Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5173 del 28/02/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 28/02/2017, (ud. 17/01/2017, dep.28/02/2017),  n. 5173

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24707/2012 R.G. proposto da:

(OMISSIS) Srl, in persona del legale rappresentante, e

C.E. quale erede di S.F., già titolare della (OMISSIS)

di S.F., confluita nella (OMISSIS) Srl, rappresentati e

difesi dall’Avv. Amedeo GRASSOTTI, dall’Avv. Giorgio PISTONI e

dall’Avv. Rita GRADARA, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultima in Roma, Largo Somalia, n. 67;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia – sez. distaccata di Brescia n. 84/67/12, depositata il 26

marzo 2012;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 gennaio 2017

dal Cons. Dott. Giuseppe Fuochi Tinarelli;

udito l’Avv. Rita Gradara che si riporta al ricorso;

udito l’Avv. Gianna Galluzzo che si riporta al controricorso;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 84 del 26 marzo 2012 la CTR della Lombardia – sez. distaccata di Brescia ha respinto l’appello della (OMISSIS) Srl e di C.E., erede di S.F., già titolare dell’impresa individuale (OMISSIS) confluita nell’indicata Srl, confermando la decisione della CTP di Mantova, che aveva ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle entrate per indebita detrazione IVA per gli anni 2005 e 2006, emerso a seguito di verifica nei confronti della Exportmaxx Srl da parte dell’Ufficio finanziario di Manfredonia.

Il giudice d’appello, in particolare, in relazione all’importazione intracomunitaria di autoveicoli usati (in ispecie, dal (OMISSIS)) effettuata dal contribuente per il tramite della Exportmaxx Srl, identificata come tipica “cartiera” fittiziamente interposta tra il cedente europeo e il cessionario mantovano, riteneva configurabile la fattispecie di frode carosello ed assente, per contro, la prova della buona fede del contribuente, ossia che questi avesse trattato ignorando, e non potendo neppure conoscere, l’altrui frode.

2. I contribuenti hanno proposto ricorso per cassazione con sette motivi. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che conclude per l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

Nel corso del giudizio è intervenuta la dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) Srl.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, non avendo la CTR dichiarato la nullità degli avvisi di accertamento per omessa allegazione e descrizione degli allegati al p.v.c. dell’Ufficio finanziario di Manfredonia in essi richiamato.

3.1. Il motivo è infondato.

Nel regime introdotto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, “l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (Cass. n. 9032 del 2013, Rv. 626034; Cass. n. 24210, n. 21870 e n. 21284 del 2016).

Orbene, la decisione impugnata nel rigettare l’eccezione ha affermato che al contribuente è “stato contestato ciò che era emerso nei confronti della società sangiovannese, e cioè la inesistenza di qualunque struttura commerciale, la velleitarietà di una organizzazione societaria facente capo ad uno sconosciuto Sas Dimitri, la “rivendita” all’operatore italiano in perdita rispetto agli “acquisti” effettuati presso il cedente intracomunitario, la evidente singolarità di questa triangolazione (OMISSIS) per autoveicoli che… vengono caricati in (OMISSIS) e scaricati direttamente a (OMISSIS); la anticipazione del prezzo da (OMISSIS) a Exportmaxx prima dell’arrivo delle auto, con accredito su un conto aperto in germania, e da ultimo, e non meno importante, perchè qui sta tutto il meccanismo delle frodi carosello, la assoluta “inesistenza fiscale” di Exportmaxx…”, così uniformandosi al su indicato principio di diritto.

La doglianza, peraltro, nella misura in cui prospetta l’insufficienza e la genericità delle indicazioni relative agli allegati, è comunque carente sotto il profilo dell’osservanza del principio di autosufficienza, non avendo riprodotto l’avviso di accertamento, nè il p.v.c., necessari per consentirne la diretta conoscenza e fruibilità da parte della Corte.

4. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729, c.c., del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, per non aver l’Amministrazione finanziaria soddisfatto l’onere probatorio su essa ricadente di dimostrare la simulazione dei rapporti commerciali, e, quindi, la falsità soggettiva delle fatture, ed aver la sentenza impugnata erroneamente fondato tale falsità sulla qualificazione della Exportmaxx Srl come soggetto commercialmente inesistente a fronte dell’effettività dei suoi rapporti commerciali.

4.1. Con il terzo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza con riguardo alle medesime circostanze di cui al secondo motivo, avendo la sentenza impugnata ignorato la questione della mancanza di prove della simulazione dei rapporti commerciali, senza spiegare come possa essere compatibile l’effettività dei rapporti commerciali con l’asserita inesistenza della Exportmaxx Srl.

4.2. Con il quarto motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, ed insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione per aver considerato inesistente la Exportmaxx attesa l’effettività dei rapporti commerciali, attivi e passivi, posti in essere dalla suddetta società.

4.3. Con il quinto motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, nonchè del principio comunitario di tutela del contribuente in buona fede, avuto riguardo, specificamente, alla mancanza di vantaggi economici da parte della (OMISSIS) in relazione alle transazioni eseguite con la Exportmaxx, che praticava prezzi superiori a quelli del mercato italiano, alla mancanza di prova sui prezzi pagati da quest’ultima all’estero e, comunque, sulla rivendita sottocosto, all’omessa considerazione del p.v.c. della Guardia di Finanza del 19 marzo 2009, che aveva accertato la congruità del prezzo delle autovetture, nonchè all’impossibilità per il ricorrente di sapere della condotta evasiva della Exportmaxx, che aveva occultato le sue inadempienze attestando falsamente, con certificazioni sostitutive di atti notori, inviate anche alla Motorizzazione civile, di aver ottemperato agli obblighi fiscali. Rileva altresì la contraddittorietà della motivazione per aver la sentenza, oltre ad escludere la buona fede, ritenuto configurabili indizi di un accordo collusivo.

5. I motivi da due a cinque, che possono essere esaminati congiuntamente per stretta connessione, sono infondati.

La tematica della detraibilità dell’IVA, nel caso di fatturazione per operazioni inesistenti (oggettivamente o soggettivamente) o per operazioni comunque iscritte in un meccanismo negoziale attuato allo scopo di frodare il fisco (comunemente dette “frodi carosello”), è stata oggetto di numerose decisioni di questa Corte, che hanno investito – alla luce di ripetuti interventi della Corte di Giustizia – che cosa deve essere provato e come è ripartito l’onere della prova tra fisco e contribuente (tra le tante v. Cass. 24490 del 2015, Cass. n. 20059 del 2014, Rv. 632476, Cass. 24426 del 2013, Rv. 629419, Cass. 23074 del 2012, Rv. 625037).

Va premesso, innanzitutto, che una regolare fattura, conforme ai requisiti di forma e contenuto richiesti dalla vigente disciplina (e, in ispecie, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21), fa presumere la verità di quanto in essa rappresentato, sicchè costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA, spettando all’Ufficio, di fronte alla sua esibizione, provare il difetto delle condizioni per la detrazione.

5.1. Nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, la fattura è la mera espressione cartolare di una operazione mai venuta in essere: la relativa prova ricade sull’Amministrazione finanziaria, mentre il contribuente è tenuto a fornire, in tale evenienza, la prova contraria. Attesa l’assenza di operazioni non è, invece, configurabile alcuna buona fede.

5.2. Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti – come quella qui controversa – invece, l’operazione è effettiva ed esistente ma la fattura è stata emessa da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario).

L’IVA, conseguentemente, non è, in linea di principio, detraibile perchè versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta. In altri termini, non entrano nel conteggio del dare ed avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, in quanto tali fatture riguardano operazioni, per quanto lo riguarda, inesistenti, senza che rilevi che le stesse fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti (v. Cass. 20060 del 2015, Rv. 636663).

Ai sensi dell’articolo 168, lett. a), della direttiva 2006/112, infatti, per poter beneficiare del diritto a detrazione, occorre, da un lato, che l’interessato sia un soggetto passivo ai sensi di tale direttiva e, dall’altro, che i beni o servizi invocati a base di tale diritto siano utilizzati a valle dal soggetto passivo ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e che, a monte, detti beni o servizi siano forniti da un altro soggetto passivo.

5.3. In una simile ipotesi è, invece, configurabile, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, una esigenza di tutela della buona fede del contribuente, fermo restando, in ogni caso, che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione, sicchè un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA dev’essere considerato, ai fini della direttiva 2006/112, partecipante a tale evasione, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle.

Nella ripartizione dell’onere della prova occorre considerare che il diniego del diritto a detrazione segna un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce: incombe, quindi, sull’amministrazione tributaria provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, gli elementi oggettivi – senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono – che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente (Corte di Giustizia, in C-285/11, Bonik; Corte di Giustizia, in C277/14, Ppuh, par. 50).

Il concreto definirsi del contenuto di tale onere è poi rapportato alla effettiva complessità della vicenda: nei casi di operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare – che costituiscono l’ipotesi più semplice e comune ed è quella ascritta nella vicenda in esame – caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano, fittizio, nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), la giurisprudenza della Corte ha evidenziato che tale onere “può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sè, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poichè l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta” (Cass. n. 24426 dei 2013).

5.4. Nel caso di specie, la decisione impugnata si è attenuta ai principi sopra enunciati, individuando il punto nodale per qualificare le operazioni poste in essere come soggettivamente inesistenti nella “accertata inesistenza (se non come mezzo utilizzato per il gioco della triangolazione fittizia) di Exportmaxx come soggetto commerciale, desunta dalla sua totale evasione dagli obblighi tributari, in qualche modo già anticipata dalla fatturazione (in rivendita) a prezzi (al netto di IVA)” – non venendo quest’ultima riversata – “inferiori a quelli di acquisto”, e tali circostanze sono idonee a soddisfare l’onere probatorio da parte dell’Amministrazione fiscale della natura di “cartiera” della società interposta.

Non solo, anche sotto il profilo della conoscenza o conoscibilità da parte del contribuente, con l’uso dell’ordinaria diligenza, sulla sostanziale inesistenza del proprio contraente, la valutazione operata dal giudice d’appello, ancorata alla vicenda concreta, è conforme ai principi di diritto sopra enunciati, nè palesa insufficienze o incongruità poichè pone in evidenza che (la Exportmaxx) “si tratta di una società costituita solo il 19.9.2005” (ossia pochi mesi prima delle transazioni compiute) “e di cui non viene indicato nè un amministratore, nè un dipendente con conoscenze ed esperienze del mercato comunitario” (condizioni indispensabili per orientarsi sulle complesse regole che lo assistono), elementi considerati di tale incidenza da far quasi propendere la CTR – senza che in ciò sia rilevabile alcuna contraddizione – per ritenere che la partecipazione all’operazione della stessa (OMISSIS) fosse consapevole.

Del resto, nei confronti della Exportmaxx era anche emerso che i veicoli venivano caricati in (OMISSIS) e scaricati direttamente a (OMISSIS) e che il prezzo era versato anticipatamente dalla (OMISSIS) prima dell’arrivo delle auto, con accredito su un conto aperto in (OMISSIS), elementi che integrano una “serie di indizi circostanziali” che, come si esprime la CTR, “accentuano il sapore della partecipazione cosciente e volontaria”, delineando il contesto in cui si sono svolte le operazioni.

La CTR ha poi ritenuto che le circostanze introdotte dal contribuente non fossero idonee a fornire una prova contraria.

Va del resto escluso che a tale scopo sia sufficiente la regolarità della documentazione contabile esibita e la mera dimostrazione che la merce sia stata effettivamente consegnata o che sia stato effettivamente versato il corrispettivo, “trattandosi di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perchè relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode” (v. Cass. n. 17377 del 2009; Cass. n. 867 del 2010; Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 428 del 2015); come pure inidonea è l’asserita congruità dei prezzi praticati dalla Exportmaxx, che sarebbero stati, secondo quanto sostenuto in ricorso, addirittura superiori a quelli del mercato italiano (circostanza che, per inciso, porterebbe ancor più a dubitare della buona fede del contribuente, potendosi giustificare l’operazione compiuta, in sè antieconomica, solo in relazione alla successiva indebita ritenuta dell’IVA). Analoga osservazione va fatta quanto all’avvenuta presentazione, da parte della società “cartiera”, di dichiarazioni sostitutive con le quali attestava falsamente di aver adempiuto gli obblighi tributari, trattandosi di modalità della medesima condotta frodatoria.

Le censure, del resto, si presentano, su questi profili, piuttosto in termini di non condivisione del percorso motivazionale adottato dal giudice di merito sulla base del materiale probatorio disponibile.

Orbene, il ricorso per cassazione non dà vita ad un terzo grado di giudizio, attraverso il quale far valere la pretesa ingiustizia della sentenza impugnata, bensì un rimedio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione determinata dall’ambito dei vizi dedotti, sicchè, nella specie, le suddette doglianze sono pure inammissibili in quanto tese a sollecitare una nuova valutazione di risultanze di fatto, non consentita in sede di legittimità.

6. Con il sesto motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1; nn. 4 e 5, l’omessa e insufficiente motivazione con riguardo al richiamo dell’Ufficio al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60 bis, che esclude la falsità soggettiva delle fatture, nell’accertamento afferente all’anno 2006, nonchè omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., rilevando, in particolare, la contraddittorietà dell’avviso di accertamento che ha escluso la detraibilità dell’IVA per la falsità soggettiva delle fatture, mentre dall’altro ha ritenuto i presupposti per la responsabilità solidale del cessionario con il venditore ex art. 60 bis cit., norma che, invece, presuppone la natura autentica delle fatture e delle relative operazioni.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte, infatti, “l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del tantum devolutum quantum appelatum, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate” (Cass. n. 11738 del 2016, Rv. 640032), e che “ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di Cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi” (Cass. n. 15367 del 2014, Rv. 631768).

Nella specie, parte ricorrente non ha riprodotto l’atto di ricorso ma si è limitato a richiamarlo, con un generico riassunto; nè, del resto, ha riprodotto, nella sua integrità, l’avviso di contestazione, sicchè non è neppure dato conoscere la natura della contestazione originaria.

Occorre osservare, peraltro, che l’art. 60 bis cit., trova il suo fondamento nell’intento di assicurare, attraverso il meccanismo della solidarietà del cessionario rispetto al cedente, che il versamento dell’IVA sia comunque garantito e, dunque, nell’art. 21, n. 3, della sesta direttiva che – come affermato dalla Corte di Giustizia, in C-384/04, Commissioners of Customs & Excise e Attorney General contro Federation of Technological Industries e altri – “permette ad uno Stato membro di adottare una normativa ai sensi della quale un soggetto passivo, a favore del quale sia stata effettuata una cessione di beni o una prestazione di servizi e che era a conoscenza del fatto o aveva ragionevoli motivi per sospettare che la totalità o parte dell’imposta sul valore aggiunto dovuta per tale cessione o tale prestazione, ovvero per qualsiasi altra cessione o qualsiasi altra prestazione precedente o successiva, non sarebbe stata versata, può essere obbligato a versare tale imposta in solido con il debitore”.

Il legislatore, inoltre, ha introdotto la norma (nella formulazione rilevante ratione temporis) con la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 386, per determinate categorie di beni (individuati con il D.M. 22 dicembre 2005) per il dichiarato obbiettivo di predisporre misure avanzate di contrasto alle frodi comunitarie e, in particolare, carosello.

L’art. 60 bis, comma 1, infatti, statuisce espressamente che “Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, su proposta degli organi competenti al controllo, sulla base di analisi effettuate su fenomeni di frode, sono individuati i beni per i quali operano le disposizioni dei commi 2 e 3”, mentre nel citato D.M. si precisa “la necessità di individuare i settori per i quali opera la solidarietà nel pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, al fine di contrastare i fenomeni di frode che incidono direttamente sul bilancio dell’Unione europea…”).

Orbene, una volta provata la consapevolezza e la non incolpevole ignoranza della frode, con disconoscimento della detrazione, il credito del fisco è soddisfatto raggiungendosi il medesimo effetto economico dell’affermazione della solidarietà. Nè, peraltro, i ricorrenti hanno dedotto che, in tal modo, il tributo sarebbe corrisposto due volte, sicchè la doglianza resta comunque priva di interesse.

7. Con il settimo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.L. n. 16 del 2002, art. 8, che, in materia di falsità soggettiva delle fatture, dispone la deducibilità dei costi che non concorrono alla commissione di reati, ritenendo applicabile la disciplina anche alla materia dell’IVA.

7.1. Il motivo è infondato.

Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8 comma 2, conv. nella L. n. 44 del 2012, testualmente dispone “Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi”.

La norma limita esplicitamente la sua portata alla formazione del reddito e, dunque, alla materia delle imposte sui redditi, giustificandosi tale indicazione proprio sul presupposto che i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, in genere, per essere commercializzati e venduti.

Esula dall’ambito della disciplina, invece, la detrazione dell’IVA, nè appare ipotizzabile una applicazione estensiva od analogica, di per sè inammissibile, tanto più attesa la diversità strutturale tra i diversi tributi, e il cui riconoscimento, fuori dai presupposti per la tutela della buona fede, si porrebbe in contrasto con i principi secondo il quale la lotta contro evasioni, elusioni ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto ed incoraggiato dalla direttiva 2006/112.

8. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.260,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15%, accessori di legge ed eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2017

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