non solo collegate alle esigenze difensive, ma anche, oggettivamente, prive di un contenuto offensivo.

Nè – ancora – eccedono i limiti del diritto di critica dei provvedimenti giudiziari la circostanza che la motivazione della sentenza impugnata sia qualificata falsa e distorta, o che sia affermato che i motivi addotti nella sentenza impugnata per giungere alla conclusione che la sentenza di primo grado … andava annullata sono frutto di abissali errori di diritto enunciati da controparte e fatti propri dalla corte di appello.

Specie tenuto presente che le “espressioni” trascritte in controricorso, lette nel contesto del ricorso, hanno un senso e un significato totalmente diverso, rispetto a quello che attribuisce loro la difesa della controricorrente.

2. Per il disposto della L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7 – hanno osservato i giudici di secondo grado – al proprietario di un fondo agrario confinante con altro, offerto in vendita, compete il diritto di prelazione ovvero il succedaneo diritto di riscatto se ricorrono nei suoi confronti tutte le condizioni previste dalla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 cui il citato art. 7 rinvia e, quindi, la qualifica di coltivatore diretto, la coltivazione biennale dei terreni agricoli confinanti di sua proprietà, il possesso della forza lavorativa adeguata e il non avere effettuato vendita di fondi rustici nel biennio precedente l’esercizio della azione di riscatto.

La sussistenza o meno di tali requisiti – costituenti condizioni dell’azione – hanno precisato altresì quei giudici – deve essere accertata dal giudice d’ufficio con la conseguenza che non incorre in ultrapetizione nè viola il giudicato interno il giudice di appello che rilevi d’ufficio la mancanza degli anzidetti presupposti nel caso in cui la questione non sia stata esaminata dal giudice di primo grado.

Nella specie, hanno evidenziato, ancora quei giudizi, è rimasto accertato che:

– C.G., deceduto il (OMISSIS), era titolare di pensione di invalidità con decorrenza 1 aprile 1993, concessagli in quanto nel possesso dei requisiti sanitari previsti dalla L. n. 222 del 1984, art. 1, comma 1, avendo la capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini ridotta in modo permanente, a causa di infermità, a meno di un terzo;

– E.S. è titolare di pensione di invalidità con decorrenza 1 agosto 1972, essendo stato riconosciuto invalido ai sensi della L. n. 218 del 1952, art. 9 per avere la capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, ridotta in modo permanente, a causa di infermità, a meno di un terzo.

Accertato quanto sopra i giudici del merito hanno rigettato la domanda di riscatto atteso, da un lato, che la perdita della qualifica di coltivatore diretto da parte dell’affittuario (o del proprietario confinante con il terreno in vendita) determina il venire meno del diritto di operare il riscatto, dall’altro, che anche a voler considerare la residua (ridottissima, già al momento dell’esercizio del riscatto) capacità lavorativa degli attori agli stessi faceva carico, comunque, dare la prova che di potere attendere, nonostante la loro residua minima capacità lavorativa, unitamente ai loro familiari, alla conveniente coltivazione dei fondi anzidetti.

“Gli appellati, inoltre – hanno sottolineato i giudici di secondo grado – avrebbero dovuto fornire la prova della effettiva capacità di apporto lavorativo dei componenti della famiglia, da valutare in concreto, non bastando la indicazione del numero dei componenti del nucleo familiare. E su tale dimostrazione, intuitivamente, tenuto conto della menzionata estremamente ridotta capacità lavorativa degli appellati si sarebbe dovuta fondare principalmente la domanda di riscatto da essi avanzata”.

“Nessuna prova in tale senso, però – hanno concluso la loro indagine sul punto i giudici del merito – è stata fornita dagli appellati, i quali hanno omesso di indicare i componenti dei rispettivi nuclei familiari, sicchè conformemente ai principi menzionati in ordine all’onere della prova, deve ritenersi che nella specie non sia stata fornita prova sufficiente delle condizioni che legittimano l’accoglimento della domanda di riscatto”.

3. I ricorrenti censurano la trascritta sentenza denunziandola con tre motivi.

3.1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 590 del 1965, art. 8 e successive modifiche) art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”, “nullità della sentenza della Corte di appello impugnata per cassazione, per errore di motivazione nella qualifica ricoperta dai ricorrenti quali coltivatori diretti”.

Ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. i ricorrenti – al termine del motivo – formulano il seguente quesito di diritto: falsa e distorta motivazione della sentenza impugnata sulla qualifica e qualità di coltivatori diretti dei ricorrenti al momento in cui è scattato il termine per fare valere il diritto di riscatto.

3.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano “violazione e falsa applicazione di norme di diritto, art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Insufficiente e distorta motivazione. Violazione e falsa applicazione delle norme tutte che regolano e qualificano le qualità di coltivatori diretti dei ricorrenti e suo riferimento alla azione di affrancazione. Difetto di motivazione”.

Ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. i ricorrenti – al termine del motivo – formulano il seguente quesito di diritto: voglia l’ecc.ma.

Corte ritenere ampiamente motivata la decisione dei primi giudici cui alla sentenza del tribunale di Marsala, immune da qualsiasi censura e del tutto infondata la sentenza ogni impugnata – Errata statuizione e motivazione circa la qualifica di coltivatore diretto stabilita dalla L. n. 590 del 1965, art. 31 per ottenere il riscatto.

3.3. Con il terzo, e ultimo, motivo i ricorrenti lamentano “violazione e falsa applicazione di norme di diritto e della L. n. 590 del 1965 e L. n. 817 del 1971 e di una pacifica giurisprudenza, circa la salvaguardia dei diritti del primo acquirente nei confronti di colui che esercita azione di riscatto e prevalenza dei relativi diritti. Errata motivazione. Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 insussistenza delle condizioni previste dalla L. n. 390 del 1965 e L. n. 817 del 1971”.

Ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. i ricorrenti formulano – in margine a tale motivo di ricorso – il seguente quesito di diritto: Voglia la ecc.ma Corte ritenere violate le L. n. 590 del 1965 e L. n. 871 del 1971 e insussistente nel caso in esame il diritto della Gilletto s.a.s., non sussistendo, non per colpa dei ricorrenti ma della stessa Gilletto, i presupposti di legge ed avendo la stessa rinunziato, con il suo comportamento e con la vendita di oltre due terzi della proprietà acquistata con il più volte ripetuto atto stipulato dal notar Antonelli, alla realizzazione del programma per il quale era stata finalizzata, di costituire un’azienda unitaria e produttiva, onde dovrà avere la prevalenza la richiesta degli odierni ricorrenti, di ottenere il riscatto, soprattutto perchè hanno i requisiti oggettivi e soggettivi per ottenerlo. In ogni caso la Corte di appello di Palermo avrebbe dovuto accertare se esistono o meno, tutte le perplessità avanzate da controparte, non essendo state in nessun caso provate e non risultando dagli atti processuali.

4. Tutti i sopra trascritti motivi sono inammissibili, perchè formulati in termini non conformi al modello delineato, a pena di inammissibilità, dall’art. 366-bis c.p.c. introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 e applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 14 luglio 2009 (cfr. L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5).

Alla luce delle considerazioni che seguono.

4.1. Come noto, il quesito di diritto previsto dall’art. 366-bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366-bis – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c. secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere.

giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde alla esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati. (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366-bis c.p.c. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie si osserva che i quesiti di diritto, formulati a illustrazione dei tre motivi di ricorso sono redatti in termini assolutamente astratti e senza alcun riferimento alla fattispecie concreta in esame.

In altri termini non è dato comprendere quale sia la relazione tra la fattispecie concreta esaminata dal giudice a quo e il principio di diritto da questo applicato e il diverso principio – totalmente astratto – invocato nei vari quesiti, nè – ancora – è dato comprendere quale sia la regula iuris fatta propria dai giudici del merito e la diversa regula invocata.

Il tutto a prescindere dal considerare che i ricorrenti, pur prospettando – in tesi – che i giudici a quibus sono incorsi nella violazione di legge (cioè in una erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, hanno erroneamente interpretato la norma positiva) in realtà, invocano una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, cioè un vizio esterno alla esatta interpretazione della norme di legge e che impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonchè Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. il agosto 2004, n. 15499, tra le tantissime) 4.2. I sopra trascritti motivi sono inammissibili perchè non conformi al modello delineato dall’art. 366-bis c.p.c. – altresì – anche nella parte in cui denunziano vizi della motivazione della sentenza impugnata, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Al riguardo, infatti, si osserva che questa Corte regolatrice – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366 bis c.p.c. è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, la illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.

Conclusivamente, non potendosi dubitare che allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366-bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (In termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897), non controverso che nella specie tutti i motivi sopra indicati, formulati ex art. 360 c.p.c., n. 5, sono totalmente privi di tale indicazione, è palese che deve dichiararsene la inammissibilità (in argomento, tra le tantissime, Cass. 13 maggio 2009, n. 11094, in motivazione).

5. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 1.500,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 3^ sezione civile della Corte di cassazione, il 11 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2010

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