Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5141 del 26/02/2020

Cassazione civile sez. I, 26/02/2020, (ud. 19/11/2019, dep. 26/02/2020), n.5141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11444/2015 proposto da:

FALLIMENTO DEL (OMISSIS) S.p.A., in persona del curatore fallimentare

elettivamente domiciliato in Roma, Piazza S. Andrea della Valle 6,

presso lo studio dell’avvocato Massimo Garutti e rappresentato e

difeso per procura speciale a margine del ricorso dall’avvocato

Giovanni Randazzo che indica ai fini delle comunicazioni di

cancelleria l’indirizzo di posta elettronica certificata;

– ricorrente –

Contro

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, in persona del Ministro in carica,

rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello

Stato presso i cui uffici domicilia in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4024/2014 della Corte di appello di Roma,

pubblicata il 16/06/2014;

udita la relazione della causa svolta dal Cons. Dott. Laura Scalia

nella camera di consiglio del 19/11/2019.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il (OMISSIS) S.p.A. aveva chiesto ed ottenuto nel 1997 dal Tribunale di Catania un decreto ingiuntivo nei confronti del predetto Ministero per corrispettivi maturati all’esito della commissionatagli realizzazione di un sistema di approvvigionamento idrico in Tanzania, nella città di Maswa e villaggi vicini.

In seguito all’opposizione del Ministero, il Tribunale di Catania adito dichiarava la propria incompetenza per territorio per essere competente il Tribunale di Roma e pronunciava la nullità del decreto opposto. Nell’intervenuto fallimento della indicata società, la Curatela riassumeva la causa dinanzi al Tribunale capitolino che, all’esito del giudizio in cui veniva espletata consulenza tecnica di ufficio, condannava il Ministero al pagamento della somma di Euro 3.515.455,78.

La Corte di appello di Roma con la sentenza in epigrafe indicata, nel pronunciare sull’appello proposto dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in accoglimento dell’impugnazione, ha dichiarato la nullità della sentenza del Tribunale di Roma n. 11708 del 27 maggio 2009 per difetto assoluto di motivazione, ha rigettato tutte le domande proposte dal Fallimento del (OMISSIS) S.p.A. e pronunciato l’inammissibilità della riconvenzionale spiegata dal Ministero.

La Corte di merito ha altresì rigettato l’eccezione di tardività della riassunzione della lite e tanto nella natura del giudizio introdotto dinanzi al Tribunale di Roma, diretto ad accertare le ragioni di dare ed avere tra le parti, una volta intervenuta la declaratoria di nullità del titolo monitorio ed ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di revisione prezzi proposta dall’appaltatrice.

I giudici di secondo grado rigettavano altresì le richieste di risarcimento danni dall’appaltatrice proposte per la ritardata consegna dei lavori e presa in carico dell’opera completata da parte della p.A., dichiarando l’inammissibilità, in quanto nuova, della domanda riconvenzionale di condanna al pagamento di penali.

4. Il Fallimento del (OMISSIS) S.p.A. ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza con sei motivi contro cui resiste con controricorso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Fallimento del (OMISSIS) S.p.A., d’ora in poi per brevità solo il fallimento, con il primo motivo di ricorso fa valere la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte di appello di Roma in punto di statuizione sui danni da tardiva consegna dei lavori da parte dell’amministrazione committente (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 1063 del 1962, artt. 10, comma 8, e 4 ed agli artt. 1218,1362,1175 e 1366 c.c.).

La Corte di appello non avrebbe riconosciuto i danni da ritardo perchè, pur essendo emerso, in corso di giudizio, che la comunicazione all’impresa dell’intervenuta approvazione del contratto di appalto era stata effettuata dall’Amministrazione ad un anno, circa, dalla stipula, l’impresa non avrebbe comunque esercitato il recesso dal rapporto, non trovando, per l’effetto, applicazione le previsioni di cui all’art. 21 del contratto e del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 10, comma 8.

I giudici di appello avrebbero erroneamente sussunto la fattispecie in esame sotto le previsioni dell’art. 10 cit., in cui, invece, avrebbe avuto rilievo, non tanto il ritardo nella consegna dei lavori, ma quello tenuto dalla pubblica committenza nel perfezionamento in via amministrativa del contratto, per la diversa ipotesi di cui al D.P.R. n. 1063 cit., art. 4 che, al comma 2, prevede che l’emanazione del decreto di approvazione deve intervenire entro sessanta giorni dalla data della stipula del contratto e, al comma 4, che, in caso di mancato rispetto del termine l’aggiudicatario può sciogliersi dal contratto con diritto al solo rimborso delle spese.

Il Ministero avrebbe ritardato in modo immotivato l’approvazione del contatto e l’azienda, dal suo canto, non sarebbe stata in grado di recedere entro sei mesi dalla stipula, ex art. 21 del contratto, per impegni autonomi assunti verso il Governo della Tanzania, se non a costo di rilevanti responsabilità che avrebbero impegnato, nel quadro della cooperazione internazionale, anche l’Amministrazione italiana.

La Corte di appello di Roma con l’impugnata sentenza, allineando il dato negoziale a quello contenuto nel capitolato, generale delle opere pubbliche, D.P.R. n. 1063 del 1962, ratione temporis applicabile, muove dalla disciplina del ritardo nella consegna dei lavori commessi dall’amministrazione pubblica alla ditta aggiudicataria (artt. 21 Contratto e art. 10, comma 8 D.P.R. cit.) per poi farne derivare, nel mancato esercizio della facoltà di recesso entro sei mesi dalla stipula, il non riconoscimento all’impresa della pretesa di danno da ritardata consegna.

Il fallimento ricorrente deduce un errato inquadramento in diritto della fattispecie che, relativa alla diversa ipotesi dell’adozione tardiva del decreto di approvazione del contratto di appalto pubblico e quindi del tardivo perfezionamento amministrazione del contratto, correttamente avrebbe dovuto ricondursi all’art. 4, comma 2 Capitolato generale di appalto che fissa quale termine per l’approvazione del decreto quello di sessanta giorni, poi portato a sei mesi e senza diritto a rimborso secondo disciplina negoziale (art. 21 Contratto).

Il più lungo termine avrebbe trovato ragione nella natura complessa degli impegni assunti dall’impresa e dallo stesso Ministero nell’ambito del più articolato quadro della cooperazione internazionale, in cui doveva inserirsi il contratto.

Tanto non avrebbe escluso però la volontà delle parti di derogare alla generale disciplina della responsabilità contrattuale e dei canoni di correttezza e buona fede (artt. 1218,1175,1366 c.c.) in caso di ritardo dell’Amministrazione nell’approvazione ove non fosse stata esercitata la facoltà di recesso dell’aggiudicataria.

Il motivo è infondato.

I pur riscontrabili profili di non corretta ricostruzione dell’istituto che viene in applicazione nella fattispecie in esame, in ragione poi della rispondenza della decisione a corretti canoni di legge, consente a questa Corte di legittimità di operare nei termini di cui all’art. 384 c.p.c., u.c. previa correzione della motivazione.

Resta invero all’esito non superato, nella sua ratio, il chiaro presupposto da cui muove la motivazione adottata dalla Corte capitolina.

I giudici di appello – anche se non corretta è stata l’individuazione della norma sotto cui sussumere la fattispecie in esame, e tanto per la distinzione tra “ritardo nella consegna dei lavori” e “ritardo nell’approvazione del contratto”, per cui vengono, rispettivamente, in esame gli istituti di cui al D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 10, comma 8 e art. 4, comma 2, – muovono dal sostanziale rilievo che l’impresa non ha esercitato alcuna facoltà di svincolo o recesso.

Lo svincolo dall’impegno contrattuale ed il recesso, rispettivamente definiti dall’art. 4, comma 2 – destinato ad operare previa notificazione della volontà del contraente privato mediante la dichiarazione di cui all’art. 114 del Regolamento di Contabilità Generale dello Stato, approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827 – e dal D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 10, comma 8, muovono dai presupposto che il vincolo contrattuale non sia ancora operante rispetto alla pubblica committenza o che, comunque, ove anche pienamente conformato, non abbia trovato esecuzione tra le parti per mancata consegna dei lavori da parte della p.A.

Entrambi gli indicati strumenti riconoscono quindi al privato di sciogliersi dall’impegno prima che il contratto venga approvato dall’amministrazione, o di recedere prima della sua esecuzione, conseguendo, al più, il primo, il diritto ad un rimborso spese per percentuali definite.

In questa definita cornice, la ratio della decisione muove dal mancato esercizio da parte dell’aggiudicatario del diritto di recesso, che, anche ove più correttamente qualificato quale svincolo dall’impegno contrattuale (ex art. 4 cit. e art. 21 Contratto), definisce, in ogni caso, un istituto che non è destinato a trovare applicazione nella ipotesi, qual è quella di specie, in cui il contratto abbia trovato esecuzione e quanto venga in valutazione sia in realtà un inadempimento da omessa o ritardata prestazione (sul rilievo della diversa operatività dell’istituto del recesso da quello della ritardata consegna delle opere e del parziale inadempimento del contratto: Cass. 19/10/2015 n. 21100).

2. Con il secondo motivo il fallimento fa valere la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte di appello là dove, in accoglimento della proposta impugnazione ed in riforma della sentenza impugnata, aveva rigettato la domanda di danni da custodia proposta dall’impresa per la tardiva presa in consegna dell’opera ultimata da parte dell’amministrazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 2697 c.c. ed all’art. 116 c.p.c.).

La Corte di appello avrebbe respinto la domanda di risarcimento danni avanzata dall’impresa per la ritardata presa in consegna dell’opera da parte della committenza là dove i due gradi di giudizio avrebbero comprovato che, nel tempo intercorso tra l’ultimazione e la presa in carico, l’impresa mantenne l’opera.

Nel resto il quantum delle spese sostenute sarebbe stato contenuto nell’esplicazione analitica effettuata dalla parte, come da atto di quantificazione delle riserve notificato il 28.01.1995, e dai costi determinati dalla disposta c.t.u. in applicazione di parametri di stima precisi e coerenti.

Il motivo è inammissibile.

In tema di ricorso per cassazione, mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c.) può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass. n. 15107 del 17/06/2013; sulla prima parte: Cass. n. 26769 del 23/10/2018; Cass. n. 13395 del 29/05/2018).

In tema di valutazione delle prove, infatti, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul plano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non integra un vizio di violazione o falsa applicazione di norme ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (arg. ex Cass. n. 23940 del 12/10/2017 che esclude, rispetto alla fattispecie esaminata, la configurabilità della violazione della norma processuale).

Il difetto nella critica proposta dell’indicata prospettiva rende la prima inammissibile.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1226 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Anche ove non condivisa la quantificazione operata dal c.t.u., la Corte di appello avrebbe dovuto ritenere i danni denunciati in re ipsa, avvinti da un nesso di necessaria conseguenzialità al colpevole ritardo nella presa in carico dei lavori.

L’incertezza circa l’esatto ammontare non avrebbe dovuto portare al rigetto della domanda; provato il danno ed il nesso eziologico la Corte territoriale avrebbe dovuto quantificarlo in via equitativa secondo i più generali poteri attribuiti al giudice di merito dall’art. 115 c.p.c.

Il motivo è inammissibile per le ragioni indicate sub n. 2 e perchè non confrontandosi con la sentenza impugnata, di quest’ultima non coglie la ratio decidendi, reiterando una censura correttamente valutata dal giudice di merito.

La Corte di appello ha infatti escluso la sussistenza del danno ritenendo poi su siffatta premessa l’impraticabilità di una quantificazione equitativa (in termini: Cass. 17/10/2016 n. 20889).

4. Con il quarto motivo il fallimento denuncia la violazione di legge processuale ed il vizio di motivazione in punto di riforma della sentenza impugnata quanto al riconoscimento degli interessi per il ritardato pagamento de s.a.l. ed il travisamento della prova (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5).

La Corte di merito avrebbe pronunciato oltre la domanda proposta dall’appellante che non avrebbe impugnato la sentenza di primo grado in punto di riconoscimento di maggiori interessi per complessivi Euro 361.468,18 (Euro 210.352,89 accertati dal c.t.u., in aggiunta ad Euro 154.214,00 corrisposti, nelle more del giudizio, dal Ministero).

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

La Corte di appello, come dalla stessa motivato, ha statuito sul merito all’esito della nullità, per mancanza di motivazione, della sentenza di primo grado.

In ragione dell’adottata declaratoria di nullità, la Corte di merito, nel giudizio in riassunzione dinanzi alla stessa introdotto, ha deciso sulle ragioni di dare ed avere tra le parti, valutando, per l’effetto, per la prima volta le domande proposte in primo grado dalla curatela e non, invece, l’appello del Ministero.

Nella indicata corretta prospettiva, non ricorre pertanto il vizio di extrapetizione con riguardo ai motivi di appello dell’Amministrazione. Nel resto la critica è anche priva di autosufficienza non indicando gli atti in cui la maggiore misura degli interessi sarebbe stata richiesta dalla curatela.

4. Con il quarto motivo si deduce la violazione di legge sostanziale e processuale nella parte in cui la sentenza impugnata rigetta la richiesta di revisione prezzi anzichè dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito e si denuncia, sul punto, il contrasto tra dispositivo e motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione alla L. n. 69 del 2009, art. 59 e art. 37 c.p.c.).

Il motivo è infondato.

Una piana lettura della sentenza impugnata consente, in modo inequivoco, di apprezzare che i giudici di appello hanno dichiarato il difetto di giurisdizione: in accoglimento del terzo motivo di impugnazione del Ministero e non vi è contrasto tra dispositivo e motivazione.

Il contrasto tra dispositivo e motivazione rileva ai fini del ricorso per cassazione solo ove esso risulti insanabile ed è causa di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nel caso in cui il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale, non essendo possibile ricostruire la statuizione del giudice attraverso il confronto tra motivazione e dispositivo, mediante valutazioni di prevalenza di una delle affermazioni contenute nella prima su altre di segno opposto presenti nel secondo.

Là dove invece nel ricorso per cassazione il contrasto tra motivazione e dispositivo non venga neppure dedotto come insanabile, non è configurabile il vizio di violazione di legge processuale ed il contrasto denunciato in sede di legittimità resta ad integrare, quale ipotesi di residua applicabilità quella dell’errore materiale emendabile con la procedura di correzione semprechè l’errore, anche per omissione, possa dirsi esistente ad una completa lettura della sentenza in cui il dispositivo resta integrato dalla motivazione (sui principi, secondo consolidata giurisprudenza: Cass. 12/03/2018 n. 5939; Cass. 17/10/2018 n. 26074; Cass. 17/07/2015 n. 15088).

5. Con il quinto motivo si fa valere la violazione di legge sostanziale per avere la sentenza di appello, in riforma di quella di primo grado, annullato la condanna al pagamento degli interessi ed alla rivalutazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Gli oneri accessori nella declaratoria di difetto di giurisdizione sulla revisione prezzi dovrebbero per questa voce devolversi al giudice amministrativo, nel resto la sentenza impugnata andrebbe riformata per le altre ragioni di credito fatte valere in ricorso.

Il motivo è assorbito nel rigetto delle altre ragioni di credito.

6. Con il sesto motivo il ricorrente chiede, in caso di accoglimento del ricorso, la riforma della sentenza impugnata in punto di regolamentazione delle spese di lite.

Il rigetto degli altri motivi di ricorso assorbe, nel suo rilievo, il motivo.

7. Il ricorso, conclusivamente infondato, va pertanto rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite alla controparte come indicato in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Fallimento (OMISSIS) S.p.A. a rifondere al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale le spese di lite che liquida per il giudizio di legittimità in Euro 20.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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