Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5187 del 04/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 04/03/2011, (ud. 08/11/2010, dep. 04/03/2011), n.5187

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito A. – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ANAREV s.r.l., elett.te dom.ta in Roma, via F. Confalonieri 5, presso

lo studio dell’avvocato Manzi Luigi, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Giovanni Maccagnani, per delega a margine del

ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

generale dello Stato, presso cui è domiciliata in Roma, via dei

Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 66/21/04 della Commissione tributaria

regionale di Venezia, sezione staccata di Verona, emessa il 6

dicembre 2004, depositata il 13 dicembre 2004, R.G. 3059/02;

udita la relazione della causa svolta all’udienza dell’8 novembre

2010 dal Consigliere Dott. Giacinto Bisogni;

udito l’Avvocato Carlo Albini per la ricorrente (con delega avv.to

Manzi);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società contribuente proponeva opposizione contro tre avvisi di rettifica dell’Ufficio Iva di Verona per gli anni di imposta 1994 (indebita detrazione di un costo e omessa fatturazione di operazioni imponibili), 1995 (omessa fatturazione in vendita, omessa autofatturazione in acquisto per cessione all’esportazione, omessa fatturazione di operazioni imponibili) e 1996 (indebita detrazione di costi, omessa fatturazione in vendita, omessa auto-fatturazione in acquisto per cessione all’esportazione, omessa fatturazione di operazioni imponibili). Deduceva la ricorrente il difetto di motivazione e specificità degli avvisi nonchè la loro infondatezza nel merito.

La C.T.P. di Verona accoglieva parzialmente ritenendo dovuta l’IVA sulle vendite accertate e la sanzione relativa alla mancata auto- fatturazione.

Proponeva appello la società Anorev e appello incidentale l’Amministrazione finanziaria.

La C.T.R. ha rigettato il ricorso principale e accolto parzialmente quello incidentale.

Ricorre per cassazione la società contribuente deducendo quattro motivi di impugnazione.

Si difende con controricorso l’Agenzia delle Entrate ed eccepisce preliminarmente la inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 365 c.p.c in quanto la procura rilasciata a margine del ricorso dalla sig.ra A., legale rappresentante della ANOREV s.r.l., risulterebbe generica.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso dovendo considerarsi del tutto intelligibile e inequivoca, nell’attestazione della volontà della amministratrice della ricorrente di conferire agli avvocati Manzi e Maccagnani la rappresentanza nella presenti, fase del giudizio, la procura speciale rilasciata a margine del ricorso per cassazione.

Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36.

La ricorrente deduce sostanzialmente il difetto di motivazione anche se, irritualmente, attraverso la indicazione del cit. D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36. La deduzione di inesistenza/insufficienza della motivazione è, peraltro, del tutto generica e indeterminata, oltre che riferita, anche qui irritualmente, all’erroneo mancato accoglimento di eccezioni preliminari relative alla irregolarità della procedura che la ricorrente non specifica in cosa siano consistite. L’insufficienza o erroneità della motivazione in diritto non comporta mai un vizio insanabile della motivazione perchè il giudice di legittimità se ritiene comunque la decisione fondata ha il dovere di integrare o correggere la motivazione. Va pertanto ritenuto inammissibile il motivo.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 51, comma 2, in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c. e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3.

La ricorrente attribuisce la violazione del citato art. 51 alla mancata esibizione della documentazione sulla base della quale l’organo di verifica aveva formulato le sue contestazioni. Inoltre la ricorrente ritiene violato l’art. 51 perchè la disciplina delle presunzioni legali in materia di IVA non prevede alcun riferimento ai prelevamenti quali indici di operazioni imponibili. D’altra parte, secondo la ricorrente, l’Amministrazione finanziaria ha semplicisticamente attribuito alla società tutto ciò che risultava sul conto corrente bancario di terzi, estendendo soggettivamente e indeterminatamente (per masse di operazioni) l’operatività della presunzione legale di cui all’art. 51 e applicando in materia di IVA lo schema dell’interposizione fittizia di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3 in assenza di qualsiasi prova appagante circa l’interposizione fittizia dei terzi in relazione alle operazioni bancarie che dovevano essere valutate individualmente.

Le varie censure sopra menzionate devono considerarsi infondate.

La società contribuente è stata messa in condizione di conoscere quali operazioni le venivano imputate in sede di rettifica ai fini IVA e di prendere visione degli assegni bancari riferibili ad esse.

Questo è l’assunto su cui si basa la motivazione della sentenza impugnata e che esclude una violazione della norma di cui all’art. 51. Sotto il profilo del difetto di motivazione su tale specifico punto il motivo di ricorso è del tutto generico e privo di riferimenti a specifiche contestazioni che la C.T.R. avrebbe omesso di considerare o avrebbe valutato senza congruità logica.

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, è applicabile (anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa) la presunzione, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 secondo cui sia i prelevamenti che i versamenti operati sui conti correnti bancari vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito (Cass. Civ. sez. 5 n. 11750 del 12 maggio 2008). Analoga presunzione è applicabile in tema di accertamento dell’IVA. Ritiene infatti la giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. Civ., sezione 5, n. 7813 del 31 marzo 2010) che l’emissione di assegni da parte dell’amministratore, non giustificata da documentazione commerciale, fa legittimamente presumere che la società abbia effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni, potendosi partire dalla presunzione legale prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, per la quale i prelevamenti annotati nei conti correnti bancari sono serviti per acquistare merci successivamente commercializzate, per poi costruire su tale prova legale i conseguenti passaggi logici, fondati sull’id quod plerumque accidit e sulla presunzione legale di vendita dei beni acquistati non rinvenuti nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività – prevista dal D.P.R. n. 633 cit., art. 53, comma 1, applicabile “ratione temporis”, poi sostituito dalle norme contenute nel D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441 – e, quindi, concludere che tali merci sono state rivendute dalla società con la percentuale di ricarico normalmente applicata.

Quanto alla censura relativa all’imputazione delle operazioni ricollegate alla interposizione fittizia dei terzi si rileva che essa non ha costituito oggetto del gravame di appello tanto che non è stata presa affatto in considerazione da parte della C.T.R. Va poi rilevato che alla luce della giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. , sez. 5, n. 2980 del 1 marzo 2002 e n. 21454 del 9 ottobre 2009) in tema di IVA, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2 e 7, l’acquisizione, dagli istituti di credito, di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente e l’utilizzazione dei dati da essi risultanti ai fini delle rettifiche e degli accertamenti (se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), non possono ritenersi limitate, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati alla società, ma riguardano anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorchè risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di singoli dati od elementi di essi.

Inoltre va rilevato che la censura è stata prospettata con assolata genericità e senza alcun riferimento alle circostanze, non contestate dalla ricorrente, per cui la rettifica si è basata sulla verifica effettuata sui conti correnti bancari dell’amministratrice unica, A.G., e della di lei figlia, Z. S., conti che risultavano interessati da ingenti movimenti di denaro non riferibili alle fonti reddituali proprie delle intestatarie. Circostanze almeno astrattamente idonee a far scattare la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari alla società.

Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c, la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 56.

In merito la ricorrente svolge delle considerazioni del tutto astratte sui presupposti che fanno operare legittimamente una presunzione semplice senza portare alcuna argomentazione specifica che possa giustificare l’impugnazione per violazione di legge della sentenza della C.T.R..

Con il quarto motivo, in via subordinata, la ricorrente richiede 1 applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 principio di legalità con riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41.

Ritiene la ricorrente che l’applicazione da parte della C.T.P. della disciplina di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6 è stata corretta perchè tale norma andava applicata, oltre che retroattivamente, anche d’ufficio sia in base alla disposizione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 sia in base all’art. 3 dello Statuto del contribuente.

Il motivo è infondato. L’abrogazione, da parte del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 29, comma 1, lett. a), della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 20 recante il cosiddetto principio di ultrattività delle disposizioni sanzionatorie, e la conseguente introduzione da parte del medesimo D.Lgs. n. 472 del 1992, art. 3 del principio del “favor rei” non comporta l’applicabilità d’ufficio, in ogni stato e grado di tale principio se non con riferimento alle violazioni già contestate al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 472 del 1992 e oggetto di contenzioso in essere a tale data (fra le molte pronunce di questa Corte si veda Cass. civ. n. 17069 del 22 luglio 2009). L’art. 25 del citato D.Lgs. prevede infatti che le disposizioni del decreto si applicano alle violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione non sia stata irrogata alla data della sua entrata in vigore mentre al secondo comma prevede che il principio del favor rei si applichi anche ai procedimenti in corso a tale data. Non vi è quindi nel caso in esame un problema di applicazione retroattiva del principio del favor rei di cui al citato art. 3 dato che le violazioni furono contestate dalla Agenzia delle Entrate di Verona in data 27 aprile 2000. L’Amministrazione avrebbe dovuto applicare e la società contribuente era in grado di invocare il nuovo regime sanzionatorio sin dal momento della proposizione del ricorso in primo grado e correttamente la C.T.R. ha ritenuto tardiva la sua deduzione effettuata in sede di memoria conclusionale davanti la C.T.P. e ha conseguentemente accolto sul punto l’appello dell’Agenzia delle Entrate trattandosi di domanda che presupponeva un autonomo motivo di ricorso.

Il ricorso va pertanto respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare interamente le spese del giudizio di cassazione anche in relazione all’applicazione di un regime sanzionatorio superato da parte dell’Amministrazione finanziaria.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa interamente le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2011

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