Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5191 del 26/02/2020

Cassazione civile sez. I, 26/02/2020, (ud. 27/06/2019, dep. 26/02/2020), n.5191

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4275/2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato a Forlì, viale Giacomo

Matteotti n. 115, presso lo studio dell’avvocato Rosaria Tassinari,

che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il

20/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/06/2019 dal Consigliere Dott.ssa Paola GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna rigettava la domanda proposta da M.S., proveniente dal (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale riferiva che il richiedente aveva dichiarato di essere nato a (OMISSIS), nel distretto del (OMISSIS), e di aver dovuto occuparsi fin da tenera età del sostentamento della famiglia, lavorando come imbianchino. La condizione economica peggiorava ulteriormente quando nel giugno del 2015 a causa di una terribile alluvione la casa familiare veniva completamente distrutta. A fronte delle predette difficoltà il ricorrente in accordo con il padre invalido decideva di lasciare il paese di origine per trasferirsi in Libia credendo alle parole di un trafficante che gli diceva di poter ottenere importanti guadagni svolgendo la il proprio lavoro. Il trafficante gli chiedeva la somma di 450.000 taka che la famiglia pagava in parte con i soldi della vendita di un fondo di proprietà non andato perso con l’alluvione mentre per il restante importo veniva contratto un debito con un usuraio del villaggio. In Libia tuttavia il ricorrente pur lavorando non veniva retribuito ma al contrario più volte picchiato e minacciato di morte; l’usuraio pretendeva la somma prestata recandosi a casa del ricorrente e minacciando i genitori in caso di mancato pagamento. Per la situazione di guerriglia presente in Libia e l’impossibilità di poter guadagnare con il proprio lavoro decideva di abbandonare quelle terre raggiungendo le coste italiane. Aveva precisato di temere che se avesse fatto ritorno al proprio paese avrebbero potuto fargli del male perchè non ha onorato il debito. Inoltre tutta la sua famiglia dipende economicamente da lui e conta sul fatto che lavorando qui mandi loro i soldi.

3. Il Tribunale riteneva che le motivazioni narrate fossero di ordine economico e che la vicenda non consentisse di ravvisare i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, nè un’ipotesi di danno grave alla persona nel senso indicato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) non sembrando sussistere il rischio che il richiedente fosse sottoposto a pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti nel paese di origine. In particolare, riteneva che le temute ripercussioni da parte dei creditori rimasti soddisfatti non concretizzassero il rischio di un attentato alla vita, all’integrità fisica o la dignità personale dell’istante, e che oltretutto provenendo da un agente privato il ricorrente neppure aveva allegato di essersi rivolto all’autorità del proprio stato o ad altro organismo deputato a fornire protezione a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 56 e che tali enti non avessero voluto o potuto tutelarlo adeguatamente, presupposto questo imprescindibile per l’accoglimento di qualsiasi domanda di protezione internazionale.

4. In merito alla valutazione richiesta ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) argomentava che l’esame delle più recenti d’accreditate country of origin informations (C.O.I.), che richiamava, non evidenziavano in (OMISSIS) alcun tipo di conflitto armato in corso, tale da poter porre in serio pericolo l’incolumità della popolazione civile.

5. Neppure poteva essere riconosciuta la protezione umanitaria, che richiede la sussistenza di una specifica situazione di vulnerabilità, sicchè non poteva avere rilievo di per sè la raggiunta integrazione in Italia (svolgimento di attività lavorativa).

6. Per la cassazione del decreto M.S. ha proposto ricorso, affidato ad un unico articolato motivo, cui il Ministero dell’Interno non ha opposto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il richiedente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e degli artt. 2 e 3 CEDU, nonchè difetto di motivazione, travisamento dei fatti omesso esame di fatti decisivi.

Lamenta che il Tribunale non abbia applicato il principio dell’onere della prova attenuato così come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27310 del 2008 e non abbia valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Lamenta altresì che il Tribunale non abbia valutato adeguatamente la situazione del (OMISSIS), quale risulta dal rapporto di Amnesty International 2015/2016 e del successivo più attuale del 2016/2017 che evidenzia una condizione politica molto critica, gravi problemi di ordine pubblico, forti limitazioni di libertà fondamentali, violenze perpetrate nei confronti delle persone più deboli ed indifese, risultando in particolare numerosi scontri tra sostenitori dei due partiti politici che da decenni si contendono il potere e attacchi terroristici degli estremisti islamici.

8. Il ricorso proposto non è fondato.

La domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare – alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione, sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. 15/02/2018, n. 3758).

9. Nel caso, il Tribunale si è attenuto al principio secondo il quale le liti tra privati per ragioni economiche non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione. Nel caso peraltro, non è contestata l’affermazione del Tribunale secondo la quale neppure risulta che il ricorrente abbia di fatto richiesto protezione agli organi pubblici e che questa sia stata negata.

10. Le circostanze fattuali tali da determinare il pericolo di coinvolgimento in atti di persecuzione nel paese di origine avrebbe dunque dovuto essere dedotto in giudizio dall’attuale ricorrente, che però non vi ha adeguatamente provveduto, come risulta dallo stesso ricorso per cassazione, in cui si allega, al più, la compatibilità del racconto con tale situazione.

11. Nella parte in cui si sostanzia in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle dichiarazioni rese il motivo è poi inammissibile, considerato che il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico che desunto da un vaglio rigoroso delle risultanze di causa.

12. Va poi ricordato che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), devi essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018 e Cass. n. 30105 del 2018).

13. La delibazione circa l’esclusione dell’esistenza in (OMISSIS) di una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) è stata inoltre compiuta dalla Corte di merito ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, correttamente attingendo le informazioni elaborate da agenzia di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale (Cass. n. 25083 del 23/10/2017), le cui risultanze non sono efficacemente contrastate mediante prospettazione di circostanze di fatto decisive di segno contrario, tale non essendo la (mera) possibilità di atti ostili provenienti da cellule terroristiche riferita dai siti valorizzati nel ricorso.

14. Infondato è parimenti il motivo nella parte in cui lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, secondo la normativa anteriore alla modifica operata con il D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.

15. E’ evidente infatti che l’attendibilità e la rilevanza della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante anche ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass. 4455/2018), la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi. La rilevanza di quanto narrato dall’istante è stata, peraltro, esclusa, nel caso di specie, per i motivi suesposti.

16. Nessuna rilevanza può, inoltre, attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

17. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072)

18. Segue coerente il rigetto del ricorso.

19. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva del Ministero.

20. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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