Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5194 del 04/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 04/03/2011, (ud. 08/11/2010, dep. 04/03/2011), n.5194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito A. – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso iscritto al n. 2691 del Ruolo generale dell’anno 2007

proposto da:

T.G., residente in (OMISSIS), rappresentato e

difeso per procura in calce al ricorso dagli Avvocati Romanelli Guido

Francesco e Pietro Giannella, elettivamente domiciliato presso lo

studio del primo in Roma, via Cosseria n. 5.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate;

– intimata –

e

sul ricorso iscritto al n. 4460 del Ruolo generale dell’anno 2007

proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

T.G., residente in (OMISSIS), rappresentato e

difeso per procura in calce al controricorso dagli Avvocati Guido

Francesco Romanelli e Pietro Giannella, elettivamente domiciliato

presso lo studio del primo in Roma, via Cosseria n. 5;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 82 della Commissione tributaria regionale

della Liguria, depositata il 14 dicembre 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

novembre 2010 dal consigliere relatore dott. Mario Bertuzzi;

Viste le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. FEDELI Massimo che ha chiesto il rigetto del ricorso

proposto da T.G. e l’accoglimento di quello proposto

dall’Agenzia delle Entrate.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

T.G. impugnò dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Savona l’avviso di accertamento che, sulla base di un processo verbale della Guardia di Finanza, gli contestava un maggior reddito ai fini irpef ed iva per l’anno 1995, applicando le relative sanzioni. A sostegno dell’impugnativa il ricorrente eccepì, tra l’altro, di non avere mai svolto per professione abituale attività di impresa e che l’accertamento induttivo del reddito era illegittimo in quanto aveva preso in considerazione movimenti intervenuti su un conio corrente bancario intestato a terzi.

Il giudice di primo grado, in accoglimento parziale del ricorso, ridusse l’importo del reddito imponibile in L. 25.400.000.

Proposto gravame da entrambe le parti, la Commissione tributaria regionale della Liguria, con la sentenza n. 82 del 14 dicembre 2005, riformò la decisione impugnata, rideterminando il reddito di impresa in L. 20.053.000 ed il reddito complessivo in lire 29.553.000, applicando le sanzioni al minimo edittale. In particolare, il giudice di secondo grado, pur rilevando la riferibilità del conto corrente oggetto di verifica al contribuente, che risultava autorizzato ad operarvi, rilevò che nel caso di specie non risultavano applicabili automaticamente le presunzioni stabilite dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 giungendo alla conclusione che dovevano essere imputati ai reddito del contribuente solo i versamenti per l’importo di L. 20.053.000, non sussistendo per le altre poste certezza circa la loro natura di componenti del reddito, mentre dovessero essere esclusi tutti prelevamenti, in quanto riferibili alle spese quotidiane.

Per la cassazione di questa decisione hanno proposto ricorso sia il T., con atto notificato il 10 gennaio 2007, affidato a due motivi, che l’Agenzia delle Entrate, con atto spedito a mezzo del servizio postale in data 29 gennaio 2007, sulla base di un solo motivo, cui ha replicato il contribuente con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve darsi atto che all’udienza di trattazione i ricorsi sono stati riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Il primo motivo del ricorso proposto dal contribuente, che denunzia violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 1, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 1, lamenta che la Commissione regionale abbia accertato in capo al T. l’esercizio in forma abituale di un’attività d’impresa, laddove egli invece svolgeva la sua attività di disegnatore e di progettista di interni in via esclusiva in favore della s.r.l. Arcadia, cui era legato da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa.

Si assume, al riguardo, che erroneamente il giudice di secondo grado ha preso in considerazione, ai fini di tale accertamento, documenti riferibili ad anni, quali il 1997 ed il 1998, diversi da quello in discussione (1995), e non ha invece esaminato altri documenti, quale la comparsa di risposta di V.M.R. che dimostravano come il ricorrente avesse operato sempre per conto della società Arcadia, di modo che egli era privo sia dell’elemento organizzativo che del requisito dell’abitualità, entrambi necessari per poter qualificare il suo reddito come reddito d’impresa.

Il mezzo è inammissibile.

Questa conclusione si impone in quanto le censure e le argomentazioni svolte dal motivo, sia pure sotto il profilo formale della dedotta violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4 e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51 tendono in realtà ad accreditare, attraverso un diverso apprezzamento delle prove raccolte, una ricostruzione dei fatti diversa da quella compiuta dal giudice di merito, a cui solo compete, per legge, tale accertamento. Nel giudizio di legittimità non sono infatti proponibili censure dirette a provocare una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali, rispetto a quella espressa dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti. Non essendo questa Corte giudice sul fatto, il ricorrente non può pertanto limitarsi a prospettare una lettura delle prove ed una ricostruzione dei fatti diversa da quella compiuta dal giudice territoriale, svalutando taluni elementi o valorizzando altri ovvero dando ad essi un diverso significato, senza dedurre specifiche violazioni di legge ovvero incongruenze di motivazione tali da rivelare una difformità evidente della valutazione compiuta dal giudice rispetto al corrispondente modello normativo (Cass. n. 7972 del 2007; Cass. n. n. 4770 del 2006).

Il motivo è peraltro inammissibile anche sotto altro profilo, in quanto, per come formulato, non rispetta il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione. Questa Corte ha invero già avuto modo di chiarire che il ricorrente per cassazione, qualora denunzi l’esistenza di vizi della sentenza correlati all’omessa valutazione di documenti, ha l’onere di dimostrare la sussistenza di un nesso eziologico tra l’errore denunziato e la pronuncia emessa e, a tal fine deve indicare nel ricorso, anche mediante la loro integrale trascrizione, il contenuto esatto del documento trascurato;

ciò al fine di porre in grado il giudice di legittimità di verificare la validità e decisività delle disattese deduzioni di prova sulla base del solo ricorso per cassazione, stante il principio di autosufficienza di tale atto di impugnazione, senza che si rendano necessarie indagini integrative o che possa svolgere funzione sostitutiva il richiamo “per relationem” ad atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi di giudizio (Cass. n. 11501 del 2006).

Nel caso di specie, il ricorso non riproduce il contenuto dei documenti prodotti in giudizio da cui risulterebbe che l’attività del T. oggetto di accertamento sarebbe stata in realtà espletata in anni di imposta (1997 e 1998) diversi da quello cui l’accertamento medesimo si riferisce (1995), omissione che di fatto impedisce a questa Corte di valutare la stessa rilevanza e decisività della censura. Nè può ritenersi rilevante, in termini di decisività, la circostanza che in un diverso giudizio, di cui il ricorso non precisa nemmeno l’oggetto e le parti, tale V.M. R. abbia in comparsa di risposta sostenuto che il T. aveva redatto un preventivo di lavori in qualità di rappresentante della Arcadia s.r.l., trattandosi di dichiarazione proveniente da un terzo a cui, per giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. n. 11785 del 2010; Cass. n. 5957 del 2003), può attribuirsi nel contenzioso tributario, a mente del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, un valore solo indiziario, che necessita, in quanto tale, di ulteriori riscontri e conferme, in disparte la considerazione che tale dichiarazione di terzo, provenendo da uno scritto formato ai fini della propria difesa in un giudizio, non appare nemmeno sostenuta, ai fini del giudizio sulla sua attendibilità, da quel tasso di garanzia di veridicità che invece può rinvenirsi laddove la dichiarazione del terzo sia raccolta da organi pubblici o, in contraddittorio, nei giudizi civili e penali sotto forma di deposizione testimoniale.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, e art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 censurando la sentenza impugnata per avere tenuto conto, ai fini della determinazione del reddito, dei movimenti intervenuti su di un conto corrente bancario che non era intestato al contribuente, ma ad altra persona. Sotto altro e concorrente profilo, si sostiene che il giudice di secondo grado, nel momento in cui ha ritenuto presuntivamente di ricondurre la disponibilità del predetto conto corrente al T. e conseguentemente di applicare la presunzione prevista dagli articoli di legge indicati in rubrica, ha fondato la propria decisione su una presunzione di secondo grado, violando il principio stabilito dall’art. 2727 cod. civ..

Il motivo è infondato.

Con riguardo alla prima censura, secondo cui le movimentazioni del conto corrente di cui si traila non avrebbero potuto essere prese in considerazione nei confronti del ricorrente trattandosi di conto intestato ad un terzo, è agevole rilevare che la sentenza impugnata ha superato tale dato, rilevando che il conto in questione era riconducibile al T. atteso che questi aveva l’autorizzazione ad operare sullo stesso. Questa circostanza, oltre a costituire un accertamento di fatto non censurabile nè effettivamente censurato in questa sede, appare di per sè sufficiente a giustificare la riferibilità del conio corrente in oggetto al ricorrente, atteso che un tale collegamento, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 richiamato dal successivo art. 39 a proposito del potere di accertamento e di rettifica dell’Ufficio finanziario, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2 è consentito dalla legge in ogni caso di dimostrata ed accertata disponibilità materiale del conto corrente da parte dell’interessato, al di là della sua intestazione formale (Cass. n. 21454 del 2009; Cass. n. 13391 del 2003; Cass. n. 6232 del 2003).

Infondata è anche la seconda censura secondo cui il ragionamento condotto dalla sentenza impugnata avrebbe violato la regola generale del divieto di doppia presunzione, per avere il giudice di merito dapprima accertato, avvalendosi di presunzioni, la riferibilità del conto corrente al ricorrente e quindi imputato, sempre sulla base di presunzioni, parte delle operazioni condotte su di esso ai ricavi della sua impresa.

In proposito questa Corte ha già chiarito, adottando un orientamento che il Collegio condivide e che non risulta contrastato in alcun modo dal ricorrente che, in tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 n. 7 e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51 autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formai mente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari, senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame (Cass. n. 27032 del 2007; Cass. n. 374 del 2009).

Il ricorso del contribuente va pertanto rigettato.

L’unico motivo del ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 e dell’art. 2697 cod. civ. ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, assumendo che la decisione impugnata è errata per avere, da un lato, affermato l’applicabilità nel caso di specie del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 che pongono una presunzione di imputabilità al reddito delle movimentazioni bancarie non risultanti in contabilità, e, dall’altro, ritenuto che gravava sull’Amministrazione l’onere di dimostrare l’imputabilità al reddito di impresa dei prelevamenti e dei versamenti. Si assume inoltre che la Commissione tributaria regionale è incorsa in un evidente vizio di motivazione laddove ha ritenuto che non potessero essere imputati a reddito nè parte dei versamenti, oltre l’importo di L. 20.053.000, per incertezza della loro riferibilità all’attività di impresa, nè i prelevamenti, essendo essi relativi alle esigenze di vita quotidiana del ricorrente.

Il motivo è fondato.

La Commissione tributaria regionale, da un lato ha dichiarato la riconducibilità del conto corrente oggetto della verifica tributaria alla disponibilità del ricorrente, in quanto autorizzato ad operare su di esso, dall’altro ha affermato che, trattandosi di conto intestato ad un terzo, non operano le presunzioni stabilite dal citato D.Lgs. n. 600 del 1973, art. 32 e dal D.Lgs. n. 633 del 1972, art. 51 ponendo così a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare caso per caso, cioè con riferimento ad ogni singola operazione sul conto, la sua riferibilità all’attività imprenditoriale del contribuente. Questo ragionamento non può essere condiviso, in quanto di fatto si risolve in una sostanziale disapplicazione della disposizioni di legge citate, le quali pongono nei confronti delle operazioni poste in esser sul conto corrente di cui l’interessato abbia la disponibilità, al di là, come si è visto, della sua intestazione formale, una presunzione di riferibilità delle stesse all’attività di impresa, autorizzando l’Ufficio finanziario a porre tali movimentazioni (siano esse versamenti o prelevamenti) a base delle rettifiche e degli accertamenti, salvo che il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta ovvero che esse si riferiscono ad operazioni estranee all’attività di impresa. Da tali disposizioni discende. pertanto, che laddove l’Amministrazione fornisca la prova o risulti comunque accertata la disponibilità in capo al contribuente del conto corrente bancario, deve trovare applicazione la presunzione di legge in esse stabilita.

Il presupposto di fatto risiede, quindi, nella diretta disponibilità del conto corrente da parte del contribuente e da esso, una volta accertato, non può che conseguire l’applicazione della presunzione legale circa l’imputazione delle operazioni compiute sul conto al reddito di impresa. Affermare la premessa e negare la conseguenza, come in concreto fatto dalla sentenza impugnata, si risolve in una sostanziale disapplicazione della norma di legge che nella situazione in esame, pone in favore dell’Amministrazione una presunzione legale ed a carico del contribuente l’onere di superarla, dimostrando, come già osservato, di avere tenuto conto della singola operazione ai fini della dichiarazione del proprio reddito ovvero che essa è estranea all’attività oggetto di imposizione.

In tali considerazioni deve ritenersi rimanga assorbita la censura rivolta alla statuizione della decisione impugnata che ha escluso dal computo parte dei prelevamenti, per incertezza circa la loro riferibità all’attività di impresa, atteso che la pronuncia sul punto appare una diretta conseguenza del malgoverno da parte del giudice di merito della disposizione di legge citata. Va invece esaminata ed accolta la censura di vizio di motivazione con riguardo alla statuizione che ha escluso dal computo i prelevamenti. Il mero riferimento di tali operazioni alle esigenze della vita quotidiana, che si legge nella decisione, appare infatti all’evidenza formula insufficiente a spiegare la loro sottrazione alla presunzione legale, in assenza di ulteriori indicazioni circa Pentita degli importi, la frequenza dei prelievi e la specifica natura e consistenza della spesa cui singolarmente erano destinati.

Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va pertanto accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale della Liguria che applicherà, nel decidere, il principio di diritto sopra indicato e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.

PQM

Riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso del T. ed accoglie quello dell’Agenzia delle Entrate; cassa, in relazione a quest’ultimo, la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese, ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale della Liguria.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2011

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