Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 515 del 15/01/2020

Cassazione civile sez. III, 15/01/2020, (ud. 05/07/2019, dep. 15/01/2020), n.515

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20033-2018 R.G. proposto da:

M.G., D.L.G., D.L.A., in

proprio e in qualità di eredi di D.L.U., rappresentati e

difesi dall’Avv. Valerio Borghesani e dall’Avv. Omero Nardi, con

domicilio eletto in Roma presso lo Studio di quest’ultimo, via della

Bufalotta, n. 1281;

– ricorrenti –

contro

SOCIETA’ CATTOLICA DI ASSICURAZIONE COOPERATIVA A R.L., in persona

del procuratore B.A., in qualità di cessionaria

della DUOMO UNIONE ASSICURAZIONI S.P.A., rappresentata e difesa

dall’Avv. Filippo Maria Corbò e dall’Avv. Federico Maria Corbò,

con domicilio eletto in Roma presso il loro Studio, via Bertoloni,

n. 55;

– controricorrente –

e contro

MU.FA.GI., R.R., MU.ST.,

MU.TI., in qualità di eredi di Mu.Pa.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3510/17 della Corte d’Appello di Roma,

depositata il 25/05/2017.

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 5 luglio 2019

dal Consigliere Marilena Gorgoni.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.G., D.L.G., D.L.A., in proprio e in qualità di eredi di D.L.U., ricorrono per la cassazione della sentenza n. 3510/2017 della Corte d’Appello di Roma, pubblicata il 25/05/2017.

Resiste con controricorso la Società Cattolica di Assicurazioni, in qualità di cessionaria del portafoglio assicurativo della Duomo Assicurazioni S.p.A..

I ricorrenti deducono di avere agito in giudizio nei confronti di R.R., Mu.Fa.Gi., Mu.St. e Mu.St., eredi di Mu.Pa., nonchè nei confronti di Uni One Assicurazioni S.p.A., già Uniass, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’incidente stradale, verificatosi a Roma il 21 giugno 1993, in cui fu coinvolto D.L.U.. Quest’ultimo era deceduto presso l’Ospedale (OMISSIS) di Roma, dove era stato urgentemente trasportato dopo il sinistro e dove era stato sottoposto ad intervento chirurgico d’urgenza e a tutti gli altri trattamento del caso, eccetto la terapia emotrasfusionale, giacchè, anche se incosciente, aveva con sè una dichiarazione espressa, articolata e puntuale dalla quale emergeva l’inequivocabile sua volontà di non essere emotrasfuso per ragioni di coscienza religiosa.

L’incidente era consistito nel violento scontro frontale tra la Fiat 127, di proprietà di Mu.Pa., assicurata dalla Uniass e condotta da Mu.Fa.Gi., e la Fiat Panda, di proprietà del Comune di Roma, guidata da D.L.U..

La Compagnia assicurativa di Mu.Pa., costituitasi in giudizio, aveva eccepito la prescrizione del credito risarcitorio e chiesto il rigetto della domanda attorea, adducendo che la morte di D.L.U. non fosse stata conseguenza immediata e diretta dell’incidente stradale, ma fosse da imputare al rifiuto di ricevere trasfusioni di sangue.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 18332/10, dichiarava che il sinistro si era verificato per causa esclusiva di Mu.Fa.Gi. che aveva invaso la corsia di marcia della vittima, condannava in solido Mu.Gi.Fa., in proprio e nella qualità di erede di Mu.Pa., nonchè R.R., Mu.St.e.Ti., quali eredi di Mu.Pa., e la S.p.A. Unione Assicurazioni, oltre che al rimborso delle spese di lite, al pagamento di Euro 366.755,00 a M.G., di Euro 288.245,50 a favore di D.L.A. e di Euro 279.683,50 nei confronti di D.L.G..

La Duomo Uni One Assicurazioni S.p.A. proponeva appello, censurando la sentenza impugnata per non aver accolto l’eccezione di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c., comma 2, e chiedendone la riforma relativamente al riconoscimento della sussistenza del nesso causale tra la morte di D.L.U. e il sinistro stradale addebitato a Mu.Fa.Gi. e in ordine alla entità del risarcimento del danno.

Con appello incidentale R.R., Mu.Fa.Gi., Mu.St.e.Ti. chiedevano che fosse dichiarato prescritto il diritto al risarcimento del danno e nel merito insistevano perchè fosse accertato che il rifiuto della trasfusione di sangue da parte di D.L.U. aveva interrotto il nesso di derivazione causale tra il suo decesso e il comportamento di Mu.Fa.Gi. o che aveva rappresentato una concausa della sua morte.

Gli odierni ricorrenti, oltre al rigetto dell’appello, con ricorso incidentale, chiedevano il riconoscimento del danno terminale patito dalla vittima, del danno non patrimoniale, del lucro cessante, della rivalutazione monetaria, del danno da ritardo ed una diversa quantificazione delle spese di lite.

Con sentenza n. 3510/2017, del 25 maggio 2017, la Corte d’Appello di Roma accoglieva parzialmente il gravame degli appellanti principali e, pur ritenendo che il sinistro fosse da attribuire in via esclusiva alla condotta di guida di Mu.Gi.Fa., e, quindi, reputando il sinistro stradale un antecedente causale necessario dell’evento morte, giudicava che le possibilità di sopravvivenza del paziente, ove fosse stato sottoposto alla trasfusione di sangue, fossero tra il 50 ed il 65%. Concludeva, quindi, che l’evento morte doveva ritenersi legato eziologicamente al concorso in pari misura di due cause: la condotta alla guida di Mu.Gi.Fa. e l’esposizione volontaria da parte del deceduto ad un rischio.

Accoglieva, inoltre, la domanda dei congiunti della vittima volta ad ottenere la liquidazione del danno non patrimoniale sulla scorta dei valori del punto di invalidità determinati secondo la più aggiornata tabella del Tribunale di Roma ed una più congrua liquidazione del danno da lucro cessante.

Di conseguenza, la Corte territoriale liquidava: a) Euro 440.772,86 a favore di M.G., di cui Euro 283.020,00 per danno da perdita del rapporto parentale ed Euro 157.752,86 per danno patrimoniale da perdita del proprio congiunto; b) Euro 361.896,43 a favore di D.L.A., di cui Euro 283.020,00 per danno da perdita del rapporto parentale ed Euro 78.876,43 per danno patrimoniale da perdita del congiunto; c) Euro 352.462,43 a favore di D.L.G., di cui Euro 273.586,00 per danno da perdita del rapporto parentale ed Euro 78.876,43 per danno patrimoniale da perdita del congiunto. Su tutte le somme indicate, ridotte del 50% per tener conto dell’apporto concausale della vittima al verificarsi del proprio decesso, sarebbero stati determinati gli interessi compensativi, calcolati applicando i criteri indicati nella sentenza di prime cure.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 2056 c.c., degli artt. 40 e 41 c.p., del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 140 (Codice della Strada), degli artt. 2,13,32 e 19Cost., degli artt. 8 e 9 CEDU, dell’art. 3, comma 2 e art. 6 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea; degli artt. 11-61, 11-62, 11-70, 11-82 del Trattato istitutivo della Costituzione Europea nonchè degli artt. 5, 6, 9 della Convenzione di Oviedo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La tesi sostenuta è che la Corte d’Appello abbia erroneamente applicato i principi della causalità, di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e l’art. 1227 c.c., qualificando il rifiuto per motivi religiosi di sottoporsi alla trasfusione di sangue, nonostante la scelta volontaria di condurre un’automobile, una “esposizione volontaria ad un rischio” anomalo, gratuito e voluttuario.

Sulla scorta di alcune pronunce di questa Corte regolatrice, l’esposizione volontaria al rischio da parte della vittima, cui applicare l’art. 1227 c.c., avrebbe richiesto, ad avviso dei ricorrenti, la consapevolezza da parte della vittima di mettersi in posizioni pericolose senza giustificata necessità e violando le regole di comportamento considerate vincolanti.

Nel caso di specie, invece, la vittima non aveva violato alcuna norma giuridica nè aveva assunto un comportamento imprudente o negligente in violazione di una regola vincolante secondo la coscienza sociale, posto che guidava, cioè svolgeva una delle normali attività della vita quotidiana, rispettando il Codice della Strada, e non aveva violato alcuna regola del vivere sociale, allorchè aveva scelto, in aderenza ai propri convincimenti religiosi, di rifiutare la trasfusione di sangue.

Perciò la Corte d’Appello, considerando nella sostanza il rifiuto della trasfusione di sangue una condotta omissiva colposa, un rischio anormale, voluttuario o gratuito, oltre ad esprimere un giudizio di disvalore in merito alle scelte religiose della vittima, avrebbe erroneamente ritenuto la sottoposizione alla emotrasfusione un comportamento esigibile e doveroso.

Assumendo tale decisione, però, avrebbe omesso di considerare che non può essere configurato alcun obbligo a carico del danneggiato di sottoporsi ad un intervento al fine di ridurre l’entità del danno cagionatogli, non essendo tale rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo di cui all’art. 1227 c.c. e che, al contrario, ritenerlo obbligato, implicherebbe punirlo per aver esercitato un diritto riconosciutogli dalla Costituzione. Il che si porrebbe anche in contrasto con il principio di non contraddizione, posto che non si può, per un verso, predicare il principio personalissimo di ogni individuo di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima, e, per l’altro, penalizzare il soggetto che di quel diritto si sia avvalso in una situazione cagionata esclusivamente dalla negligenza altrui, ponendo, di fatto, un prezzo per il suo esercizio, e bilanciando diritti ineguali, cioè il diritto inviolabile di D.L.U. e l’interesse patrimoniale della Compagnia di Assicurazione, a vantaggio di quest’ultimo.

Peraltro, la necessità di praticare l’eMotrasfusione, essendo sorta solo in relazione all’anemizzazione provocata dall’incidente, avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a negare che il sinistri stradale potesse essere considerato solo un antecedente causale e considerare, invece, che il rifiuto della emotrasfusione, essendo intervenuto quale conseguenza della sequenza eziologica provocata da Mu.Fa.Gi., non poteva avere forza causativa del decesso, determinato, al contrario, esclusivamente dal fatto illecito.

In aggiunta, le percentuali di probabile sopravvivenza non avrebbero potuto essere considerate il parametro per attribuire surrettiziamente un concorso di colpa del 50% alla vittima, perchè non può essere ritenuto corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo creata da altri.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono “la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2,3 e 101 Cost. in combinato disposto con gli artt. 8,19 e 32 Cost., dell’art. 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, in connessione con gli artt. 8, 9 e succ. Protocolli add. della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione del divieto di discriminazione e del principio di laicità: limitazione della responsabilità assicurativa per via delle credenze religiose.

Equiparazione della credenza religiosa del D.L. di rifiutare le emotrasfusioni a situazioni illecite colpose o antigiuridiche. Trattamento differente da cittadini che si trovano in situazioni simili solo in ragione del rifiuto alle trasfusioni per motivi religiosi. Ogni cittadino vittima di un incidente o di un reato dovrebbe vedere il proprio diritto di risarcimento ridotto solo perchè “colpevole” di esercitare la propria libertà personale o per le sue scelte di vita”.

L’assunto da cui muovono è che la Corte d’Appello abbia violato il principio di laicità dello Stato, fondato sugli artt. 2,3,7,8,19 e 20 Cost., ritenuto principio supremo dell’ordinamento, che si sostanzia nell’indispensabile neutralità da parte del potere pubblico di fronte ai conflitti religiosi.

Le discriminazioni imputate al giudice a quo, per aver considerato rischioso il rispetto del credo religioso dei Testimoni di Geova, sono due: a) per non essere stata esclusa nei confronti della vittima l’applicazione dell’art. 1227 c.c., negandole il diritto di fare le proprie scelte in ordine agli interventi da eseguire sul suo corpo, senza subire penalizzazioni e, quindi, adottando un trattamento giuridico diverso rispetto a soggetti trovantesi in situazioni sostanzialmente simili, senza una ragionevole ed obiettiva giustificazione: ad esempio, una donna in stato di gravidanza non sarebbe stata penalizzata per essersi messa alla guida, mettendo a repentaglio la vita del nascituro, a nessuno verrebbe in mente di ritenere responsabili il diabetico o l’emofiliaco per aver scelto di prendere l’auto per recarsi al lavoro, pur avendo condizioni cliniche esponenti a maggior rischio per la vita; b) per avere trattato i testimoni di Geova come cittadini di serie B, considerando il rispetto delle loro convinzioni religiose una negligenza ex art. 1227 c.c., aprendo così la strada a comportamenti discriminatori nei loro confronti: ad esempio, un terrorista potrebbe essere ritenuto solo parzialmente responsabile della emorragia cagionata ad un Testimone di Geova, il medico che avesse eseguito un intervento sbagliato potrebbe andare esente da responsabilità ove il Testimone di Geova si rifiutasse di sottoporsi ad un intervento correttivo richiedente anche una emotrasfusione, le compagnie di assicurazione potrebbero inserire nelle proprie polizze specifiche limitazioni di responsabilità basate sulla credenza religiosa dell’assicurato o del beneficiario.

Peraltro, il dm 15 gennaio 1991, art. 19, considera proprio le trasfusioni di sangue una pratica terapeutica non esente da rischi, collegandovi l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente; la L. 25 febbraio 1992, n. 210 stabilisce un indennizzo a favore di chi abbia riportato danni derivanti dalla emotrasfusione; i rischi delle emotrasfusioni sono descritti dall’OMS e da accreditati studi scientifici che suggeriscono di limitarne l’uso e lo stesso fa la giurisprudenza di legittimità.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e cioè che la trasfusione non avrebbe salvato la vita a D.L.U., come sarebbe emerso dalla CTU che la Corte territoriale non avrebbe esaminato, e per violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, per motivazione acritica e apparente, non avendo spiegato, se non con un rimando alla CTU, a sua volta, del tutto autoreferenziale, perchè sulla probabilità di sopravvivenza, elemento estraneo al nesso causale e al sinistro, era stata parametrata la misura della partecipazione della vittima alla propria morte.

L’assunto cassatorio è che il giudice a quo non abbia esaminato le specifiche censure riprodotte in appello e avanzate alla CTU attraverso le note tecniche formulate con la CTP relativamente alla non scientificità della percentuale indicata dai periti, in assenza di dati probabilistici o statistico-scientifici a supporto, l’assenza dell’indicazione del ragionamento seguito per arrivare a quella determinazione, al giudizio prognostico sfavorevole e alla irreversibilità dello shock emorragico cagionato dalle condizioni cliniche della vittima ormai compromesse.

Essendo stata la CTU sottoposta a specifiche e puntuali censure, il giudice a quo non avrebbe potuto, senza contravvenire ai suoi obblighi motivazionali, aderire ad essa con una risposta argomentativa non correlata alle specifiche critiche mossele.

Inoltre, non essendo la sopravvivenza un elemento del nesso causale, anche a prendere per buone le risultanze della CTU, il giudice non avrebbe dovuto rapportare ad essa la misura del concorso colposo del danneggiato.

4. Le questioni giuridiche sottoposte all’attenzione di questa Corte regolatrice dai motivi di ricorso, che possono essere esaminati unitariamente, attengono:

a) all’accreditabilità della tesi dell’esposizione/accrescimento del rischio nell’ambito dell’accertamento/ricostruzione del nesso di causa;

b) all’annoverabilità del diritto al rispetto delle proprie convinzioni religiose, estrinsecatosi nel rifiuto della emotrasfusione per motivi legati al proprio credo religioso, tra i fattori accrescitivi/produttivi del rischio;

c) alle ulteriori conseguenze in tema di concorso di responsabilità;

d) al rilievo del comportamento omissivo;

e) alla determinazione delle conseguenze risarcibili.

Prima di esaminare le singole questioni, in via preliminare, giova ricordare che la causalità attiene al collegamento naturalistico tra fatti accertato sulla base delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali. Essa attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e tra quest’ultimo e le conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale, integrato, se del caso, da quelli dello scopo della norma violata e dell’aumento del rischio tipico, previa analitica descrizione dello stesso (cfr. Cass. Sez. Un., 11/01/2008, n. 576; Cass. 11/07/2019, n. 17084), mentre su un piano diverso si colloca la dimensione soggettiva dell’imputazione. Quest’ultima corrisponde all’effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento sulla base di un criterio di valore, che è rappresentato dall’inadempienza nella responsabilità contrattuale e dalla colpa o dal dolo in quella aquiliana (salvo i casi i casi di imputazione soggettiva dell’evento nell’illecito aquiliano – artt. 2049,2050,2051 e 2053 c.c.): Cass. 11/11/2019, n. 28991.

L’accertamento del nesso di causalità giuridica ha una funzione ben diversa: delimitare l’area del danno risarcibile. Spetterà al giudice, dopo aver accertato la causalità materiale e la colpa dell’offensore, stabilire quali, tra le teoricamente infinite conseguenze dannose provocate dall’evento di danno (la lesione del diritto) costituiscano conseguenza “immediata e diretta” di quello, e quali no.

In definitiva, il sistema della legge (gli artt. 40 e 41 c.p., da un lato, l’art. 1222 c.c., dall’altro) impone la distinzione tra l’imputazione causale dell’evento di danno e la successiva indagine volta all’individuazione e alla quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli.

I principi in base ai quali accertare il nesso di causalità (principi cui la legge rinvia e dà per noti, dal momento che alcuna norma contiene una definizione di “nesso causale”), tanto materiale quanto giuridica, sono stabiliti dalla legge (artt. 40 e 41 c.p. nel primo caso; art. 1223 c.c. nel secondo).

La causalità naturale e quella giuridica ineriscono alla responsabilità civile. A differenza della causalità penale orientata alla negazione della irrilevanza delle concause (art. 41 c.p.), la causalità civile guarda al danno e non all’evento; mentre infatti la causalità penale è orientata nella direzione dell’èvento e da ciò deriva l’irrilevanza, ovvero l’equivalenza, delle cause concorrenti (art. 41 c.p., comma 1), la causalità civile ha l’attenzione concentrata sul danno, perchè la responsabilità in questo settore ruota sulla figura del danneggiato, mentre quella penale gravità intorno alla figura dell’autore del reato; la prima non è connotata dal principio di stretta legalità, per cui non si esclude che la prova del collegamento eziologico possa fondarsi su ragionamenti inferenziali, la funzione della responsabilità civile è quella di trovare la più opportuna allocazione delle conseguenze pregiudizievoli verificatesi nella sfera della vittima, quella della responsabilità penale ha matrice sanzionatoria. Tali differenze sono quelle che principalmente giustificano tanto il divaricamento che, nonostante la comune derivazione normativa dagli artt. 40 e 41 c.p., ormai caratterizza gli approcci al nesso eziologico, quanto la sensibilità che la giurisprudenza civilistica ha dimostrato per la (ormai accreditata) distinzione tra il nesso di causalità materiale e quello di causalità giuridica.

L’accertamento del primo dei due nessi è necessario per stabilire se vi sia responsabilità ed a chi vada imputata; l’accertamento del secondo serve per stabilire la misura del risarcimento.

Proprio il mantenimento della differenza tra il nesso di causalità materiale, che è dunque un criterio oggettivo di imputazione della responsabilità, e il nesso di causalità giuridica, che consente di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell’evento offre un’appagante soluzione al problema dell’accertamento del nesso di causa rispetto ad eventi, come quello per cui è causa, ad eziologia multifattoriale e più in generale al concorso tra cause umane e cause naturali e tra cause umane colpevoli e cause umane non colpevoli alla produzione dell’evento dannoso: perchè se viene processualmente accertato che la causa naturale o la causa umana non colpevole è tale da escludere il nesso di causa tra condotta ed evento, la domanda sarà rigettata, se la causa naturale o la causa umana non colpevole ha rivestito efficacia eziologica non esclusiva, ma soltanto concorrente rispetto all’evento, la responsabilità dell’evento sarà per intero ascritta all’autore della condotta illecita.

In altri termini, viene esclusa la possibilità di una riduzione proporzionale in ragione della minore incidenza dell’apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, non tra una causa umana imputabile ed una concausa umana non imputabile o tra una causa naturale ed una causa umana imputabile.

L’unico precedente di segno contrario – Cass. 16/01/2009, n. 975 – è stato sottoposto a dura critica da questa Corte nella sentenza 21/07/2011, n. 159991, le cui conclusioni fondamentali meritano di essere riprodotte:

a) è contraria al dettato normativo l’affermazione secondo cui, nel concorso tra fatto umano e fatto naturale, cui deve essere equiparato il comportamento non colpevole, l’aliquota di danno imputabile all’uno ed all’altro andrebbe stabilita dal giudice “in via equitativa”, dal momento che il giudizio equitativo concerne l’accertamento del danno (art. 1226 c.c.) e non l’accertamento delle sue cause;

b) l’accertamento del nesso di causa non può che avere per esito l’accertamento della sua sussistenza o della sua insussistenza, sicchè è inconcepibile un suo “frazionamento”;

c) l’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento di danno è confermata indirettamente dall’art. 1227 c.c.: tale norma, infatti, prevedendo la riduzione della responsabilità nel solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, implicitamente esclude la frazionabilità del nesso nel caso di concorso di cause naturali o di condotte con colpevoli con la condotta del responsabile.

5. Chiarita la cornice dei principi di riferimento, si può passare all’esame delle singole problematiche.

Mette conto rilevare che la Corte d’Appello si è servita della teoria dell’aumento del rischio e/o dell’esposizione al rischio per sostenere che il danneggiato si era “esposto volontariamente ai rischi connessi alla circolazione stradale, pur sapendo che, in caso di incidente, avrebbe potuto avere bisogno di sottoporsi alla somministrazione di sangue o emoderivati, che per motivi religiosi avrebbe rifiutato” (p. 12 della sentenza) sì da giustificare l’applicazione del principio secondo cui “l’esposizione volontaria ad un rischio o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole, è idonea ad integrare una corresponsabilità del danneggiato e a ridurre proporzionalmente, la responsabilità del danneggiante (…)”. (Cass. 26/05/2014, n. 11698).

E’ opportuno soffermarvisi.

Si tratta di una categoria di imputazione dell’evento tendenzialmente nuova, con cui il giudice attribuisce “come fatto proprio” un evento che a stretto rigore non risulta essere stato provocato da colui al quale viene riferito.

L’idea è che il titolare di una situazione giuridica soggettiva vanti la pretesa che altri non aumentino ingiustamente il rischio di una sua lesione, sicchè, sotto il profilo della causalità materiale, si tratta di accertare se sussista un nesso misurabile in termini statistici tra fatto imputabile al danneggiante e aumento del rischio: in tale prospettiva, l’intensità del rapporto statistico tra antecedente imputabile e conseguenza, che si riflette nell’incerta alternativa sussistenza/insussistenza del rapporto causale, si tradurrebbe nella misura dell’aumento del rischio provocato dalla condotta dell’agente concreto. I passaggi logici a monte sono in sostanza i seguenti: si attribuisce alla vittima come fatto proprio il decorso causale effettivo attribuendole una omissione, e, quindi, per il tramite del ragionamento ipotetico, che è quello che viene utilizzato per verificare l’apporto causale del comportamento alternativo lecito – ossia la condotta che in nome del dovere di diligenza in concreto doveroso e dell’obbligo giuridico di impedire l’evento riferibile al titolare della posizione di garanzia – che avrebbe dovuto essere – ma non è stato – tenuto, si procede all’accertamento del se la condotta alternativa avrebbe avuto significative, probabilità di salvare il bene giuridico. Se la risposta è positiva si ha un “aumento del rischio”.

6. Ora, la Corte territoriale ha assunto che Mu.Fa.Gi. alla guida del proprio mezzo avesse cagionato il sinistro stradale rivelatosi mortale sulla scorta della causalità reale, ma che l’exitus avrebbe potuto essere evitato con una percentuale di probabilità non trascurabile – “in misura di metà – due terzi, ossia con un bareme percentuale oscillante fra il 50% e il 65%” (secondo quanto emerso dalla CTU) – ove la vittima avesse accettato di sottoporsi ad una emotrasfusione (causalità ipotetica); di qui l’imputazione a titolo di (concorso di) colpa dell’evento morte a carico di D.L.U. che la Corte territoriale ritiene giustificabile in ragione del comportamento incauto ed imprudente tenuto da quest’ultimo concretizzatosi nell’essersi rappresentato il rischio dell’evento occorso e di non averlo evitato attraverso una condotta accorta e prudente.

Specificamente l’aumento del rischio avrebbe agito sulla condotta commissiva colposa che dal punto di vista naturalistico pure c’è stata in questo modo: la vittima è morta “a seguito” del sinistro stradale, ciononostante assume rilievo giuridico il condizionamento rappresentato dalla mancata attivazione, da parte sua, della misura precauzionale rappresentata dal non aver evitato di circolare con l’auto.

Il ragionamento della Corte territoriale, improntato all’esigenza di non imputare alla vittima un’esposizione risarcitoria non calibrata sull’effettivo peso causale della sua condotta colpevole, dimostra di essersi dipanato collegando inestricabilmente più angoli prospettici del profilo causale – preponderanza dell’evidenza, responsabilità per concorso di causa, causalità di un comportamento omissivo, teoria dell’aumento del rischio, responsabilità proporzionale, perdita della chance di sopravvivenza – condensandone gli esiti in affermazioni per lo più incoerenti che – soprattutto – non hanno fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte.

Dopo aver affermato che “il sinistro rappresenta un antecedente causale necessario dell’evento morte” e che “il decesso è causalmente riconducibile anche alla mancata somministrazione di sangue e/o emoderivati al D.L.”, il giudice a quo ha condiviso le conclusioni della CTU secondo cui “la pronta somministrazione di sangue (emotrasfusione) e/o emoderivati (…) avrebbe consentito di contrastare l’evoluzione infausta” e “avrebbe reso più probabile che non la sopravvivenza del D.L.”, ha ritenuto sussistente “il nesso causale anche tra la mancata somministrazione di sangue e/o emoderivati e il decesso, in quanto (…) l’azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’exitus”, ha negato che l’omissione sia stata idonea ad “escludere il nesso causale tra il sinistro e il decesso (…). Nel nostro ordinamento, infatti, il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche (…) per motivi religiosi o di altra natura, anche quando tale rifiuto possa causare la morte del soggetto, lungi dall’essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile, è espressione di un diritto di rango costituzionale, ha concluso per la ricorrenza di un concorso di responsabilità del decesso imputabile in pari misura al danneggiante ed vittima, quest’ultima responsabile di essersi volontariamente esposta ad un rischio.

7. Non vi sono le premesse per ipotizzare che nel caso di specie la morte abbia rappresentato la sommatoria di due condotte, ciascuna dotata di propria individualità, con conseguente necessità di definire in termini oggettivi la proiezione causale di ciascuna di esse; deve parimenti escludersi che la condotta del danneggiante, dal punto di vista naturalistico, abbia costituito la mera premessa contingente per la produzione dell’evento, giacchè aveva una forza causale idonea a produrre proprio l’evento occorso, anche tenuto conto dello scopo della norma violata. Il principio dello scopo della norma violata giustifica l’appartenenza dell’evento dannoso all’investitore in ragione dell’incremento del rischio a lui imputabile, nel senso che gli intenti sanzionatori delle regole del codice della strada violate imponevano di non considerare esclusa la responsabilità del danneggiante per la lesione occorsa.

8. I punti deboli del ragionamento della Corte territoriale, che ha fondato il concorso di responsabilità sulla possibilità di sopravvivenza che la vittima avrebbe avuto ove si fosse sottoposta a trasfusione e sull’esposizione volontaria ad un rischio (…) idonea a creare una corresponsabilità del danneggiato e a ridurre proporzionalmente la responsabilità del danneggiante (…)”, sono costituiti dalla impossibilità di invocare la teoria dell’aumento del rischio in relazione ad un comportamento preventivo involgente in modo così stringente la libertà di autodeterminazione di un soggetto nonchè dalla incomparabilità del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti ove non sia in gioco una pluralità di comportamenti umani colpevoli (Cass. 9/04/2003, n. 5539).

8. Per giustificare la conclusione secondo cui la vittima si era volontariamente esposta ad un rischio, la Corte territoriale si è servita di un principio di diritto elaborato con riferimento ad una fattispecie nella quale una giovane vittima aveva perduto la vita a bordo di un’auto impegnata in una corsa clandestina di velocità (Cass. 26/05/2014, n. 11698). La Corte regolatrice stabiliva, infatti, che l’evento dannoso per il danneggiato non si fosse esaurito nè identificato con il segmento causale attinente al momento cinematico dei fatti ovvero all’incidente, la cui responsabilità era addebitabile esclusivamente al conducente, ma occorreva prendere in considerazione come segmento terminale e quindi di perfezionamento del fatto storico, la “lesione del bene giudico tutelato” e, quindi, nel caso del trasportato, la lesione della sua integrità fisica (da cui poi deriva il danno conseguenziale risarcibile). Orbene, tale lesione (evento dannoso) non si sarebbe verificata se non si fossero realizzati diversi antecedenti causali: se il conducente avesse guidato l’auto rispettando le regole del codice della strada e le regole generali di prudenza (evitando nel caso in esame di impegnarla in una corsa clandestina), e se, a monte, il trasportato, secondo una regola prudenziale socialmente condivisa, si fosse astenuto dal salire in macchina, ben sapendo in che attività sarebbe stata da lì a breve impegnata la vettura. A rendere corresponsabile il danneggiato, in quella vicenda, era stato proprio il fatto che egli avesse adottato consapevolmente “all’inizio della sequenza eziologica” un comportamento partecipe di una condotta illecita e contraria alle regole di prudenza, esponendosi, con la scelta volontaria di salire in auto, “al rischio, in violazione di norme comportamentali comunemente adottate dalla coscienza sociale oltre che di precise regole del codice stradale”. Per i giudici “violando una norma giuridica o ponendosi consapevolmente in contrapposizione ad una regola di prudenza comportamentale avvertita come vincolante dalla comunità sottoponendosi in tal modo ad un rischio anormale, quindi ad un rischio gratuito, consapevole, dovuto ad una scelta voluttuaria e gravemente imprudente” la condotta della vittima era stata considerata colposa e rilevante per far gravare almeno in parte la responsabilità del danno provocato non sul soggetto che normalmente ne avrebbe risposto, in quanto autore materiale dell’evento dannoso, ma su altro soggetto, la danneggiata, che con la sua scelta imprudente si era inserita in una situazione a rischio che avrebbe agevolmente potuto evitare con una scelta più prudente. Per la Corte, l’esposizione volontaria al rischio era stata tale da superare la soglia del comportamento consentito ed era stata un segmento della catena causale che aveva portato all’evento.

La descrizione puntuale di tale vicenda giurisprudenziale dimostra la distanza dal caso in esame e permette di chiarire quanto sia stata fallace l’applicazione della esposizione al rischio nella dimensione fattane dalla Corte regolatrice. Essa, infatti, ha utilizzato un non più in auge principio di autoresponsabilità e/o di un dovere, imposto dall’art. 2 Cost., di adozione di condotte idonee a limitare gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile, lo ha esteso fino al punto di considerare come incauto il comportamento di chi, potendo prevedere il verificarsi di un incidente stradale a produttivo di lesioni personali richiedenti una trasfusione di sangue, non si sia impegnato nell’adottare le opportune cautele, e ha ragionato come se fosse legittimo pretendere che egli si astenesse dall’esporsi ai rischi derivanti dalla circolazione stradale, salvo sopportare le conseguenze del proprio comportamento irresponsabile o incauto, in pratica addossandogli, per effetto di una indefinita negligenza, le conseguenze dell’essersi trovato nel luogo in cui è sopravvenuto un fatto dannoso.

9. Non solo: il ragionamento della Corte territoriale priva surrettiziamente di pregio il pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario vieppiù quando tale decisione sia assunta per ragioni religiose, allorchè cioè si esplichi il diritto all’autodeterminazione soggettiva intesa come potere di controllare le modalità di costruzione della propria identità personale che, a sua volta, trova sponda in una rinnovata dimensione del corpo umano: non qualcosa che appartiene all’individuo, ma l’individuo stesso, substrato generatore della persona e strumento con cui si entra in relazione con gli altri, si trova posto nella società e che, soprattutto, si salda con i valori della dignità, della salute ed anche dell’autodeterminazione di sè. L’orizzonte della costruzione di sè è più ampio di quello dell’autodeterminazione sanitaria che pure già si esplica in direzione di una concezione della salute declinata in senso identitario, oramai completamente emancipata dallo stretto ancoraggio alla piena integrità fisica che stava a cuore allo Stato in ragione della difesa della cosiddetta società dei sani, e che non tollera più correzioni in direzione solidaristica, propagate attraverso un non predicabile dovere di curarsi. Sull’ampiezza del riconoscimento del diritto di rifiutare un trattamento salvavita per motivi religiosi cfr. Cass. 15/05/2019, n. 12998, cui si rinvia anche per l’individuazione delle fonti nazionali e sovranazionali di riferimento e tutela.

10. Sotto un profilo contiguo, mette conto rilevare che la giurisprudenza di questa Corte regolatrice si dimostra sempre più compattamente orientata ad affermare che il concorso non colposo del danneggiato lascia tendenzialmente intatto l’obbligo integrale risarcitorio a carico del danneggiante. Una diversa determinazione finirebbe con l’addossare alla vittima, che contribuisca senza sua colpa alla causazione del danno, il peso dell’incidenza negativa della propria azione e/o omissione sull’evento finale; e ciò contro il principio generale che fonda sulla colpa la ragione per ascrivere una responsabilità altrimenti priva di significativa rilevanza e lo smarrimento del significato complessivo della fattispecie di responsabilità, per il quale il danno ingiusto acquista rilievo sul piano risarcitorio non già di per sè, ma in quanto cagionato da una o più condotte (oppure da uno o più fatti) soggettivamente imputabili ad uno o a più soggetti.

In altri termini, anche se l’evento finale risulti il frutto dell’azione combinata di due condotte, ove una di esse, quella non colposa del danneggiato, si fonda con quella biasimevole del danneggiante, la ravvisabilità dell’elemento della colpa nella sola condotta del danneggiante rende corretto addebitare interamente il fatto e le conseguenze pregiudizievoli derivatene alla condotta del medesimo, in accoglimento del brocardo qui in re illicita versatur etiam pro casu tenetur.

Ove la condotta del danneggiato sia immune da censura e sia dunque lecita, non vi sono ragioni per alleggerire l’efficienza causale dell’unica condotta colpevole. Al contrario, ove il danneggiato sia colpevole a sua volta non sarebbe corretto che il danneggiante assumesse su di sè tutto il peso di un danno che ha cagionato solo in parte.

Tale approdo giurisprudenziale risente del lungo travaglio, a seguito del quale questa Corte regolatrice ha accantonato l’idea che l’art. 1227 c.c. sia espressione del principio di autoresponsabilità, abbracciando la tesi che ne fa un corollario del principio di causalità.

Chiarificatrice si è rivelata la pronuncia di questa Corte n. 4208 del 17/02/2017, secondo cui “nonostante una dottrina minoritaria ritenga che il fondamento dell’art. 1227 c.c., comma 1, riposi sul principio di autoresponsabilità, la dottrina prevalente e la giurisprudenza (Cass. 3 dicembre 2002, n. 17152) ritengono che la norma in discorso costituisca applicazione dei principi della causalità e del funzionamento del nesso causale. In questo quadro la colpa, cui fa riferimento dell’art. 1227, comma 1, va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato (Cass. 3 dicembre 2002, n. 17152), ovvero, come riconosce una dottrina, come criterio di selezione delle concause rilevanti ai fini della riduzione del risarcimento”.

Dalla stessa pronuncia emerge un’altra affermazione che assume un peso essenziale nella vicenda per cui è causa: “La concausa umana rilevante è infatti quella colposa, dovendosi derubricare quella non colposa a concausa naturale”.

Insomma, la condotta non colposa è equiparata alla condotta naturale, perchè evidentemente come quest’ultima non cagiona un danno (ascrivibile alla categoria dei fatti imputabili), ma mere conseguenze negative.

E’ viceversa esclusa ogni possibilità, per il giudice, di graduare percentualmente la responsabilità dell’autore della causa imputabile dotata di efficienza concausale (e di ridurre proporzionalmente l’entità dell’obbligazione risarcitoria) in considerazione del grado di efficienza della o delle concause naturali non imputabili (Cass. 16/02/2001, n. 2335).

Dare rilievo alla concausa naturale e/o alla condotta umana non colpevole significherebbe limitare il risarcimento del danno patito dal danneggiato, che si vedrebbe gravato della quota imputabile al fatto naturale e/o all’esercizio del proprio diritto.

11. Sulla scorta dell’art. 1223 c.c. – il quale non è ascrivile all’accertamento del nesso causale, ma è indicativo di un criterio di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile causalmente ascritto alla (“cagionato” dalla) condotta qualificata dalla colpa (o dal dolo) del soggetto responsabile, non essendovi necessaria coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile – si tratta di individuare quali conseguenze pregiudizievoli costituiscano danno risarcibile in quanto derivanti dal rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, devono gravare. L’aggravamento delle condizioni di salute fino alla morte della vittima risalente alla mancata sottoposizione alla terapia emotrasfusionale deve considerarsi un danno diretto della condotta dell’agente chiamato a risponderne risarcitoriamente (cfr. Cass. 21/08/2018, n. 20829).

Sarebbe un fuor d’opera nel caso di specie prendere posizione sul se il rilievo della concausa naturale debba variare seconda che essa preesista in maniera conclamata alla condotta umana ovvero se, essendo la prima priva di evidenti manifestazioni, la condotta umana abbia rappresento il fattore scatenante di effetti negativi, perchè a monte vi è un ostacolo insormontabile che assume carattere assorbente rispetto ad ogni ulteriore considerazione (cfr. Cass. 11/11/2019, n. 28986; Cass. 11/11/2019, n. 28990): il rifiuto della trasfusione di sangue costituiva atto di esercizio di un diritto garantito dall’ordinamento; l’aliud agere preteso dal danneggiato – escluso che il danneggiato per le ragioni chiarite avesse un onere di evitare la circolazione stradale – era costituito dalla sottoposizione ad una terapia emotrasfusionale, la cui omissione trovava giustificazione nel legittimo rifiuto di essa per motivi religiosi.

Tale conclusione è confortata da ulteriori considerazioni che ai fini che qui interessano acquistano rilevanza:

– la già evocata chiusura del varco alla responsabilità proporzionale che aveva trovato espressione, da ultimo, nella ricordata pronuncia n. 975 del 16/01/2009 (ed era stata in precedenza adottata, ad esempio, da Cass. 25/10/1974, n. 3133; Cass. 11/08/1982 n. 4544), cui la giurisprudenza successiva ha monoliticamente opposto il convincimento che “eventuali correttivi alle tradizionali strutture del principio causale puro (principio, si ripete, puramente normativo nothing), non richiedono nè consentono la formulazione di una regola contrapposta a quella da lungo tempo sancita da questa Corte, e non esigono nè postulano l’approdo ad una regola ispirata al modello della causalità proporzionale in salsa equitativa. Onde va riaffermato il principio secondo il quale, essendo la comparazione fra cause imputabili a colpa/inadempimento e cause naturali esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all’accertamento della causalità materiale, la valenza assorbente delle une rispetto alle altre – non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità dell’apporto causale (e non della colpa, come erroneamente e tralaticiamente affermato) del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile” (Cass. 06/05/2015, n. 8995; Cass. 21/07/2011, n. 15991);

– l’invarianza del principio nel caso in cui si debba accertare il peso causale del comportamento omissivo, come in questo caso. La differenza consiste nel fatto che, in tal caso, è necessario ipotizzare un decorso causale alternativo – quello che sul piano del fatto non si è verificato – messo in moto dalla condotta omessa, così da verificare quali conseguenze sarebbero discese dall’azione che l’autore dell’omissione era “tenuto” a porre in essere. Se, nonostante l’adozione della condotta dovuta ma omessa, l’effetto coincidesse comunque con l’evento che si assume lesivo o dannoso, ne risulterebbe smentita la rilevanza dell’omissione come condizione necessaria di tale accadimento, che risulterebbe, dunque, non imputabile in termini oggettivi all’autore dell’omissione perchè evidentemente trovante la propria genesi in altre cause. Se, invece, il ragionamento controfattuale porta a ritenere che l’adozione della condotta dovuta e omessa avrebbe impedito l’occorrere dell’evento lesivo o dannoso oppure ne avrebbe contenuto la portata, minimizzato o posticipato in misura non irrisoria gli effetti, il giudice non può che ricavarne la conclusione che l’omissione sia stata la condizione necessaria dell’evento.

Le differenti modalità di accertamento del nesso causale lasciano impregiudicato il fatto che quando si immagina la condotta da sostituire al processo statico lasciato dall’omissione si fa comunque riferimento ad una condotta doverosa (Cass., Sez. Un., 11/01/2008, n. 581); di modo chè il ragionamento si condensa nella seguente conclusione: sia la causalità dell’omissione sia l’apporto concausale della condotta del danneggiato convergono e, sia pure attraverso percorsi argomentativi non del tutto sovrapponibili, si saldano su una premessa comune relativamente all’accertamento causalistico: “Il dato da cui partire è la ricorrenza di una condotta colposa (in senso proprio od improprio) (…) per l’imputazione della responsabilità occorre che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire, verificandosi un intreccio fra la causalità e la colpa, giacchè la causalità nell’omissione non può essere meramente materiale, in quanto “ex nihilo nihil fit” ed il suo accertamento postula un giudizio ipotetico sulla idoneità dell’azione prescritta e colpevolmente omessa ad impedire l’evento, pur restando, comunque, distinguibili il piano della causalità e quello della colpevolezza (Cass. 31/05/2005, n. 11609). Nella sostanza, l’omissione ricorre solo in caso di violazione di un preciso e specifico obbligo giuridico di comportamento; la violazione dei generici doveri di comportarsi secondo prudenza, diligenza, perizia determina soltanto la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), purchè la condotta omissiva non sia essa stessa considerata fonte di danno dell’ordinamento (come, sul piano penale, per i reati omissivi propri) ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di generica prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, è di tutta evidenza che, a differenza di quando si consideri come parte di una serie causale un fatto positivo, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula a monte la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità giuridica, nel senso che se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva non è possibile esprimersi sul rilievo causale dell’omissione. li ragionamento si chiude, insomma, sulla considerazione iniziale, l’omissione può essere causa o concausa di une vento di danno, solo se sia possibile ravvisare ex ante un comportamento pretendibile.

12. Affatto diverso è il problema della selezione delle conseguenze dannose, una volta affrontato e risolto il problema del nesso di causalità materiale e quindi chiarito, come si è anticipato, quanto è riconducibile alla causalità materiale e quanto è invece oggetto di accertamento volto alla delimitazione dell’area dei danni imputabili al danneggiante (si veda, in tal senso, Cass. 29/02/2016, n. 3893).

Ai fini che qui interessano, la giurisprudenza di questa Corte è molto chiara quando, in ossequio al principio secondo cui nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza consenso, nega che possa incidere sul risarcimento del danno spettante alla vittima la scelta di quest’ultima di non sottoporsi ad un intervento chirurgico al fine di ridurre l’entità del danno risentito: “In tema di liquidazione del danno alla persona, è da considerarsi irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, atteso che non può essere configurato alcun obbligo a suo carico di sottoporsi all’intervento stesso, non essendo quel rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227 c.c., comma 2 soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici. Poichè, però, ad oggi la stessa non si è sottoposta a tale intervento nè ha dichiarato di volerlo fare, e poichè, in forza dell’art. 32 Cost., essa ha tutto il diritto di rifiutare l’intervento e pretendere il danno integrale attualmente esistente, le dev’essere riconosciuta la maggior percentuale. Non può, infatti, trovare applicazione dell’art. 1227 c.c., il comma 2: secondo il consolidato orientamento di questa Corte in tema di liquidazione del danno alla persona, è da considerarsi irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, atteso che non può essere configurato alcun obbligo a suo carico di sottoporsi all’intervento stesso, non essendo quel rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227 c.c., comma 2 soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici” (Cass. 5/07/2007 n. 15231; Cass. 10/05/2001 n. 6502).

E nel medesimo senso è orientata la giurisprudenza quando esclude che si possa esigere dal danneggiato il compimento di un’attività onerosa implicante rischi o spese: è stato escluso, ad esempio, che la vittima sia tenuta ad attivarsi giudizialmente (Cass. 21/04/1993, n. 4672; Cass. 31/07/2002, n. 11364), ad iscriversi nelle liste di collocamento, onde evitare danni al datore di lavoro da cui sia stato licenziato illegittimamente (Cass. 06/08/2002, n. 11786), ad attivarsi per spegnere l’incendio sprigionatosi nell’immobile locato (Cass. 10/10/1997, n. 9874). In generale è esclusa ogni attività del danneggiato indirizzata al contenimento dei danni che interessi in modo abnorme la libertà personale, creando obblighi autonomi condizionanti le scelte riconducibili alla libertà di autodeterminazione.

12. Merita osservare, per concludere sull’ultima questione, che ad avviso di questa Corte, non è giustificata la possibilità nel caso di specie di impiegare la valutazione equitativa per contenere l’esposizione risarcitoria dell’autore del comportamento illecito, perchè significherebbe arrecare, sia pure in via indiretta, un vulnus ad un diritto che, invece, trova sempre più ampio riconoscimento e garanzia di tutela.

E’ vero infatti, che taluni recenti svolgimenti giurisprudenziali non escludono la riducibilità dell’ammontare risarcitorio non “in termini di automatica percentuale di corrispondenza ad “operazioni di apporzionamento/frazionamento” del nesso di causalità”, bensì “in considerazione della peculiarità della fattispecie concreta, sul piano della equitativa valutazione del danno ex art. 1226 c.c. (cfr. Cass. 29/02/2016, n. 3893; Cass. 21/7/2011, n. 15991), considerando che l’analisi della causalità materiale nell’illecito civile non solo consente, ma addirittura impone che si tenga conto della unicità e non ripetibilità “della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità”, affinchè il giudice pervenga “alla più corretta delle soluzioni possibili” (Cass. 21/7/2011, n. 15991); determinando “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” con valutazione “effettuata con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, e in particolare della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione”, posto che il danno cagionato e il danno risarcibile non necessariamente coincidono (cfr. Cass. 29/2/2016, n. 3893; Cass. 21/08/2018, n. 20829; Cass. 18/04/2019, n. 10812).

E’ sufficiente ribadire che la natura del diritto esercitato, cioè il rifiuto dell’emotrasfusione, ha acquistato una tale rilevanza anche nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni di sorta al suo esercizio; e non v’è chi non veda che intervenire sul contenimento delle conseguenze risarcitorie a carico dell’offensore significherebbe indirettamente intervenire sulla intensità e sulla qualità del suo riconoscimento.

13. Il ricorso merita, dunque, accoglimento.

14. La sentenza impugnata viene cassata e la controversia rimessa alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia la controversia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio dalla Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, il 5 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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