Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 514 del 14/01/2021

Cassazione civile sez. VI, 14/01/2021, (ud. 02/12/2020, dep. 14/01/2021), n.514

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3927-2020 proposto da:

G.M., domiciliato in ROMA presso la cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato FEDERICO

BERGAMO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

GA.FA., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A,

presso lo studio dell’avvocato MARCO ANNECCHINO, rappresentato e

difeso dall’avvocato LELIO DELLA PIETRA giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

E contro

S.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3575/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 26/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/12/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dal ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. 3575 del 26 giugno 2019 ha rigettato l’appello proposto da G.M. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 8615/2016 con la quale, unitamente a S.C., era stato condannato al pagamento in favore di Ga.Fa. della somma di Euro 900.000,00 a titolo di restituzione del doppio della caparra (con gli interessi a far data dal 19/10/2004 quanto ad Euro 450.000,00, e dal 10/3/2016, quanto al residuo), nonchè di Euro 100,000,00 a titolo di restituzione dell’acconto (con gli interessi legali a far data dal 29/1/2005), ritenendo legittimo il recesso esercitato ex art. 1385 c.c. dal Ga. dal contratto preliminare avente ad oggetto un immobile in Pozzuoli, intercorso tra le parti in data 19/10/2004.

Quanto al primo motivo di appello, che contestava l’affermazione del Tribunale secondo cui era onere dei promissari acquirenti dimostrare di avere esattamente adempiuto l’obbligazione di cui all’art. 4 del preliminare, la Corte distrettuale riteneva che il tenore letterale dell’articolo in questione deponesse nel senso che i convenuti non si erano solo limitati ad impegnarsi a richiedere il parere favorevole delle autorità competente preposte al vincolo paesistico ed ambientale, in vista del trasferimento dell’immobile (interessato negli anni da alcuni interventi edilizi), ma avevano garantito anche la sussistenza dei presupposti che avrebbero permesso al promissario acquirente di confidare nel parere favorevole e con conseguente accoglimento della domanda di condono.

Tuttavia, dalla documentazione in atti nonchè dagli accertamenti compiuti dall’ausiliario d’ufficio, emergeva che il bene, rientrante nel perimetro del Piano Territoriale Paesistico dei Campi Flegrei, aveva subito una serie di modifiche ed ampliamenti, dei quali comunque l’acquirente era a conoscenza, ma che avevano caratteristiche eccedenti quelle che ne avrebbero consentito la realizzazione conformemente alla disciplina urbanistica vigente, con l’effetto che era stato promesso in vendita un bene parzialmente abusivo, e per il quale risultava impossibile conseguire il condono.

Alcun inadempimento poteva invece essere addebitato al Ga., non potendosi in effetti limitare l’inadempimento dei convenuti al solo mancato invio della richiesta di parere, essendo più corretto, alla luce dell’interpretazione della volontà delle parti, opinare nel senso che la richiesta de qua si inseriva nel procedimento che avrebbe dovuto consentire la sanatoria dell’immobile, condizione imprescindibile per la stipula del rogito.

In merito al secondo motivo, si rilevava che non poteva tacciarsi di violazione dell’art. 112 c.p.c. l’accoglimento della domanda di accertamento della legittimità del recesso del Ga., con la condanna alla restituzione del doppio della caparra, in quanto, è pur vero che tale domanda era stata in citazione subordinata a quella di adempimento in forma specifica, sia pure previa riduzione del prezzo, ma l’attore in sede di conclusioni aveva inteso far valere in via principale quella di cui all’art. 1385 c.c., e ciò conformemente a quanto opinato dalla giurisprudenza di legittimità, senza incorrere in alcuna preclusione.

Era inammissibile il motivo di appello con il quale si negava che la caparra fosse stata effettivamente versata, trattandosi di circostanza mai contestata in sede di merito, come del pari era inammissibile ex art. 342 c.p.c. la censura che investiva la effettiva legittimazione del Ga. a richiedere la restituzione della caparra.

Ancora era disatteso il motivo di appello che investiva la corretta individuazione della decorrenza degli interessi legali sulle somme al cui pagamento erano stati condannati il G. e la S. (profilo che non risulta interessato dai motivi di ricorso), ed infine, era esclusa l’illegittimità dell’intervenuta trascrizione della domanda, posto che inizialmente era stata effettivamente avanzata anche una domanda ex art. 2932 c.c. Per la cassazione di questa sentenza G.M. ha proposto ricorso sulla base di sei motivi, illustrati anche da memorie.

Ga.Fa. ha resistito con controricorso.

S.C. non ha svolto difese in questa fase.

Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. quanto all’interpretazione del contenuto del contratto preliminare intercorso tra le parti.

Si rileva che non è rinvenibile nel testo del contratto una specifica volontà dei promittenti venditori di garantire l’effettivo conseguimento del parere favorevole da parte della PA e l’accoglimento della domanda di condono.

Viceversa, le parti si erano limitate ad indicare quali fossero le domande di condono avanzate dai venditori, e delle quali quindi il Ga. era stato reso edotto.

La conclusione della Corte d’Appello di Napoli è frutto di una non consentita dilatazione dei patti negoziali, ed è in contrasto anche con le generali regole di interpretazione soggettiva oltre che con la regola della buona fede e dell’interpretazione equitativa.

Il motivo è infondato.

L’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Rileva il Collegio che l’assunto del giudice di merito secondo cui la previsione di cui all’art. 4 del preliminare non si limitasse solo a prevedere l’onere di presentazione della richiesta del parere, ma fosse intesa piuttosto ad assicurare la sussistenza dei presupposti che avrebbero permesso, oltre al rilascio del parere, anche il perfezionamento positivo dell’iter amministrativo del condono, non può essere tacciato di implausibilità, nè si pone in palese contrasto con le espressioni letterali utilizzate dalle parti, stante il riferimento all’assenza di vincoli preclusivi che doveva connotare l’immobile, e ciò anche a fronte dell’avvenuta elencazione della presentazione di istanze di concessione in sanatoria, non apparendo priva di qualsiasi correlazione con il testo contrattuale la conclusione, secondo cui proprio il richiamo a tali pratiche, sottintendeva che all’acquirente fosse stato assicurato il buon esito delle medesime.

La censura di parte ricorrente, pur formalmente rivestita della individuazione delle norme di ermeneutica contrattuale asseritamente violate, si sostanzia nella contrapposizione a quella offerta dal giudice di merito (come detto non connotata da implausibilità o illogicità) di una propria diversa esegesi del testo contrattuale, auspicandone la condivisione da parte del giudice di legittimità, risultato questo che non può essere consentito con il ricorso per cassazione.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1385 e 1453 c.c., nonchè la violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 40 e del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46.

Si assume che, avendo i venditori informato il Ga. della situazione edilizio-urbanistica del bene, erano state soddisfatte le condizioni per la sua commerciabilità, non potendosi quindi addebitare al G. la responsabilità per la mancata conclusione del contratto.

Il motivo è infondato.

Ed, infatti, richiamate le conclusioni raggiunte in merito alla disamina del primo motivo, e ribadito quindi che il contratto prevedeva un obbligo per i venditori di assicurare il perfezionamento della pratica di condono, esito questo che, con accertamento in fatto, confortato dalle indagini dell’ausiliario di ufficio, si è ritenuto in concreto non conseguibile, a nulla rileva la sola informazione circa lo stato del bene ed, il suo interessamento da procedure di condono, emergendo comunque l’inadempimento dei promittenti venditori al suddetto obbligo.

Nè vale il richiamo al principio affermato da Cass. S.U. n. 8230/2019, a mente del quale la nullità comminata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46 e dalla L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell’ambito dell’art. 1418 c.c., comma 3, di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato, in quanto se tale regola vale per la disciplina del contratto di trasferimento già concluso, non rileva invece ai fini della vicenda in esame, in cui come detto, è stato individuato uno specifico obbligo a carico di una delle parti del preliminare di assicurare l’effettivo perfezionamento della pratica di condono (e ciò quindi a prescindere se la tipologia di abuso cui la stessa facesse riferimento, sia o meno ostativa alla valida conclusione di un contratto di vendita, secondo quanto specificato dal citato arresto delle Sezioni Unite).

Ed invero, se già è stato affermato che (Cass. n. 20714/2012) il disposto della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, consentendo la stipulazione ove risultino presentata l’istanza di condono edilizio e pagate le prime due rate di oblazione, esige che la domanda in sanatoria abbia i requisiti minimi per essere presa in esame dalla P.A. con probabilità di accoglimento, occorrendo, quindi, l’indicazione precisa della consistenza degli abusi sanabili, presupposto di determinazione della somma dovuta a titolo di oblazione, nonchè la congruità dei relativi versamenti, in difetto delle quali il promittente venditore è inadempiente e il preliminare di vendita può essere risolto per sua colpa, l’inadempimento ricorre ancor più nel caso in cui l’obbligo di perfezionamento della pratica di condono scaturisca da una specifica pattuizione.

Peraltro la validità formale dell’atto di trasferimento ove ricorrano le condizioni indicate dalle Sezioni Unite, non preclude al compratore, che incorra nell’attività repressiva dell’autorità amministrativa o dell’autorità giudiziaria penale, di avvalersi dei rimedi dettati per l’inadempimento della controparte, e del pari non preclude alla stessa parte, ove si avveda dell’irregolarità urbanistica (sebbene inidonea ad impedire il trasferimento della proprietà), di avvalersi della tutela prevista per l’inadempimento, tra cui rientra anche il diritto di recesso di cui all’art. 1385 c.c..

Il terzo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Si deduce che sia in primo grado che in appello e poi nella comparsa conclusionale d’appello e nelle repliche, aveva evidenziato come, una volta disposta la restituzione del doppio della caparra, non fosse possibile la condanna anche alla restituzione della somma versata a diverso titolo di acconto.

Il motivo è inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, applicabile anche nel caso in cui ad essere denunciato sia un error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. S.U. n. 8077/2012).

Il ricorrente si limita apoditticamente ad affermare che aveva posto il tema dell’impossibilità di cumulare alla condanna alla restituzione della caparra anche la somma versata a titolo di acconto, senza però riportare in ricorso nè puntualmente indicare in quale parte della comparsa di risposta in primo grado ovvero dell’atto di appello, avesse posto la questione (e limitandosi a produrre in copia, nel fascicolo predisposto ai sensi del Protocollo tra la Corte di Cassazione ed il CNF, solo copia della comparsa conclusionale e della memoria di replica in appello).

Peraltro, se come dedotto dallo stesso ricorrente tale cumulo era già frutto della sentenza di primo grado, il preteso errore avrebbe dovuto essere denunciato con uno specifico motivo di appello, del quale il ricorrente non riferisce la proposizione (e ciò in disparte la correttezza in punto di diritto della soluzione offerta, atteso che, una volta verificatosi l’effetto risolutorio a seguito dell’esercizio del diritto di recesso di cui all’art. 1385 c.c., se la restituzione della caparra assorbe ogni ulteriore e diversa pretesa risarcitoria, lo stesso non può dirsi per gli effetti restitutori scaturenti dal venir meno del vincolo sinallagmatico, tra cui rientra anche la restituzione di eventuali versamenti effettuati a titolo di acconto).

Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 1453,1455 e 1460 c.c., in quanto a fronte di inadempienze reciproche, il giudice di merito avrebbe dovuto effettuare una comparazione delle medesime, al fine di stabilire quale fosse quella prevalente.

Il quinto motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto la sentenza non avrebbe esaminato le circostanze dedotte nell’atto di appello incidenti sulla valutazione comparativa degli inadempimenti.

I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono inammissibili.

E’ infatti preclusa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., u.c., applicabile alla fattispecie ratione temporis, la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo la sentenza d’appello confermato quella di primo grado sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto poste alla base della decisione del giudice di primo grado.

Quanto invece alla dedotta violazione delle norme in tema di valutazione dell’inadempimento in caso di risoluzione, l’affermazione del ricorrente non si confronta con il tenore della sentenza impugnata che, a pag. 10, dopo aver specificato le ragioni in base alle quali doveva ravvisarsi l’inadempimento dei promittenti venditori agli obblighi scaturenti dal preliminare, art. 4, ha altresì aggiunto che “Le suesposte argomentazioni sono sufficienti per ritenere che nessuna condotta inadempiente è imputabile all’acquirente per non avere concluso il contratto definitivo e per escludere la legittimità del recesso dei venditori, come ritenuto dal primo giudice”.

Il brano riportato consente di affermare che la Corte distrettuale abbia considerato la condotta che i convenuti ritenevano espressiva di inadempimento da parte del Ga., ritenendola però non tale, ed assumendo chiaramente come l’unico inadempimento fosse quello dei venditori, il che denota come in realtà il giudizio di comparazione sia stato adeguatamente svolto.

Il sesto motivo denuncia la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui è stato ritenuto corretto l’operato del Tribunale che aveva accolto la domanda subordinata di accertamento della legittimità del recesso, con diritto alla restituzione del doppio della caparra, sebbene fosse stata inizialmente proposta in via principale la domanda ex art. 2932 c.c..

Il motivo deve essere disatteso.

In primo luogo, rileva il Collegio che a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4.

Nella fattispecie non ricorre tale ipotesi, avendo la sentenza impugnata, a pag. 11, adeguatamente specificato le ragioni in base alle quali non poteva reputarsi inammissibile l’anteposizione in sede di conclusioni della domanda ex art. 1385 c.c. effettuata dal Ga., rispetto a quella di esecuzione in forma specifica.

Ove poi si ritenga che la censura, investa la correttezza in sè del principio affermato, deve ritenersi incensurabile la decisione gravata.

I giudici di appello hanno, infatti, richiamato quanto recentemente precisato da questa Corte, e cioè che, nell’ipotesi di versamento di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte non inadempiente, che abbia agito per l’esecuzione del contratto, può, in sostituzione dell’originaria pretesa, legittimamente chiedere, nel corso del giudizio, il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385 c.c., comma 2, (e ciò anche se la richiesta non fosse stata formulata nell’atto introduttivo) senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei “nova”, poichè tale modificazione dell’originaria istanza costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento (Cass. n. 882/2018), suscettibile di essere azionato in ogni stato e grado del processo, laddove non muti l’identità dei fatti posti a fondamento della domanda (conf. Cass. n. 23417/2019).

Il principio affermato dalla Corte in tale occasione, ed al quale il Collegio intende assicurare continuità, è estensibile al caso di specie, in cui l’attore, che aveva originariamente agito per ottenere l’adempimento, ha preferito, in ragione del peculiare ius variandi attribuito dalla legge, modificare tale domanda nella diversa pretesa, volta a ottenere il doppio della caparra versata (richiesta che risultava comunque avanzata in citazione, sebbene in maniera subordinata rispetto a quella di esecuzione).

In questo senso non può ravvisarsi alcun contrasto con quanto invece precisato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 553/2009), che hanno però reputata preclusa la possibilità di avvalersi del recesso, una volta domandata la risoluzione e chiesto il risarcimento dei danni, ma non anche nella diversa ipotesi in cui inizialmente fosse stato richiesto l’adempimento del contratto.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

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