Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5197 del 26/02/2020

Cassazione civile sez. I, 26/02/2020, (ud. 24/10/2019, dep. 26/02/2020), n.5197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22745/2018 proposto da:

N.A.N.L., elettivamente domiciliato in Roma Piazza

Americo Capponi, 16, presso lo studio dell’avvocato Staccioli Carlo,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno Commissione Territoriale Riconoscimento

Protezione Internazionale Lecce;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Lecce del 22 giugno 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 24.10.2019 dal Consigliere Relatore Dott. Giuseppina

A. R. Pacilli.

Fatto

RILEVATO

che:

Con decreto del 22 giugno 2018, il Tribunale di Lecce ha respinto la domanda di N.L., nativo del (OMISSIS), volta al riconoscimento, in via gradata, della protezione internazionale o di quella sussidiaria.

Il richiedente, in sede di audizione personale dinanzi alla Commissione, premesso di essere cittadino del Gambia, di appartenere al gruppo etnico mandingo, di essere di fede musulmana, di non avere alcun livello di istruzione, di non essere sposato e di non avere figli, ha affermato di essersi allontanato dal proprio Paese alla ricerca di un luogo in cui ricevere le cure mediche, idonee a fronteggiare un’insorta malattia, interessante le vie urinarie. Ha aggiunto di essere giunto in Italia, ove, ricevuto un trattamento sanitario, è guarito, e di avere timore di tornare in Gambia, in quanto, se si ammalasse di nuovo, non riceverebbe cure adeguate.

In estrema sintesi, il Tribunale pugliese, rimarcando che il richiedente aveva riferito di essere fuggito dal paese di origine per motivi di salute, ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione generale del Gambia, descritta nel decreto impugnato con indicazione delle fonti di conoscenza.

Avverso il descritto decreto il richiedente ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, mentre il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e) ed f), nonchè art. 11 e art. 10 Cost.. Mancato riconoscimento dello status di rifugiato”. Secondo il ricorrente il tribunale non avrebbe fornito alcuna reale motivazione in ordine all’esclusione dello status anzidetto;

II) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) ed h), nonchè art. 14, lett. c), – Mancato riconoscimento della protezione sussidiaria”, non avendo il giudice di merito esaminato le osservazioni svolte dalla difesa sulla situazione politica del Gambia. Inoltre, il Tribunale non avrebbe considerato che la fragile situazione di salute del ricorrente costituisce fattore oggettivo di vulnerabilità, idoneo al riconoscimento della protezione umanitaria.

2. Il primo motivo è inammissibile.

Il ricorrente assume di essere fuggito dal proprio Paese alla ricerca di un luogo in cui ricevere le cure mediche idonee a fronteggiare un’insorta malattia, interessante le vie urinarie.

Il Tribunale pugliese, dopo aver delineato il quadro legislativo regolante il riconoscimento dello status di rifugiato, correttamente richiamando, in proposito, l’art. 10 Cost., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e) ed f), e 11 (attuativo della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. n. 722 del 1954) e le direttive comunitarie in materia (tra cui quella n. 2004/83), ed aver specificamente indicato quali sono, alla stregua dell’art. 5 del citato D.Lgs., i soggetti da cui dovrebbero provenire le persecuzioni di cui al menzionato art. 2 (lo Stato, i partiti politici o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, nonchè soggetti non statuali ove quelli appena indicati, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, adottando adeguate misure per impedire atti persecutori), ha osservato che “i fatti narrati dal richiedente non attengono a priori ad atti persecutori per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale e pertanto – anche qualora veritieri – non integrerebbero gli estremi per il riconoscimento dello status” suddetto.

Siffatta argomentazione sfugge ad ogni rilievo censorio, essendo evidente che il timore del ricorrente di ammalarsi nuovamente e di non ricevere le cure adeguate, ove pure fosse credibile il suo racconto, concretizza una vicenda non inquadrabile nel concetto di persecuzione di cui al menzionato art. 2, sicchè nessuna violazione di legge, in parte qua, può ascriversi al provvedimento impugnato, che – contrariamente a quanto lamentato, peraltro in modo del tutto generico, dal ricorrente – ha dato adeguata giustificazione del diniego dello status di rifugiato.

3. Anche il secondo motivo è inammissibile.

Il giudice di merito – con indicazione delle fonti di conoscenza ed idonea motivazione (cfr. pagine 5 e 6 del decreto impugnato) ha esaminato la situazione del Paese di origine del ricorrente e ha escluso una situazione di conflitto armato, a cui astrattamente riconnettere l’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Orbene, questa Corte (cfr., amplius, Cass. n. 32064 del 2018, in motivazione) ha chiarito che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), deve essere interpretata in conformità alla fonte Eurocomunitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi, ai quali è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di esso, di norma non costituiscono, di per sè, una minaccia individuale da definirsi come danno grave (cfr. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE). Ciò in quanto l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente se si ritenga, eccezionalmente, che gli scontri tra le forze governative di uno Stato ed uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata, che li caratterizza, raggiunge un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, rinviato nel paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (cfr., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018). Il riconoscimento della forma di protezione in questione presuppone, dunque, che il richiedente rappresenti una condizione, che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Una specifica situazione di tal fatta, però, come si è detto, è stata esclusa dal Tribunale leccese e questo accertamento costituisce un’indagine di fatto che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il che non è stato fatto, sicchè l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertirne l’esito.

4. Inammissibili sono altresì le doglianze sul diniego della protezione umanitaria, formulate anch’esse nel secondo motivo.

Il Tribunale di Lecce ha affermato che i fatti narrati (rimasti, peraltro, privi di riscontri oggettivi) non consentono di ritenere accertato che il richiedente versi in una situazione di vulnerabilità, giustificante il ricorso alla misura invocata. Difatti, riguardo ai motivi di salute, che avevano indotto il richiedente ad allontanarsi dal paese di origine, al fine di cercare cure mediche adeguate, il giudice di merito ha rimarcato sia che il ricorrente stesso aveva dichiarato di essere guarito in seguito a un intervento, eseguito in Italia, sia che il medesimo non aveva allegato recente certificazione medica, attestante altre serie malattie in atto, che altrove non sarebbero adeguatamente soggette a trattamento. Il menzionato Tribunale ha altresì aggiunto che dagli atti non emerge alcun elemento da cui evincere un effettivo inserimento nè sociale nè lavorativo, nè è stata dedotta l’instaurazione di stabili legami familiari o affettivi.

A fronte di siffatta conclusione, specifica ed argomentata, il motivo di ricorso si palesa inammissibilmente teso ad una contestazione di merito.

5. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, senza pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì rilevandosi che, risultando in atti l’avvenuta ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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