Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5148 del 26/02/2020

Cassazione civile sez. I, 26/02/2020, (ud. 12/12/2019, dep. 26/02/2020), n.5148

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7398/2018 proposto da:

G.G.S., elettivamente domiciliato in Roma, Largo

Somalia, 53, presso lo studio dell’Avv. Guglielmo Pinto e

rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Cristina Tarchini;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno (OMISSIS), Pubblico Ministero Procuratore

Generale Repubblica;

– intimato –

avverso la sentenza n. 900/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 07/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/12/2019 dal consigliere Dott. Caradonna Lunella;

udito l’avvocato;

udito il P.M., Dott. DE MATTEIS Stanislao, che ha concluso in via

principale dichiararsi l’inammissibilità e/o l’improcedibilità del

ricorso e, in via subordinata, rigettarsi il ricorso, come da

requisitoria scritta in atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.G.S., cittadino nato a (OMISSIS), ricorre in cassazione con tre motivi avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Trieste aveva rigettato l’appello proposto nei confronti della decisione del Tribunale di Trieste del 29 marzo 2017 che aveva rigettato la richiesta di protezione internazionale e di protezione umanitaria, ritenendo i fatti narrati privi di plausibilità ed in contraddizione con le informazioni di cui si disponeva, oltre che carenti di elementi pertinenti e affermando che non appariva provata una situazione di grave pericolo o un fondato timore di persecuzione.

2. La Corte territoriale aveva disatteso il gravame ritenendo corretta la valutazione operata dal giudice di primo grado del verbale di audizione reso avanti alla Commissione e la versione dei fatti resa da G.G.S. priva di riscontro e non verosimile. Rilevava, altresì, che nessuna censura specifica era stata fatta sulla domanda di protezione sussidiaria, salvo affermare che il Tribunale non avrebbe messo in dubbio la provenienza del ricorrente dal Pakistan, non ritenendo la mera allegazione di provenienza sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda di protezione sussidiaria. In ordine alla domanda di protezione umanitaria, la Corte riteneva che la vicenda personale raccontata non appariva credibile e che nulla era stato dedotto sulle attuali condizioni di vita in Italia di G.G.S..

3. G.G.S. ha proposto ricorso per Cassazione fondato su tre motivi.

L’Amministrazione intimata si è costituita ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione della causa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo esposto nel ricorso (depositato unitamente all’attestazione di conformità agli originali delle relate di notifica ai sensi della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 9, commi 1-bis e 1-ter) G.G.S. lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ad avviso del ricorrente la Corte di appello di Trieste ha erroneamente interpretato la normativa in materia di status di rifugiato per quanto riguarda l’onere della prova gravante sul richiedente, poichè il ricorrente aveva posto a base delle proprie richieste di protezione internazionale l’avere subito i suoi familiari e lui personalmente gravi atti di persecuzione a causa del possesso di un terreno conteso da potenti esponenti politici locali che non avevano esitato a far uccidere il fratello e il padre ferendo lo stesso esponente e che l’impossibilità per il ricorrente di fornire prove documentali di quanto esposto non doveva essere assunta come criterio per ritenerne la mancanza di credibilità o l’illogicità delle sue dichiarazioni.

Il ricorrente esponeva, altresì, che l’avere poi precisato i contorni dei fatti chiarendo la successione degli avvenimenti rispetto a quanto verbalizzato nell’audizione amministrativa, pur mantenendo inalterata la sostanza dei fatti narrati, non doveva essere ritenuta in maniera apodittica una manipolazione della realtà.

2. Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale ha ritenuto la versione dei fatti resa da G.G.S. priva di riscontro e non verosimile, oltre che contraddittoria, avendo dapprima il ricorrente riferito che il padre e il fratello erano stati uccisi nel terreno oggetto di contenzioso e poi avendo riferito che solo il fratello sarebbe stato ucciso.

I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poichè secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336).

Nel caso in esame, poi, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte di appello territoriale ha utilizzato i propri poteri istruttori per verificare la situazione del paese di provenienza dello straniero richiamando le notizie COI reperite in atti e quelle acquisite sui siti (OMISSIS) e (OMISSIS) ed escludendo con riferimento alla situazione personale del richiedente la sussistenza di elementi che potessero configurare i fatti dedotti come fatti costitutivi del diritto azionato per ottenere la protezione richiesta.

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

In particolare il ricorrente ritiene che la Corte di appello sia incorsa in violazione di legge giudicando il racconto del richiedente irrilevante in quanto si rifarebbe a fatti personali e privati.

4. Il motivo è inammissibile.

La Corte di appello di Trieste, sulla richiesta di protezione sussidiaria, dopo avere rilevato la mancanza di censure specifiche sulla sentenza impugnata per essersi limitato l’impugnante a ripetere i motivi di ricorso già proposti, salvo ad aggiungere che il tribunale non avrebbe messo in dubbio la provenienza dal Pakistan, ha affermato l’insufficienza dell’allegazione di provenire dal Pakistan per l’accoglimento della domanda subordinata.

Inoltre, la Corte territoriale, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione al fine di accertare se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, fosse effettivamente sussistente nel Paese nel quale avrebbe dovuto essere disposto il rimpatrio, dando conto, nel provvedimento emesso, delle fonti informative attinte, ha evidenziato che non emergevano giustificati motivi di particolari timori e che, pur essendo la regione del ricorrente afflitta da tensioni politiche e religiose, nella gran parte dell’area non vi era un conflitto armato generalizzato che mettesse in pericolo i residenti, così escludendo la sussistenza di un diffuso stato di violenza verso la popolazione su tutto il territorio pakistano.

Non sussiste, quindi, il vizio dedotto dal ricorrente.

Al riguardo occorre precisare che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, con la conseguenza che il giudizio di fatto in ordine alla credibilità del richiedente non può essere censurato sub specie violazione di legge ed è quindi sottratto al sindacato di legittimità (Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340).

Il motivo dedotto, inoltre, non coglie la ratio decidendi, atteso che la Corte, oltre a lamentare l’assenza di censure specifiche, afferma che non pare sufficiente la mera allegazione della provenienza dal Pakistan e che nella regione non vi è un conflitto armato generalizzato che metta in pericolo i residenti.

La Corte di Cassazione, sul punto, ha precisato che nella ipotesi in cui la sentenza impugnata sia basata su due distinte “rationes decidendi”, ciascuna di per sè sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, sussiste l’onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso (Cass., 18 aprile 2019, n. 10815). 5. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e in particolare che la Corte non ha esaminato la ricorrenza dei requisiti per la protezione umanitaria, avendo il richiedente raccontato di essere stato costretto a fuggire dal suo paese in seguito all’aggressione subita e all’uccisione dei suoi familiari; che sussiste nel Pakistan la ripetuta violazione dei diritti umani e di avere fatto presente l’avvenuto radicamento sul territorio nazionale.

Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale ha argomentato che la vicenda personale raccontata non appariva credibile e nulla veniva dedotto sulle attuali condizioni di vita in Italia, sicchè diventava impossibile procedere alla valutazione di ragioni umanitarie che potessero consigliare la protezione umanitaria, essendo l’onere di allegazione a carico di parte appellante.

E’ orientamento di questa Corte che “La natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore”” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21123).

Nel caso di specie, il ricorrente, oltre a non aver formulato deduzioni specifiche sulle proprie condizioni personali, se non concentrando ogni sforzo di allegazione sulla sua vicenda, ritenuta non credibile dai giudici di merito, nulla di specifico ha allegato in ordine alla eventuale privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani nel Paese d’origine, affermando genericamente che l’attuale situazione del Pakistan è caratterizzata dalle ripetute violazioni dei diritti umani e che se il richiedente dovesse fare ritorno al paese d’origine egli correrebbe il serio e fondato rischio di essere perseguitato.

In maniera altrettanto generica ha fatto presente l’avvenuto radicamento dell’esponente sul territorio nazionale, dove risiede e lavora da molti anni.

In proposito, va affermato che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di ordine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019,. n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Deve, quindi, essere escluso ogni automatismo tra la richiesta permanenza nello Stato di accoglienza in ragione dell’integrazione sociale raggiunta e la deduzione generica del sacrificio dei diritti conseguente al rimpatrio, nella carenza peraltro di ogni rappresentazione specifica di persecuzione e di conflitto.

4. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese nella mancata costituzione dell’Amministrazione intimata.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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