Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5207 del 04/03/2010

Cassazione civile sez. III, 04/03/2010, (ud. 11/02/2010, dep. 04/03/2010), n.5207

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

FINBRERA SRL (OMISSIS), in persona del suo legale rappresentante

pro tempore sig.ra M.M., elettivamente domiciliata in

ROMA, CORSO D’ITALIA 19, presso lo studio dell’avvocato STENDARDI

RUGGERO, rappresentata e difesa dall’avvocato PIROLA CLAUDIO giusta

delega in calce al ricorso;

– ricorrente-

contro

LA FORNARINA DI PELLIZZOLI ANTONELLA SNC, (OMISSIS), B.

G., (OMISSIS), P.A.,

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PLINIO 25,

presso lo studio dell’avvocato LITTERA WALTER, rappresentati e difesi

dall’avvocato ANDERLONI ADRIANO giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 912/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

Sezione Terza Civile, emessa il 05/04/2006, depositata il 11/04/2006;

R.G.N. 1824/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

11/02/2010 dal Consigliere Dott. FINOCCHIARO Mario;

udito l’Avvocato Ruggero STENDARDI per delega avv. Claudio PIROLA;

udito l’Avvocato Walter LITTERA per delega avv. Adriano ANDERLONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso 21 novembre 2000 la Finbrera s.r.l., ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Milano la La Fornarina s.n.c. di Pelizzoni Cinzia Antonella & C. nonchè i soci illimitatamente responsabili di questa P.A. e B.G., chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 241.978.233 o quella diversa risultante in causa, reclamata dalla società attrice sia a titolo di canone non versato che per il ripristino in buono stato dei locali.

Ha esposto, a fondamento di tali richieste, la attrice di essere proprietaria di un immobile adibito a laboratorio per la produzione di pane in (OMISSIS), condotto in locazione in forza di contratto (OMISSIS) da La Baguette s.r.l..

Quest’ultima – ha riferito ancora l’attrice – il (OMISSIS) aveva trasferito l’azienda alla Fornarina s.n.c. di Pelizzoni Cinzia Antonella & C. subentrata, quindi, nel contratto, automaticamente rinnovatosi alla scadenza del 26 giugno 1997 per altri sei anni.

Peraltro, ha fatto presente l’attrice, la conduttrice era anticipatamente receduta dal contratto con raccomandata del luglio 1999, abbandonando i locali il 10 gennaio 2000, ma essa concludente si era opposta al detto recesso.

Costituitisi in giudizio i convenuti hanno chiesto di essere autorizzati a chiamare in causa M.M. e P.A., nella loro qualità di ex soci de La Baguette s.r.l., dai quali hanno chiesto di essere manlevati.

Autorizzata la chiamata in causa dei terzi questi si sono costituiti in giudizio resistendo alle avverse domande.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito tribunale ha accolto la domanda attrice e condannato i convenuti la Fornarina s.n.c. di Pelizzoni Cinzia Antonella & C, nonchè P.A. e B.G., al pagamento, in favore della società attrice, della somma di Euro 95.469,92, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, assorbita la domanda di resistenti contro i terzi chiamati in causa, rigettata peraltro la domanda di risarcimento danni quanto allo stato dell’immobile restituito, perchè priva di prova.

Ha affermato, in particolare, il primo giudice che il recesso dalla locazione, attuato da La Fornarina s.n.c. era illegittimo difettando i gravi motivi previsti dalla legge, tali non potendosi considerare quelli invocati dalla conduttrice e, in particolare, la riduzione del fatturato della vendita all’ingrosso del pane prodotto nel laboratorio di via (OMISSIS) che avrebbe reso antieconomico il mantenimento di quel laboratorio di panificazione, tenuto presente che la riduzione del fatturato è connessa al rischio di impresa e che la denunziata riduzione del fatturato stesso era intercorsa prima della rinnovazione, alla prima scadenza del 26 giugno 1997, del contratto.

Gravata tale pronunzia in via principale da La Fornarina s.n.c. nonchè da P.A. e B.G. e, in via incidentale, dalla Finbrera s.r.l., la Corte di appello di Milano con sentenza 5 – 11 aprile 2 006 in accoglimento, per quanto di ragione, dell’appello principale ha limitato la condanna della società appellante e dei suoi soci al pagamento della somma capitale di Euro 757,92, rigettato l’appello incidentale della Finbrera s.r.l..

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, ha proposto ricorso, affidato a nove motivi e illustrato da memoria, con atto 29 giugno 2006 e date successive, la Finbrera s.r.l..

Resistono, con controricorso, la Fornarina s.n.c. di Pelizzoni Antonella, P.A. nonchè B.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Precisa la sentenza ora oggetto di ricorso per Cassazione, per quanto ancora rilevante al fine del decidere: “a parere di questa Corte l’appello esperito dalla La Fornarina s.n.c. e dai soci è parzialmente fondato, ma per ragioni affatto diverse da quelle indicate dagli appellanti stessi”.

“Il fatto decisivo della presente controversia, infatti, – hanno sottolineato quei giudici – non è costituito dalla sussistenza o meno di gravi motivi nel recesso della parte conduttrice, ma da altro”.

Riassunti i motivi di contrasto tra le parti la sentenza prosegue:

– “il 10 gennaio 2000 la La Fornarina s.n.c. restituisce le chiavi dei locali alla Finbrera s.r.l., in uno con l’importo dell’ultimo trimestre dell’anno 1999, detratto il deposito cauzionale in mano della locatrice”;

– “a questo punto accade un fatto che diventa decisivo al fine della risoluzione della presente controversia”;

– “la Finbrera infatti, per bocca del suo difensore, non rifiuta di ricevere le chiavi dell’immobile e di rientrare quindi nel possesso dello stesso, ma le accetta, pur specificando che questa circostanza non influirà minimamente sulla richiesta del pagamento dei canoni sino alla scadenza naturale del contratto in quanto per lei il recesso rimane illegittimo”;

– “si è allora verificato un caso anomalo: pur ritenendo la illegittimità del recesso della controparte la locatrice ha accettato di tornare da subito nella disponibilità dei suoi locali, ma in questo modo non può pretendere, come invece ha sostenuto il giudice di prime cure, il corrispettivo dei canoni di locazione per un periodo di tempo, che va dal 10 gennaio del 2000 al 26 giugno 2003, in cui la conduttrice non ha goduto dell’immobile, sol perchè il recesso doveva considerarsi illegittimo”;

– “si vuol con questo affermare che indipendentemente dalla natura lecita o illecita di tale recesso il comportamento della Finbrera s.r.l. in data 10 gennaio del 2000, quando ha accettato di ricevere le chiavi dei locali di via (OMISSIS), è stato tale da contrapporsi alla sua richiesta formale di considerare concluso il contratto di locazione alla naturale scadenza per illegittimità del recesso, ponendo in essere un accordo con la Fornarina s.n.c. consistito nel fatto di rientrare nella disponibilità dell’immobile che ha precluso la possibilità per lei di pretendere il pagamento dei canoni di locazione da quel momento in poi”;

– “ottenere questa somma di danaro costituirebbe, infatti, un ingiustificato arricchimento”;

– “così stando le cose, la condanna degli appellanti va limitata a dieci giorni di canone, quello corrispondente al periodo dal primo al dieci gennaio 2000 pari a Euro 757,92, atteso che i canoni di locazione in relazione al quarto trimestre del 1999, dal 1 ottobre al 31 dicembre del 1999, nonchè le spese condominiali per tale ultimo periodo risultano, dalla missiva inviata dalla conduttrice alla controparte in data 10 gennaio 2000, pagati a mezzo assegno e in parziale compensazione con il deposito cauzionale, che risulta essere stato trattenuto dalla locatrice”.

2. Con un primo gruppo di motivi, intimamente connessi e da esaminare congiuntamente, la ricorrente censura la sentenza impugnata “in via principale sul recesso” lamentando:

violazione del principio del tantum devolutum quantum appelatum primo motivo, sub a);

– violazione del giudicato interno secondo motivo, sub b);

– introduzione di un nuovo fatto giuridico introduzione di un nuovo thema decidendum, illegittimo mutamento dei termini della controversia, indebita alterazione dell’oggetto in senso sostanziale terzo motivo, sub c).

Assume infatti la ricorrente che nè in primo grado nè in appello la Fornarina s.n.c. e i soci di questa avevano mai invocato la formazione di un accordo nei termini prospettati e accertati dai giudici di appello, atteso che oggetto della lite era esclusivamente la asserita liceità del recesso per sussistenza di gravi motivi L. n. 392 del 1978, ex art. 27.

3. Oppongono, in limine, i controricorrenti la inammissibilità delle censure sopra riassunte per violazione dell’art. 360 c.p.c. e dell’art. 366 c.p.c., n. 4, atteso che la controparte:

– da un lato, non indica in base a quale dei casi previsti dall’art. 360 c.p.c. impugna la sentenza e propone ricorso;

– dall’altro, contemporaneamente, non indica quale sarebbe la norma o le norme violate dal giudice del merito, nè chiarisce sotto quali profili dette norme sarebbero state violate.

4. I riassunti rilievi colgono nel segno e i motivi sopra descritti devono essere dichiarati inammissibili.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

Alla luce dei rilievi che seguono (solo parzialmente coincidenti con le eccezioni svolte dai controricorrenti).

4.1. In primo luogo – e in via assorbente – si osserva – in termini opposti rispetto a quanto presume la difesa di parte ricorrente – che nel procedimento civile il controllo di legittimità sulle pronunce dei giudici di merito non si configura come terzo grado di giudizio, nel quale possano essere ulteriormente valutate le risultanze istruttorie acquisite nella fase di merito, bensì come uno strumento preordinato all’annullamento delle pronunzie viziate da violazione di norme, ovvero da omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione che le parti devono denunciare in modo espresso e specifico, con puntuale riferimento a una o più delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c, comma 1, nelle forme e con i contenuti prescritti dall’art. 366 c.p.c..

Il giudice di legittimità, pertanto, non ha il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma ha solo la facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito a sostegno delle scelte operate nell’attribuire valore probatorio a un elemento emerso in istruttoria piuttosto che a un altro (Cass. 31 marzo 2008, n. 8299).

Contemporaneamente, si osserva che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso.

Il singolo motivo, sia prima che dopo la riforma, introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore, anche se dottrina e giurisprudenza non hanno abbandonato la tradizionale distinzione tra errores in iudicando o vizi del giudizio, e errores in procedendo, o vizi di attività, soprattutto nelle ipotesi di nullità della sentenza o del procedimento.

La tassatività e specificità del motivo di censura esige, dunque, una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito (Cass. 24 aprile 2008, n. 10667; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202).

Pacifico, in diritto, quanto sopra si osserva che nella specie, la ricorrente pur sollecitando – con i primi tre motivi del proprio ricorso – la cassazione della sentenza denunziando – come anticipato – violazione del principio del tantum devolutum quantum appellatum;

violazione del giudicato interno; introduzione di un nuovo fatto giuridico, introduzione di un nuovo thema decidendum, illegittimo mutamento dei termini della controversia, indebita alterazione dell’oggetto in senso sostanziale, non ha precisato sotto quale (o quali) dei tassativi profili indicati dall’art. 360 c.p.c. tali vizi sono stati dedotti.

Non essendo specificato sotto quale (dei profili indicati dal n. 1 al n. 5 del comma 1) i detti vizi sono stati denunziati è palese la inammissibilità della denunzia.

Nè, ancora, può affermarsi, come pure si invoca nella memoria ex art. 378 c.p.c, che il ricorso per Cassazione è ammissibile anche se non indica il contenuto degli articoli di legge che si assumono violati, purchè dal tenore delle censure esposte sia possibile evincere le norme di diritto cui il ricorrente si riferisce.

Al riguardo è sufficiente considerare che la giurisprudenza richiamata in memoria fa riferimento alla eventualità in cui il ricorrente per cassazione nel chiedere la cassazione per il motivo di violazione di norma di diritto non indichi gli articoli di legge che si assumono violati (cfr., ad esempio, Cass. sez. un., 17 luglio 2001, n. 9652; Cass. 12 luglio 2004, n. 12127, tra le tantissime).

Diversamente, come sopra evidenziato, nella specie i primi tre motivi del ricorso sono stati formulati in termini tali da non consentire di comprendere se con gli stessi la ricorrente ha inteso censurare la sentenza impugnata “per motivi attinenti alla giurisdizione” o, piuttosto “per violazione delle norme sulla competenza” o, ancora, “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” o, per ipotesi, “per nullità della sentenza o del procedimento” o, infine, “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ed è palese – come anticipato – la inammissibilità dei primi tre motivi sotto un profilo diverso da quello della mancata indicazione della norma violata dopo essere stato dedotto il vizio della violazione di legge.

Nè – da ultimo sul punto – può affermarsi che la difesa del ricorrente ha – in realtà – inteso rimettere al giudizio di questa Corte la scelta e la identificazione dei vizi denunciati nei vari motivi.

Un tale assunto – infatti – costituisce violazione del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. -, alla luce del quale ogni processo si volge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale e non è – certamente – tale il giudice che integra il ricorso, inquadrando i motivi sviluppati nello stesso in una delle ipotesi tassative di legge (piuttosto che altra), certo essendo che certi vizi possono essere dedotti, a pena di inammissibilità, solo sotto uno delle tassative ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, e il ricorso è inammissibile se lo stesso vizio è prospettato sotto altra ipotesi cfr., ad esempio, Cass. 27 gennaio 2006, n. 1755; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1701; Cass. 11 novembre 2005, n. 22897).

4.2. In secondo luogo – anche a prescindere dai pur assorbenti rilievi che precedono – i primi tre motivi del ricorso devono essere dichiarati inammissibili perchè si concludono con quesiti redatti in modo non conforme al modello delineato dall’art. 366 bis c.p.c..

Come noto, il quesito di diritto previsto dall’art. 366 bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366 bis c.p.c., – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c. secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati. (Cass. 25 novembre 2008 nn. 2 8145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve compendiare:

a.) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366 bis c.p.c. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie si osserva che i cinque quesiti a illustrazione dei tre motivi di ricorso sono redatti in termini assolutamente astratti e senza alcun riferimento alla fattispecie concreta in esame.

In altri termini non è dato comprendere quale sia la relazione tra fattispecie concreta esaminata dal giudice a quo e il principio di diritto da questo applicato e il diverso principio – totalmente astratto -invocato nei vari quesiti.

5. Con restanti motivi il ricorrente censura la sentenza impugnata lamentando, nell’ordine:

– “violazione e falsa applicazione degli art. 1206, 1207, 1215, 1216, 1220, 1227, 1453, 1372 c.c. anche sotto il profilo motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”, formulando il seguente quesito: “qualora il conduttore, deducendo il proprio diritto alla risoluzione anticipata del rapporto, riconsegna l’immobile al locatore, il quale accetti la consegna con riserva (nella specie puntualizzando l’espressa riserva di ottenere il pagamento di canoni fini alla scadenza contrattuale) non è liberato dall’obbligo del pagamento dei canoni ancora non maturati, e il successivo accertamento della insussistenza del diritto di recesso comporta che il conduttore medesimo è tenuto al pagamento dei canoni sino alla scadenza del contratto” quarto motivo;

– “violazione dei principi generali in tema di rinuncia ai diritti;

omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della, controversia (art. 360 c.p.c., n. 5 c.p.c.)”, formulando 4 quesiti di diritto quinto motivo;

– “travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. vizio di motivazione”, formulando il seguente quesito di diritto “se l’art. 1362 c.c. impone che si debba indagare se tenere conto di quale sia stata la comune intenzione delle parti anche con riguardo al comportamento posteriore” sesto motivo;

– “violazione e falsa applicazione dell’art. 1590 c.c.; violazione dei canoni legali d’ermeneutica; travisamento dei fatti: vizio di motivazione”, formulando il seguente quesito di diritto “al fine di individuare quale sia il contenuto dalla obbligazione del conduttore di riconsegnare la cosa locata nello stesso stato in cui l’ha ricevuta e del dovere di diligenza che deve osservare nell’uso del bene locato, ha valore probatorio preminente la descrizione dell’immobile locato effettuata dalle parti nel contratto e/o gli impegni assunti dalle parti nel contratto medesimo” settimo motivo;

– “violazione e falsa applicazione della normativa relativa al deposito cauzionale: violazione e falsa applicazione degli accordi contrattuali (art. 15 contratto di locazione), vizio di motivazione, travisamento dei fatti” formulando il seguente quesito di diritto “se l’obbligo di restituire il deposito cauzionale sussiste solo se il conduttore ha adempiuto le proprie obbligazioni, tra cui quella di restituire l’immobile in buono stato e di pagare tutti i canoni dovuti” ottavo motivo;

– “sulle spese legali”, con il quale, peraltro non si formula alcuna censura avverso la sentenza impugnata, nè è osservato il precetto di cui all’art. 366 bis c.p.c. e che si esaurisce nella affermazione”in conseguenza della riforma dei capi della sentenza che precedono, dovrà essere modificato anche il capo relativo alle spese legali, considerando cioè la piena soccombenza dei resistenti e ponendo a loro carico le intere spese anche del primo grado”.

6. Tutti i sopra indicati motivi sono inammissibili:

Gli stessi, infatti, non sono stati formulati nel rispetto della regola – tassativa – posta dall’art. 366 bis c.p.c..

6.1. Come evidenziato sopra a norma dell’art. 366 bis c.p.c. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo.

Come già detto, pertanto, la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Certo quanto precede è agevole osservare che tutti i quesiti di diritto formulati dalla parte ricorrente omettono di indicare quale sia la regula iuris fatta propria dai giudici a quibus e si risolvono in una serie di affermazioni totalmente astratte e generiche.

6.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, i motivi di ricorso prospettati sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 sono inammissibili anche sotto un ulteriore profilo.

Giusta quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente, in particolare, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di Cassazione).

Viceversa, la allegazione – come prospettate nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonchè Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. 11 agosto 2004, n. 15499, tra le tantissime).

Pacifico quanto segue si osserva che nella specie parte ricorrente pur invocando che i giudici del merito, in tesi, hanno malamente interpretato le molteplici disposizioni di legge indicate nella intestazione dei vari motivi, in realtà, si limita a censurare la interpretazione data, dai giudici del merito, delle risultanze di causa, interpretazione a parere del ricorrente inadeguata, sollecitando, così, contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse risultanze.

6.3. Tutti i motivi – ancora – con i quali vengono – denunziati vizi della motivazione della sentenza impugnata (4, 5, 6, 7 e 8 motivo) sono inammissibili perchè non conformi al modello delineato dall’art. 366 bis c.p.c..

Al riguardo, infatti, si osserva che questa Corte regolatrice – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366 bis c.p.c. introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 e applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 14 luglio 2009 (cfr. L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) – è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, la illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del que-sito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.

Conclusivamente, non potendosi dubitare che allorchè nel ricorso per Cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (In termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897), non controverso che nella specie tutti i motivi sopra indicati, formulata ex art. 360 c.p.c., n. 5 sono totalmente privi di tale indicazione, è palese che deve dichiararsene la inammissibilità (in argomento, tra le tantissime, Cass. 13 maggio 2009, n. 11094, in motivazione).

Essendo totalmente carente, in tutti i motivi, la chiara indicazione del fatto controverso (palesemente non può ritenersi tale – con riguardo al quinto motivo – la apodittica affermazione, assolutamente astratta e in alcun modo ricollegabile alla sentenza impugnata, se con la motivazione, il giudice ha l’onere di descrivere la necessità che giustifica la sentenza, nel suo aspetto positivo (descrizione del percorso logico che conduce alla decisione) e nel suo aspetto negativo (inesistenza di alternative; ed in tal modo, esclusione della potenzialità probatoria di ogni elemento di segno contrario, astrattamente idoneo a condurre a una diversa decisione), cosicchè la mancanza di uno o di entrambi questi percorsi determina vizio di motivazione) è evidente – come già anticipato – la inammissibilità di tutti i motivi sotto il profilo in questione.

Alla declaratoria, sotto il profilo indicato, di inammissibilità dei motivi dal quarto all’ottavo segue l’assorbimento di ogni altro – pur sussistente – profilo di inammissibilità dei motivi in esame.

Vuoi nella parte in cui pretendono di censurare come vizio di motivazione pretesi travisamenti dei fatti come tali denunziabili esclusivamente con la impugnazione di cui all’art. 395 c.p.c, innanzi allo stesso giudice che ha reso la sentenza, e non con ricorso per cassazione, cfr. Cass. 9 gennaio 2007, n. 213; Cass. 25 agosto 2006, n. 18498; Cass., sez. un., 20 giugno 2006, n. 14100; Cass. 18 gennaio 2006, n. 830; Cass. 30 novembre 2005, n. 26091, vuoi nella parte in cui, cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, sollecitano da parte di questa Corte una nuova valutazione delle risultanze probatorie (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087).

6.4. Quanto al nono motivo lo stesso è palesemente inammissibile, atteso che non contiene alcuna censura avverso le statuizioni del giudice a quo e si esaurisce nella sollecitazione dell’esercizio, da parte di questa Corte, dei poteri ufficiosi della stessa Corte in caso di cassazione, con rinvio o senza, della sentenza impugnata, nella eventualità fossero stati accolti i precedenti motivi.

Certo, per contro, che il ricorso non può trovare accoglimento, è palese che non può essere modificato da parte di questa Corte, il capo della sentenza relativo alle spese di primo e di secondo grado non oggetto di specifica impugnazione.

7. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso – conclusivamente – deve rigettarsi, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

PQM

LA CORTE Rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 4.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di cassazione, il 11 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2010

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