Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5129 del 26/02/2020

Cassazione civile sez. I, 26/02/2020, (ud. 02/10/2019, dep. 26/02/2020), n.5129

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4451/2017 proposto da:

Intesa Sanpaolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Giuseppe Mazzini

n. 15, presso lo studio dell’avvocato Gabrielli Enrico che la

rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

R.F.I. – Rete Ferroviaria Italiana S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Di

Porta Pinciana 6 presso lo studio dell’avvocato D’Amelio Piero e

Sciacca C. Giovanni che la rappresentano e difendono unitamente

all’avvocato Ruperto Saverio, giusta procura a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Impresa Spa in Amministrazione Straordinaria (già B.-

T.- P. S.p.a., nonchè BTP Infrastrutture S.r.l.) in persona

del Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente domiciliato

in Roma, Via Antonio Gramsci n. 54, presso lo studio dell’avvocato

Arangio Francesco che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Manferoce Tommaso, giusta procura in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

R.F.I. – Rete Ferroviaria Italiana S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Di

Porta Pinciana 6 presso lo studio dell’avvocato D’Amelio Piero e

Sciacca C. Giovanni che la rappresentano e difendono unitamente

all’avvocato Ruperto Saverio, giusta procura a margine del

precedente controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Intesa Sanpaolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Giuseppe Mazzini

n. 15, presso lo studio dell’avvocato Gabrielli Enrico che la

rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso

principale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

contro

Impresa Spa in Amministrazione Straordinaria (già B.-

T.- P. S.p.a., nonchè BTP Infrastrutture S.r.l.) in persona

del Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente domiciliato

in Roma, Via Antonio Gramsci n. 54, presso lo studio dell’avvocato

Arangio Francesco che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Manferoce Tommaso, giusta procura in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza non definitiva n. 6458/2016 della CORTE D’APPELLO

di ROMA, del 02/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/10/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 13468/2013 il Tribunale di Roma, pronunciando sulla domanda proposta da Impresa s.p.a. nei confronti di Rete Ferroviaria Italiana s.p.a avente ad oggetto il credito di 17.115.885 Euro relativo alle riserve iscritte in relazione all’esecuzione del contratto di appalto per la realizzazione di lavori nella stazione di (OMISSIS), riteneva fondate le riserve 7,18, 21-22, 26, 28-32, 34-36, recependo in larga parte l’impostazione del C.T.U., e condannava RFI alla minor somma di 7.420.263 Euro.

2. Avverso detta sentenza proponeva appello R.F.I. s.p.a. (di seguito per brevità RFI) lamentando: A) difetto di motivazione sull’eccezione di difetto di giurisdizione (riserva n. 7) e sulla domanda riconvenzionale; B) omessa pronuncia in ordine alla tardività di alcune riserve (nn. 18, 31, 32, 34), alla genericità delle riserve 21 e 30 ed all’infondatezza delle rimanenti (nn. 26, 28, 29, 35, 36, 22); C) erroneità delle risultanze della C.T.U., recepite integralmente dal Tribunale, con riguardo (i) alla non conformità alle previsioni dell’art. 28 delle condizioni generali di contratto quanto alle riserve relative alle sospensioni dei lavori, (ii) alla non conformità all’allegato 9 punto B2 per le ridotte interruzioni e la mancata concessione del lavoro nelle ore notturne, (iii) al riconoscimento di un premio di acceleramento non previsto dal contratto, (iiii) all’erronea quantificazione dei giorni di ritardo (938 in luogo dei 552 effettivi), (iiiii) alla violazione dei criteri legali di riconoscimento della rivalutazione e degli interessi. Nel giudizio d’appello si costituiva Impresa s.p.a., di seguito in a.s. (per brevità Impresa), proponendo appello incidentale per il riconoscimento delle riserve non ammesse o ammesse parzialmente. Interveniva in causa Intesa Sanpaolo s.p.a. (di seguito per brevità Intesa Sanpaolo), dichiarando di essere cessionaria del credito vantato da Impresa nei confronti di RFI sino a concorrenza della somma di 11.479.000 Euro e chiedendo la condanna di RFI al pagamento delle somme richieste da Impresa direttamente in favore della cessionaria Intesa Sanpaolo sino a concorrenza della somma suindicata. A tale intervento si opponeva RFI, eccependo il difetto di legittimazione di Intesa Sanpaolo, sia in relazione al conferimento, a Unicredit e non a Banca Intesa Sanpaolo, del potere di intraprendere azioni legali, previsto nella cessione del credito; sia in relazione alla natura del credito ceduto di credito futuro, sia in relazione alla previsione dell’art. 9 della convenzione stipulata dalle parti. Anche Impresa si opponeva all’intervento in causa di Intesa Sanpaolo, rilevando che l’intervento, qualificabile come adesivo dipendente, non legittimava la sua proposizione nel grado di appello. Rilevava inoltre che, trattandosi di credito nei confronti di amministrazione pubblica doveva trovare applicazione la L. n. 2248 del 1865, art. 339 all.to F, che subordina la cessione del credito al riconoscimento della p.a..

3. Con sentenza non definitiva n. 6458/2016 la Corte di appello di Roma: A) ha dichiarato ammissibile l’intervento di Intesa Sanpaolo ma inammissibile la domanda proposta autonomamente dall’interveniente volta alla corresponsione in proprio favore dei crediti da riserva spettanti a Impresa; B) ha ritenuto non motivata e pertanto nulla la sentenza del Tribunale quanto alla eccezione di difetto di giurisdizione di RFI, ritenuta infondata per non essere applicabile, ratione temporis, la normativa (D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 244 e art. 253, comma 1) che attribuisce alla competenza esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alla revisione prezzi; C) ha ritenuto non motivata la sentenza di primo grado sull’eccezione, proposta da RFI, di tardività di alcune riserve ed ha accertato la fondatezza di detta eccezione relativamente alle riserve nn. 31, 32, 34, 18; D) ha accolto la censura relativa alla quantificazione dei giorni di ritardo, che ha rideterminato in 686 in luogo dei 938 indicati dal C.T.U.; E) ha ritenuto infondata, per difetto di prova sulla responsabilità di Impresa per il ritardo, la domanda riconvenzionale di RFI relativa all’applicazione delle penali contrattuali;

F) ha ritenuto inammissibile la censura relativa ai criteri di liquidazione di rivalutazione e interessi, avendo il Tribunale disatteso la indicazione sul punto del C.T.U., contestata dall’appellante, e limitato la propria statuizione alla condanna al pagamento della somma di 7.420.263,64 Euro oltre interessi e rivalutazione dalla domanda;

G) ha accolto l’appello incidentale di Impresa limitatamente alla riserva n. 33 e conseguentemente ha accolto la domanda di Impresa limitatamente alle riserve 7, 26, 28, 30, 33, 35 e 36; H) ha ordinato la prosecuzione del giudizio per la quantificazione dei crediti spettanti in forza delle predette riserve, ad eccezione di quelli, già determinati anche nel quantum, di cui alla riserva n. 7, riferita all’adeguamento prezzi riconosciuto dal C.T.U. in Euro 467.929,25, e di cui alla riserva n. 33, riferita alla detrazione, ritenuta illegittima dalla Corte di appello, operata dalla stazione appaltante di 14.082,09 Euro per il furto di rotaie e di due bobine in rame, riservando la decisione sulle spese alla pronuncia definitiva.

4. Avverso questa sentenza Intesa Sanpaolo propone ricorso principale fondato su un unico motivo, resistito con controricorso da RFI, che propone ricorso incidentale affidato a dieci motivi, e da Impresa, che propone ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

5. Con sentenza n. 14696/2019 depositata il 29 maggio 2019 le Sezioni Unite di questa Corte hanno rigettato il motivo di ricorso incidentale di RFI relativo al difetto di giurisdizione del giudice ordinario e hanno rimesso l’esame degli altri motivi dello stesso ricorso incidentale di RFI e degli altri ricorsi proposti da Intesa Sanpaolo, in via principale, e da Impresa, in amministrazione straordinaria, in via incidentale, alla prima sezione civile di questa Corte.

6. Il ricorso è stato, quindi, fissato per l’adunanza in camera di consiglio avanti alla prima sezione civile, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..

7. Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con un solo articolato motivo la ricorrente principale Intesa Sanpaolo lamenta la “violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3 e, se del caso, n. 4, degli artt. 105, 111, 344 e 345 c.p.c., anche in relazione agli artt. 24 e 111 Cost.”. Censura la dichiarazione di inammissibilità della domanda di condanna di RFI al pagamento delle somme dovute direttamente in suo favore, assumendo che la Corte territoriale non si sia attenuta ai principi costantemente affermati da questa Corte (tra le più recenti Cass. n. 21454/2016). In base alla richiamata giurisprudenza il successore a titolo particolare nel diritto controverso, che interviene nel processo a norma dell’art. 111 c.p.c., comma 3, non è terzo in senso proprio e sostanziale ma è l’effettivo titolare del diritto in contestazione, tale divenuto nel corso del processo, ed assume non una posizione distinta, bensì la stessa posizione del suo dante causa. Nella fattispecie in esame, ad avviso della ricorrente principale, non può ritenersi che sia stata proposta dalla stessa una domanda nuova in appello, in violazione del corrispondente divieto di carattere assoluto, a cui soggiace anche il successore a titolo particolare, che, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., intervenga nel processo in fase di appello, al di fuori, eventualmente, di quella diretta al riconoscimento del suo diritto di intervenire qualora esso venga contestato da una o entrambe le parti originarie (Cass. 27 marzo 1990, n. 2459). Sostiene la ricorrente principale di aver proposto l’identica domanda della sua dante causa e che, in quanto riveste la stessa posizione processuale della parte, può chiedere la condanna di RFI al pagamento delle somme dovute direttamente in proprio favore, sostituendosi alla dante causa, non più titolare del diritto controverso. In ragione di un’interpretazione ampia dell’art. 111 c.p.c., come desumibile, ad avviso della ricorrente, dall’orientamento giurisprudenziale di questa Corte richiamato in ricorso, al soggetto intervenuto deve garantirsi la piena tutela, in quanto, diversamente opinando, in spregio ai principi del giusto processo e della concentrazione dei giudizi, ove il cedente neghi la spettanza delle somme al cessionario, quest’ultimo sarà costretto ad instaurare un nuovo giudizio. Rimarca, infine, la ricorrente principale che la Corte territoriale, nel ritenere ammissibile l’intervento in appello di Intesa Sanpaolo, ha implicitamente accertato l’esistenza, la validità, l’efficacia e l’opponibilità alla procedura di amministrazione straordinaria della cessione del credito oggetto del giudizio, credito ammesso allo stato passivo di Impresa, con formazione, sul punto, di giudicato endoconcorsuale. Chiede, pertanto, che la sentenza d’appello sia cassata in parte qua e che, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, RFI sia condannata a pagare direttamente a Intesa Sanpaolo le somme che risulteranno dovute dalla prima a Impresa, fino a concorrenza della somma di 11.479.000 Euro, oltre ulteriori interessi di mora, nella misura convenzionalmente stabilita, dal 10 luglio 2013 sino al soddisfo.

2. Con il primo motivo di ricorso incidentale RFI lamenta “violazione degli artt. 111 e 404 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e, se del caso, n. 4”. Nel censurare la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l’intervento di Intesa Sanpaolo, assume che, in forza dell’art. 404 c.p.c., comma 3, e come precisato nella sentenza di questa Corte n. 9752/2011, l’intervento sia ammissibile solo quando l’interventore sia legittimato a proporre l’opposizione di terzo.

3. Con il secondo motivo di ricorso incidentale RFI lamenta “violazione degli artt. 1723 e 1726 c.c. nonchè dell’art. 16 del contratto di cessione dei crediti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Rileva che il contratto di cessione in garanzia dei crediti conferisce mandato alla banca agente che, tuttavia, non è Intesa Sanpaolo, ma Unicredit s.p.a.. Lamenta l’errata interpretazione da parte della Corte territoriale degli articoli citati in rubrica e della richiamata clausola contrattuale e sostiene che, trattandosi di mandato in rem propriam, la Banca agente abbia un interesse proprio e diretto a che il credito non sia pagato ad altri soggetti, a cominciare dagli stessi mandanti, sicchè il pagamento eseguito dal debitore ceduto a Intesa San Paolo potrebbe non avere effetto liberatorio nei confronti della Banca Agente Unicredit. Rimarca RFI che tale contratto ha previsto la nomina di Unicredit S.p.A. come mandataria con rappresentanza delle Banche finanziatrici (cd. banca Agente), alla quale è stato conferito, tra le altre cose, proprio il potere di “intraprendere, in nome e per conto loro, tutte le azioni che possano rendersi necessarie al fine di amministrare e esercitare i diritti, rimedi, poteri e facoltà loro spettanti…” (cfr. contratto di cessione del 15/11/2011, art. 16.1). Di conseguenza, essendo Unicredit, e non Intesa Sanpaolo, il soggetto dotato del potere di esercitare le azioni a difesa dei diritti scaturenti dal contratto, alcuna legittimazione all’intervento potrebbe ravvisarsi in capo a quest’ultima. Inoltre, trattandosi di mandato cd. in rem propriam, esso non si potrebbe considerare estinto per revoca da parte del mandante (art. 1723 c.c., comma 2), tanto più se implicita, come nel caso di specie, non avendo Intesa Sanpaolo fornito alcuna prova atta a dimostrare la revoca del mandato conferito ad Unicredit S.p.A.. Infine, trattandosi peraltro di mandato collettivo, lo stesso dovrebbe essere revocato da tutti i mandanti e non da uno solo di essi, ai sensi dell’art. 1726 c.c..

4. Con il terzo motivo RFI lamenta la “violazione degli artt. 1260 c.c. e segg. e dell’art. 9 della convenzione di appalto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Deduce che la citata clausola contrattuale prevede espressamente il divieto di cessione dei crediti e debiti derivanti dall’esecuzione dell’appalto e che, seppure l’opponibilità di tale disposizione al cessionario è subordinata dall’art. 1260 c.c., comma 2, alla conoscenza del suddetto divieto da parte di quest’ultimo, nel caso di specie la conoscibilità si deve presumere, considerata la qualità di operatore professionale di Intesa e considerato altresì che il contratto di cessione dei crediti richiamava espressamente (lett. A delle premesse) il contratto di appalto fonte dei crediti relativi alle riserva.

5. L’unico motivo di ricorso principale e i primi tre motivi di ricorso incidentale proposti da RFI possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, in quanto tutti concernenti questioni relative all’intervento in appello di Intesa Sanpaolo.

5.1. Il motivo di ricorso principale è infondato.

Occorre premettere che Intesa Sanpaolo non è intervenuta aderendo semplicemente alle domande già proposte da Impresa, ma ha chiesto anche la corresponsione in proprio favore, in forza del contratto di cessione di crediti del 15/11/2011, di quanto dovuto da RFI ad Impresa sino a concorrenza della somma di Euro11.479.000,17. L’intervento in appello di Intesa Sanpaolo è da ritenersi ammissibile, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., commi 1 e 3, atteso che quando, nel corso del processo, il diritto controverso si trasferisce per atto tra vivi, come accaduto nel caso di specie, al successore a titolo particolare è concessa la facoltà di intervenire nel giudizio. Si tratta di un intervento con caratteristiche del tutto peculiari, consentito perchè l’interventore non si configura quale “terzo”, ossia titolare di un diritto autonomo e indipendente, nè, tantomeno, quale litisconsorte necessario, ma in quanto titolare della medesima posizione giuridica e processuale del suo dante causa (Cass. n. 21492/2018 e così anche Cass.n. 21454/2016 richiamata dalla ricorrente principale). Solo in ragione di tale peculiare veste si giustifica, in base all’art. 111 citato, l’intervento anche in appello del successore a titolo particolare, a cui è, di conseguenza, consentita l’adesione ai motivi d’appello proposti dal dante causa, ma non anche la proposizione di domande nuove (Cass. n. 10490/2001), salvo quella diretta all’accertamento del suo diritto di intervenire, qualora venga contestato da una o da entrambe le parti originarie. E’ stato infatti precisato da questa Corte che “In tema di trasferimento del diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie e, pertanto, sono ininfluenti le vicende attinenti a posizioni giuridiche attive o passive successive all’inizio della causa. Ne deriva che l’acquirente del diritto contestato, pur potendo spiegare intervento volontario ex art. 111 c.p.c., non diviene litisconsorte necessario e che è validamente emessa la sentenza che non abbia disposto nei suoi confronti l’integrazione del contraddittorio” (da ultimo Cass.14489/2018).

Alla stregua di detti principi, non può darsi ingresso nel processo in grado d’appello alla domanda proposta, nei termini precisati, da Intesa Sanpaolo, che non è la medesima, neppure in termini di quantum, proposta da Impresa, parte, quest’ultima, neppure estromessa dal giudizio. Nè di alcun vulnus al proprio diritto di difesa può dolersi la cessionaria, atteso che la totale coincidenza dell’ambito di partecipazione al processo del successore a titolo particolare rispetto a quello del dante causa discende, necessariamente, dalle caratteristiche, del tutto peculiari, del suo intervento, giustificandosi, anzi, il suddetto limite anche per l’esigenza di non privare di un grado di merito l’interventore che intenda proporre domande nuove.

5.2. Devono ora esaminarsi i primi tre motivi di ricorso incidentale proposti da RFI.

5.2.1.Il primo motivo è infondato per le considerazioni già espresse, dovendosi ribadire che il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è “terzo” nel senso precisato ed è esclusa l’esperibilità da parte sua, ai sensi dell’art. 404 c.p.c., comma 1, dell’opposizione ordinaria di terzo, il quale è, invece, titolare di diritto autonomo e incompatibile (Cass. n. 21492/2018). Non è pertinente il richiamo della pronuncia di questa Corte citata da RFI (Cass.n. 9752/2011), che riguarda l’intervento in appello del litisconsorte necessario, ossia una fattispecie del tutto differente da quella che si sta scrutinando.

5.2.2. Il secondo motivo riguarda l’interpretazione, effettuata dalla Corte territoriale, del contratto di cessione dei crediti in garanzia del 15/11/2011 con il quale BTP Infrastrutture s.r.l. ed Impresa hanno ceduto ad un gruppo di Banche (Unicredit S.p.A., Monte dei Paschi di Siena S.p.A., BNL S.p.A., Intesa Sanpaolo S.p.A. e Banca Popolare di Milano s.c.a.r.l.) i propri crediti da riserve relativi al contratto di appalto oggetto di causa. La Corte territoriale ha evidenziato che nel contratto di cessione dei crediti del 15/11/2011 è previsto, all’art. 16.2, che i creditori garantiti hanno diritto di sostituire la Banca Agente con altro soggetto che avrà gli stessi diritti, facoltà e poteri in qualità di mandatario con rappresentanza dei creditori garantiti.

In base a tale previsione, la Corte territoriale ha ritenuto superate le argomentazioni svolte da RFI in secondo grado e riproposte nel presente, affermando, in particolare, che “la clausola di cui all’art. 16.2, infatti, di natura convenzionale, supera le preclusioni di cui all’art. 1723 c.c., comma 2 e art. 1726 c.c. (le quali, essendo certamente norme dispositive e non imperative, possono essere derogate da accordi tra le parti) e, consentendo una sostituzione della mandataria, ha reso lecito l’intervento nel presente giudizio di Banca Intesa, da considerare come effettuato in sostituzione della precedente mandataria”.

A fronte di tale puntuale motivazione, RFI non svolge alcuna specifica censura su tale iter interpretativo e argomentativo, nè indica quali siano i criteri ermeneutici violati dalla Corte territoriale, limitandosi a riproporre le stesse difese svolte in secondo grado. La Corte territoriale ha aggiunto che “eventuali problemi relativi alla sostituzione di Unicredit S.p.A. con Intesa Sanpaolo S.p.A. oppure al fatto che essa è intervenuta in giudizio facendo valere unicamente le proprie ragioni di credito e non anche quelle delle altre Banche creditrici, possono rilevare solo nel rapporto interno tra mandante e mandataria, ma non possono certamente essere eccepite nè dal cedente (impresa S.p.A., la quale ha partecipato al contratto di cessione) nè, tantomeno, dalla debitrice ceduta, alla quale è indifferente il soggetto a cui effettuare il pagamento (nè potendosi porre, nei suoi confronti, un problema di pagamento a creditore apparente, essendo comunque Intesa Sanpaolo una delle Banche creditrici ed avendo, per di più, agito solo nei limiti della sua quota di credito)”.Anche in ordine a tale argomentazione RFI non svolge censure specifiche, limitandosi genericamente a sostenere che il pagamento effettuato a Intesa “potrebbe non essere liberatorio”, senza altro precisare a confutazione di quanto affermato dalla Corte territoriale sul punto.

La censura espressa con il secondo motivo deve essere, pertanto, ritenuta inammissibile.

5.2.3. Con il terzo motivo RFI denuncia il vizio di violazione di legge per errata interpretazione dell’art. 9, comma 1, del contratto di appalto, secondo il quale i crediti e debiti derivanti dall’esecuzione dell’appalto “non possono formare oggetto di cessione o di delegazione o di mandato all’incasso se non previa autorizzazione scritta da parte del Direttore Amministrativo di Ferrovie…”, autorizzazione mancante nel caso di specie, come incontroverso in causa.

La giurisprudenza di questa Corte ha precisato, esprimendo un orientamento a cui il Collegio intende dare continuità, che, “per quanto concerne le norme sulla cessione, rilevano tre regole 13 fondamentali. La prima deriva dall’art. 1260 c.c., comma 1, che pone come principio generale, fatti salvi determinati limiti della legge speciale qui ininfluenti, quello della libera cedibilità dei crediti; si tratta di un principio idoneo ad ingenerare nel cessionario l’affidamento di normale cedibilità del credito e, pertanto, di legittimità e regolarità della cessione operata a suo favore. La seconda è desumibile dall’art. 1372 c.c., comma 1, in base al quale il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, se non nei casi previsti dalla legge; ed è del tutto normale che il cessionario sia estraneo all’accordo di non cedibilità intercorso – per un interesse che è soltanto di costoro – tra cedente e ceduto. La terza deriva dall’art. 1260 c.c., comma 2, secondo cui solo eccezionalmente il divieto di cessione può essere opposto al cessionario, allorquando si provi (ad onere del cedente o del ceduto) che questi ne era a conoscenza”(Cass. n. 825/2015).

Nel caso di specie la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione delle norme indicate, ritenendo che fosse onere del debitore ceduto RFI provare che la cessionaria si trovasse in una condizione, non già di mera conoscibilità del divieto, ma di sua effettiva conoscenza.

L’interpretazione restrittiva dell’art. 1260 c.c., comma 2, nel senso precisato, si giustifica per ragioni testuali (art. 1260, comma 2: “se non si prova che egli lo conosceva”), finalistiche (certezza della circolazione dei crediti) e logico-sistematiche (massimo contenimento dei casi di estensione degli effetti del contratto a chi non ne sia stato parte), così da ritenere necessario che la prova verta non già sulla mera conoscibilità del divieto in capo al cessionario, ma sulla sua effettiva conoscenza al tempo della cessione.

Esclusa, quindi, la sussistenza dell’unico vizio denunziato con il terzo motivo – violazione di legge-, resta da aggiungere che le circostanze allegate da RFI tendono a delineare un quadro probatorio difforme da quello accertato, insindacabilmente se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dal giudice di merito, proponendone una rilettura in chiave essenzialmente indiziaria, così travalicando i limiti connaturati al vaglio di legittimità.

Nella specie, infatti, la Corte d’appello ha, motivatamente, ritenuto che non vi fosse la prova, ex art. 1260 c.c., comma 2, che Intesa fosse a conoscenza del pactum de non cedendo al momento della cessione. Ha aggiunto che la prova suddetta, di cui era onerata RFI, non emergeva neppure dal testo del contratto di cessione dei crediti da riserve, ove si faceva solo un generico riferimento, inidoneo a fondare la prova della conoscenza, da parte delle Banche cessionarie, dell’esistenza di tale patto, alla Convenzione n. 123/02 (cfr. premesse del contratto, lett. A).

Circa la doglianza relativa all’incedibilità del credito perchè futuro, secondo il più recente orientamento di questa Corte (Cass. n. 31896/2018) la cessione dei crediti futuri, ivi compresi quelli aventi causa risarcitoria, non ha natura meramente obbligatoria e vi si può procedere – quando nel negozio dispositivo sia individuata la fonte, oppure la stessa sia determinata o determinabile – senza che rilevi la probabilità della venuta in essere del credito ceduto, non esistendo una norma che vieta la disponibilità dei diritti futuri perchè meramente eventuali, con la conseguenza che la venuta in essere del credito futuro integra un requisito di efficacia della cessione, ma non della sua validità.

Il terzo motivo è da ritenersi, pertanto, infondato.

6. Con il quarto motivo (primo in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 18) RFI denuncia la “violazione e/o falsa applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 6, comma 19, L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4 bis, D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 244, comma 3, D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 133, n. 2 lett. e (C.P.A.), circolare prot. 871/CD del 4 agosto 2005 del Ministero delle infrastrutture e trasporti, ora D.P.R. n. 207 del 2010, art. 171”.

Il motivo attiene alla questione del difetto di giurisdizione del giudice ordinario ed è stato deciso con la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 14696/2019 citata.

7. Con il quinto motivo (secondo in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 20) RFI lamenta “violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della circolare prot. 871/CD del 4 agosto 2005 del Ministero delle infrastrutture e trasporti, ora D.P.R. n. 207 del 2010, art. 171, nonchè della convenzione di appalto del 2002 e dell’art. 2697 c.c. in relazione alla riserva n. 7 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Deduce che è mancata la prova, il cui onere incombe sull’appaltatore, degli oneri da aumento dei prezzi mediante allegazione delle quantità dei materiali e dell’aumento dei prezzi secondo le indicazioni del citato DM. Nel riconoscimento dell’eventuale compensazione non esiste alcun automatismo, ad avviso di RFI, e l’appaltatore non aveva dato la prova dell’effettiva maggiore onerosità subita producendo adeguata documentazione, ad esempio mediante dichiarazioni dei fornitori o subcontraenti. Inoltre non erano state dimostrate da Impresa la quantità dei materiali effettivamente utilizzati e la fornitura di rame ulteriore rispetto a quella già prevista nel contratto di appalto a carico di RFI. Lamenta la violazione dell’art. 2967 c.c. da parte della Corte territoriale, in ordine al riparto dell’onere probatorio, gravante sull’appaltatore e non adempiuto.

8. Con il sesto motivo (terzo in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 24) RFI lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1177 c.c. e dell’art. 2 p. 4 della convenzione di appalto del 2002 in relazione alla riserva n. 33 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Assume che la Corte territoriale, nel riconoscere a Impresa, per la riserva n. 33, l’importo di Euro 14.082, ridotto rispetto a quello inizialmente richiesto di oltre Euro 80.000, abbia falsamente applicato il contratto e invertito indebitamente l’onere della prova. Segnatamente l’art. 4 p.2 della convenzione d’appalto del 2002 prevedeva che il rame fosse fornito dalla committenza. Deve, quindi, presumersi che il rame fosse stato fornito da RFI e che Impresa, ricevuta la fornitura, avesse l’onere di custodirla, sicchè erroneamente la Corte territoriale aveva invertito le regole sull’onere della prova, che gravava su Impresa.

9. Con il settimo motivo (quarto in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 26) RFI denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 28 punto 2 delle condizioni generali di contratto in relazione alle riserve 26 e 28 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.Nel censurare l’an delle pretese creditorie riferite alle suddette riserve, mentre il quantum resta ancora da stabilire con la sentenza definitiva, deduce che il rifiuto di Impresa di riprendere i lavori alla data fissata da RFI dopo la sospensione parziale ha integrato un comportamento illegittimo. Inoltre rimarca che la sospensione parziale aveva inciso solo sui lavori di armamento e di trazione elettrica, mentre le altre attività avrebbero potuto proseguire, e che non vi era alcuna prova documentale in merito ai crediti relativi alle due riserve di cui trattasi relativamente alle varie voci, sicchè l’appaltatore non poteva pretendere il riconoscimento di maggiori compensi o dei pregiudizi derivanti dalla sospensione.

10. Con l’ottavo motivo (quinto in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag. n. 31) RFI lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della convenzione di appalto del 2002 in relazione alla riserva n. 30 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Nel censurare l’an della pretesa creditoria riferita alla suddetta riserva, mentre il quantum resta ancora da stabilire con la sentenza definitiva, adduce che la riserva n. 30 altro non è che la duplicazione della riserva n. 21, ritenuta infondata dalla Corte territoriale, e che non era stata dimostrata da Impresa la mancata concessione dei tempi di interruzione previsti in contratto (3 ore e 45 minuti). Ad avviso di RFI l’apertura di una nuova linea ferroviaria a (OMISSIS) ha alleggerito il traffico nella stazione di (OMISSIS) ed ha consentito l’esecuzione dei lavori con tempi di interruzione finanche superiori a quelli. previsti in progetto.

11. I motivi quinto, sesto, settimo e ottavo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, riguardando tutti la lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., sono in parte infondati e in parte inammissibili.

11.1. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il ricorrente per cassazione che deduca la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere il giudice di merito ritenuto sussistente un fatto senza che la parte gravata dall’onere della prova di esso l’avesse assolto, deve necessariamente evidenziare che quel fatto era stato oggetto di contestazione ed indicare se e quando, nel corso dello svolgimento processuale, detta contestazione era stata sollevata (Cass. n. 17474/2018 e Cass.n. 10853/2012). L’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass. n. 27490/2019). Inoltre, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 21187/2019). E’, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, la valutazione probatoria delle risultanze di causa, in base alla quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato.

Anticipando e riassumendo le considerazioni che saranno espresse nel prosieguo in relazione a ciascun motivo, non ricorre la violazione dell’art. 2697 c.c. denunciata e le censure di RFI, che lamenta il difetto di prova da parte di Impresa in ordine alle pretese relative alle riserve di seguito partitamente e in dettaglio esaminate, si risolvono, inammissibilmente, nella richiesta di nuova valutazione, difforme da quella effettuata dalla Corte d’appello con riferimento ai vari singoli fatti di cui si dirà, delle risultanze probatorie e della non contestazione senza, peraltro, che sia indicato se e quando, nel corso dello svolgimento processuale, la contestazione sui fatti ritenuti dimostrati dai Giudici di merito sia stata sollevata.

11.2. Con riferimento alle doglianze di cui al quinto motivo (riserva 7), la Corte d’appello ha ritenuto provate le pretese sia per maggiori oneri che per fornitura aggiuntiva di rame, con accertamento di fatto incensurabile e più che adeguatamente motivato.

In particolare la Corte territoriale ha affermato che: 1) l’aumento dei prezzi dei materiali da costruzione risulta dal decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 30/06/2005; 2) il calcolo, effettuato nei limiti di tale accrescimento, non può essere oggetto di contestazione poichè dipendente da un provvedimento ministeriale; 3) l’onere di dimostrare il credito era stato assolto da Impresa con la nota del 04/08/2005, con cui detta società aveva avanzato la propria richiesta di riconoscimento dei maggiori oneri sostenuti ed i consulenti tecnici d’ufficio (CTU gennaio 2013, pagg. 23-24) avevano effettuato i propri calcoli in base a quanto riportato in detta nota; 4) era onere della committente contestarne la veridicità e la contestazione non risultava essere stata mossa; 5) l’importo di cui alla suddetta nota era sempre stato richiamato nei SAL successivi alla sottoscrizione dell’Accordo Bonario tra le parti, in cui Impresa aveva dichiarato di non voler rinunciare ad eventuali benefici derivanti da provvedimenti legislativi relativi all’anomalo andamento del prezzo dei materiali. Sulla fornitura ulteriore di rame, la Corte d’appello ha accertato che, in base all’elaborato peritale, risultava, senza vi fosse stata specifica contestazione sul punto da parte di RFI, che la somma riconosciuta all’appaltatrice per l’aumento del costo del rame (Euro 19.642,12) le era stata concessa in quanto, nonostante il contratto di appalto prevedesse a carico della stazione appaltante la fornitura di materiali in rame, “erano altresì previste ulteriori lavorazioni che prevedevano l’utilizzo del rame come materia prima. Pertanto, a tali lavorazioni, previste nelle voci a corpo contrattuali (art. 6) è riferito l’indennizzo per l’anomalo aumento del costo dei materiali (C.T.U. gennaio 2013, pagg. 2122)”.

A fronte di tale puntuale percorso argomentativo, RFI si limita a dedurre l’erroneità della C.T.U. espletata in primo grado e a richiamare degli ordini di servizio, con cui assume di aver contestato l’adeguamento prezzi, senza altro precisare (pag.22 ricorso).

11.3. Quanto alle censure di cui al sesto motivo (riserva 33), la Corte territoriale ha affermato che Impresa aveva contestato l’inadempimento di RFI, consistito nella mancata consegna di due bobine di rame. Accertata, motivatamente, la sussistenza di detta contestazione, la Corte d’appello di seguito ha affermato che “la prova di tale consegna non è stata fornita da RFI, i cui consulenti (cfr. CTU del gennaio 2013, pag. 94) hanno sostenuto che la consegna delle bobine risulterebbe da dei verbali di cui però non vi è traccia tra i documenti prodotti dall’appellante principale; nè tantomeno la prova documentale può evincersi dalla CTU, dal cui resoconto (pagg. 95-96) non emerge l’indicazione di alcuno specifico verbale da cui risulterebbe la consegna di tali merci (data semplicemente per presupposta), ma solo che Impresa S.p.A. ha lamentato la mancanza delle stesse”.

RFI contesta la suddetta valutazione delle risultanze probatorie effettuata dalla Corte territoriale, assumendo che sia stato invertito l’onere della prova e che l’avvenuta consegna avrebbe dovuto presumersi perchè contrattualmente prevista.

Nulla deduce, invece, RFI sulla contestazione di Impresa circa la mancata consegna, affermata come sicuramente dimostrata dai Giudici di merito, i quali, correttamente, hanno ritenuto che, a seguito dell’eccezione di inadempimento sollevata da Impresa, in base alle regole generali sulla responsabilità contrattuale (tra le tante Cass.n. 826/2015), fosse onere della committente RFI di provare l’adempimento, ossia l’avvenuta consegna delle bobine.

11.4. Anche il settimo motivo (riserve n. 26 e 28, la sentenza impugnata ha statuito solo sull’an) si risolve in inammissibile censura sulla valutazione delle risultanze probatorie, atteso che, la statuizione si è basata sulle emergenze della CTU disposta in primo grado, secondo la quale tutti i ritardi erano da imputare alla stazione appaltante.

11.5. L’ottavo motivo (riserva n. 30, la sentenza impugnata ha statuito solo sull’an) concerne l’interpretazione del contenuto della citata riserva ed il conseguente accertamento di merito, per il quale, peraltro, è stata disposta nel giudizio di merito integrazione istruttoria.

Premesso che la riserva 21 non è stata ritenuta infondata, contrariamente a quanto deduce RFI, ma è stata esclusa dalla Corte d’appello perchè genericamente formulata, i Giudici di merito hanno ritenuto, interpretando la dizione della riserva n. 30, che Impresa avesse, con la medesima, lamentato una decurtazione pari al 54,13% rispetto alla durata delle interruzioni originariamente pattuita, e quindi superiore al limite del 30% previsto dall’allegato 9 punto 82 affinchè l’interruzione possa considerarsi concessa per l’intero.

RFI genericamente adduce che l’appaltatore non ha dimostrato i fatti oggetto della riserva, concernente maggiori oneri per mancata concessione di interruzioni, senza tuttavia indicare quali siano i criteri ermeneutici violati dalla Corte d’appello nell’interpretazione del contenuto della riserva, nonchè ponendo in evidenza alcune circostanze, quali l’attivazione di nuova linea ferroviaria, senza denunciarne nè l’omesso esame, nè la decisività.

12. Con il nono motivo (sesto in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 33) RFI lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della convenzione di appalto del 2002 in relazione alla riserva n. 35 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Dopo aver premesso che anche in relazione a detta riserva la statuizione censurata è riferita solo all’an della pretesa, deduce RFI che la mancata concessione di interruzioni del traffico ferroviario, dovuta alla necessità di garantire il traffico ferroviario pubblico sulla linea in esercizio, non comporta automaticamente il riconoscimento di maggiori oneri all’appaltatore. Alla stazione appaltante non era imputabile alcun fatto illecito non scaturente da prerogative contrattuali, sì da giustificare il rimborso dei maggiori costi derivanti dalla protrazione del termine di ultimazione lavori. Le ragioni poste a base della riserva rendevano giustificata solo la proroga, che era stata effettivamente accordata, ma non il diritto al risarcimento.

13. Il nono motivo è inammissibile perchè è generico e non viene censurata la ratio decidendi.

La Corte territoriale, dopo aver precisato che le mancate interruzioni ferroviarie hanno causato un allungamento dei tempi, ha affermato che: 1) era onere della stazione appaltante garantire che le interruzioni ferroviarie, necessarie per lo sviluppo regolare e tempestivo dell’appalto, si realizzassero integralmente, con conseguente imputabilità alla stessa delle mancate interruzioni; 2) RFI non ha indicato alcun articolo del contratto inter partes idoneo a corroborare la tesi secondo cui da quell’inadempimento sarebbe derivata solo la proroga e non anche il risarcimento dei maggiori oneri.

RFI non confuta specificamente le argomentazioni sopra riassunte, ma si limita genericamente ad addurre (pag.n. 35) che le parti possono consensualmente concordare la proroga e che le mancate interruzioni non erano del tutto alla deducente imputabili, stante l’esigenza di garantire il traffico ferroviario.

14. Con il decimo motivo (settimo in base alla numerazione di cui al ricorso incidentale – pag.n. 35) RFI lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della convenzione di appalto del 2002 in relazione alla riserva n. 36 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Dopo aver premesso che anche in relazione a detta riserva la statuizione censurata è riferita solo all’an della pretesa, ad avviso di RFI non erano state esplicitate con puntuale motivazione, come prescritto dalle condizioni generali di contratto e dalla disciplina pubblicistica in materia di iscrizione delle riserve, le ragioni della riserva n. 36, relativa alla sesta proroga del termine di ultimazione dei lavori. Adduce RFI che la riserva è anche infondata in quanto le motivazioni addotte dall’appaltatrice ricalcano sostanzialmente gli argomenti posti a sostegno della riserva n. 35 e della quinta proroga.

15. Anche il decimo motivo (riserva 36) è inammissibile perchè è genericamente formulato e non contiene censure specifiche sulla ratio decidendi.

L’oggetto della riserva n. 36 è costituito dai maggiori oneri sostenuti dalla Impresa per l’allungamento dei termini intermedi e finali di ultimazione dei lavori dovuti a fatti e colpa della committente. La Corte d’appello ha affermato (pag.n. 16 sentenza impugnata) che: 1) il motivo della riserva era stato esplicitato ed era stato adeguatamente provato l’importo sostenuto per i maggiori oneri sostenuti a causa dell’allungamento dei tempi di esecuzione dell’appalto, come da documenti richiamati (doc. 46-e / 46-n fascicolo di parte appellante incidentale); 2) RFI non aveva indicato alcun articolo del contratto inter partes idoneo a corroborare la tesi secondo cui da quell’inadempimento sarebbe derivata solo la proroga e non anche il risarcimento dei maggiori oneri.

RFI sostiene che la riserva n. 36 sia generica, senza tuttavia nè riportarla testualmente, nè spiegare le ragioni della lamentata genericità, nè allegare la violazione, da parte dei Giudici di merito, di criteri ermeneutici nell’interpretazione del contenuto della riserva, nè censurare specificamente il percorso argomentativo seguito dalla Corte d’appello, basato anche su dati istruttori.

16. Passando all’esame dei motivi di ricorso incidentale proposti da Impresa, il primo denuncia la “violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 112c.p.c. e/o dell’art. 132 c.p.c., sotto il profilo del rilievo di un’omessa pronuncia del giudice di primo grado ovvero dell’erroneo riscontro di un’omessa motivazione sull’eccezione di tardività di alcune riserve; rilevanza di tale vizio di violazione di legge processuale, anche in relazione all’erroneità della decisione resa dal giudice d’appello sull’eccezione di tardività”. Censura Impresa la sentenza impugnata nella parte in cui è stata dichiarata la nullità della sentenza di primo grado per omessa pronuncia o per omessa motivazione sull’eccezione di tardività di alcune riserve, nonchè, e di conseguenza, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto fondata detta eccezione con riferimento alle riserve nn. 18, 31, 32 e 34. Rileva che il Tribunale si era pronunciato su detta eccezione, affermando che “tenuto conto dei tempi di manifestazione dei ritardi, le riserve risultano tempestivamente iscritte”, così correttamente applicando il D.P.R. n. 554 del 1999, art. 165, applicabile al rapporto d’appalto ratione temporis, l’art. 34 delle condizioni generali di contratto e la disposizione generale di cui all’art. 2935 c.c., secondo cui il termine di prescrizione, ed anche quello di decadenza, non escluso dall’elenco di cui all’art. 2964 c.c., decorre dal giorno in cui può essere fatto valere.

17. Il motivo è infondato.

La motivazione della sentenza del Tribunale sulla tempestività delle riserve di cui trattasi (“tenuto conto dei tempi di manifestazione dei ritardi, le riserve risultano tempestivamente iscritte”) è all’evidenza meramente apparente, dato che non consente minimamente di ricostruire l’iter motivazionale che ha condotto il Giudice di primo grado a quel convincimento.

18. Con il secondo motivo Impresa lamenta la “violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 2935 c.c., applicabile anche in tema di decadenza; conseguente violazione e falsa applicazione della disciplina della decadenza dalla riserva di cui al D.P.R. n. 554 del 1999, art. 165 applicabile al rapporto d’appalto ratione temporis, sì come non derogata ed anzi confermata dalla disposizione contrattuale dell’art. 34 delle condizioni generali di contratto (costituenti parte integrante della convenzione d’appalto n. 123 del 2002), nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. in relazione al mancato riconoscimento della responsabilità dell’ente appaltante e alla erronea ripartizione del rischio di appalto ai sensi della L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 25, dell’art. 1664 c.c., ivi richiamato, applicabile al rapporto d’appalto inter partes. Erronea applicazione dei principi di cui, da ultimo, a Cass. n. 10949/2014 nella decisione relativa alla tardività delle riserve nn. 18, 31, 32 e 34”. Sostiene Impresa che la Corte territoriale solo in apparenza abbia fatto applicazione dei principi giurisprudenziali richiamati. Seguendo il medesimo percorso argomentativo su tutte le riserve, la Corte d’appello ha prima verificato la data dell’iscrizione della riserva generica e poi ha accertato se il SAL successivo contenesse o meno la specificazione della riserva. Dopo aver verificato che nel SAL successivo tale specificazione mancava, ha dichiarato tardiva la riserva da danni per fatti continuativi. Ad avviso di Impresa, per affermare la tempestività della riserva non deve verificarsi se lo spazio di tempo tra la riserva generica e il SAL successivo sia un periodo di tempo sufficiente per la quantificazione della riserva, secondo il parametro della diligenza qualificata, contrariamente a quanto ha ritenuto la Corte d’Appello. Detta verifica è concepibile in relazione ad un danno complesso, qualora sia riconducibile ad un unico fatto generatore. Se il fatto dannoso è continuativo il controllo sulla tempestività deve farsi o nel momento in cui il fatto continuativo generatore di danno ha cessato di essere, ed il danno è obiettivamente apprezzabile (in questo senso, Cass. n. 1515/2000) o nel momento in cui il danno derivante dal fatto continuativo è obiettivamente prevedibile in via complessiva. Rimarca la ricorrente incidentale che la Corte d’Appello di Roma ha effettuato la verifica della tempestività della riserva nei termini anzidetti, valutando se tra la formulazione della generica e la sua quantificazione, fosse medio tempore, intervenuto un SAL ovvero se fossero decorsi 15 giorni dalla formulazione della riserva generica, nel caso della riserva n. 34. In quest’ultimo caso, la Corte d’Appello di Roma ha fatto applicazione dell’art. 34.4., comma 2, delle Condizioni Generali del Contratto, secondo cui “Qualora l’esplicazione e la quantificazione non siano possibili al momento della formulazione della riserva, l’appaltatore ha l’onere di provvedervi, sempre a pena di decadenza, entro il termine di quindici giorni scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande di indennità e indicando con precisione l’ammontare del compenso cui ritiene di aver diritto e le ragioni di ciascuna domanda”. Ad avviso di Impresa, detta disposizione contrattuale non riguarda il fatto continuativo, che invece connota la riserva n. 34. Assume che la Corte d’appello ha così violato l’art. 2935 c.c. e non ha neppure verificato quale fosse il momento di cessazione dei fatti dannosi continuativi come dies a quo della decorrenza della decadenza.

19. Con il terzo motivo Impresa lamenta ” in relazione alla decisione sulla riserva n. 18, oltre alla violazione delle norme indicate nell’epigrafe del precedente motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione delle parti, ovvero omesso esame, ai fini della valutazione in ordine alla tempestività della riserva, della progressiva emersione della potenzialità lesiva della mancata concessione, da parte di RFI, delle interruzioni dell’esercizio ferroviario e della prestazione di personale in esecuzione del I Accordo Modificativo Integrativo del marzo 2007″. Deduce Impresa che la Corte territoriale, con riferimento alla riserva n. 18, oltre ad incorrere nelle violazioni di legge denunziate con il secondo motivo, non ha tenuto conto del fatto che l’attitudine lesiva del comportamento della committente, rispetto all’attuazione dell’Accordo Modificativo Integrativo del marzo 2007, si è rilevata solo in progressione di tempo. Di conseguenza erroneamente la Corte territoriale ha attribuito esclusivamente rilievo decisivo all’affermazione resa dall’appaltatrice in calce al verbale del 18 luglio 2007, secondo cui la sospensione “doveva già essere disposta dal mese di aprile 2007”. Ad avviso di Impresa la suddetta affermazione non ha valenza confessoria, ma esprime solo una valutazione a posteriori, dalla quale non è dato desumere che vi fosse la consapevolezza originaria, da parte dell’appaltatrice, della potenzialità lesiva del comportamento della stazione appaltante, sicchè il primo manifestarsi dei ritardi imputabili alla committenza, nell’aprile 2007, non poteva essere assunto come termine di decorrenza della decadenza.

20. I motivi secondo e terzo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono in parte infondati e in parte inammissibili. 20.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte, richiamato nella sentenza impugnata e dalla stessa ricorrente incidentale Impresa, “Nei pubblici appalti, è obbligo dell’impresa inserire una riserva nella contabilità contestualmente all’insorgenza e percezione del fatto dannoso; in particolare, in relazione ai fatti produttivi di danno continuativo, la riserva va iscritta contestualmente o immediatamente dopo l’insorgenza del fatto lesivo, percepibile con la normale diligenza, mentre il “quantum” può essere successivamente indicato. Ne consegue che, ove l’appaltatore non abbia la necessità di attendere la concreta esecuzione dei lavori per avere consapevolezza del preteso maggior onere che tale fatto dannoso comporta, è tardiva la riserva formulata solo nel s.a.l. successivo ” (tra le tante da ultimo Cass.n. 28801/2018).

20.2. La Corte territoriale, nel dichiarare tardive le riserve n. 31, 32, 34 e 18, ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali suesposti e dell’art. 34.4., comma 2, delle Condizioni Generali del Contratto, prendendo in esame, partitamente, ciascuna nota di comunicazione di maggiori oneri e controllando quando era stata iscritta la corrispondente riserva nel primo SAL utile.

In dettaglio la Corte d’appello ha, infatti, precisato che: a) la riserva n. 31 era stata formulata da Impresa con nota del 12/03/2008 ed iscritta soltanto nel SAL 19 del 16/04/2008 e non, come invece avrebbe dovuto, nel SAL 18 del 20/03/2008, primo atto successivo al manifestarsi del fatto continuativo; b) la riserva n. 32 era stata esplicitata per la prima volta con nota del 07/11/2008 e la sua iscrizione non era avvenuta nel primo atto contabile successivo (ossia il SAL n. 22 del 28/11/08) ma, tardivamente, nel SAL n. 23 sottoscritto in data 22/01/09; c) la riserva n. 34, concernente fatti produttivi di danno continuativo, è stata formulata per la prima volta con nota del 27/11/08, avrebbe dovuto essere iscritta, ancorchè genericamente e senza indicazione del quantum, già nel SAL 22 del 28/11/08 ed invece l’appaltatrice aveva iscritto la riserva solo nel SAL 23 del 22/01/09. Una disamina differenziata merita la riserva n. 18, che pure concerne fatti produttivi di danno continuativo, avendo Impresa chiesto alla stazione appaltante la somma di Euro 1.826.170,06 a titolo di maggiori oneri subiti a causa del rallentamento della produzione e dell’anomalo andamento dei lavori per le mancate concessioni delle interruzioni. La Corte territoriale ha attribuito rilevanza probatoria decisiva alle dichiarazioni di Impresa in calce al verbale di sospensione lavori, dando conto, contrariamente a quanto adduce la ricorrente incidentale Impresa, della progressiva emersione della potenzialità lesiva dei fatti. In particolare i Giudici di merito hanno rimarcato che, nella riserva sottoscritta in calce al verbale di sospensione dei lavori del 18/07/07, Impresa aveva indicato “chiaramente che le cause che l’hanno costretta ad eseguire le proprie lavorazioni in maniera frazionata e disarticolata, in spregio agli impegni assunti con l’Atto Modificativo del marzo 2007 (cioè le mancate concessioni di rallentamenti, di interruzioni e di prestazioni del personale di REI), si fossero verificate sin dal mese di aprile 2007” (pag.n. 13 sentenza impugnata). La richiesta, indicata in calce al suindicato verbale di sospensione dei lavori, era stata iscritta nel SAL 13 del luglio 2007. In base al tenore della suddetta dichiarazione, la Corte d’appello ha ritenuto dimostrato che Impresa “avesse avuto, sin dal mese di aprile 2007, contezza del fatto che le mancate concessioni di rallentamenti ed interruzioni nonchè l’assenza del personale di RFI avrebbero creato un allungamento dei tempi di esecuzione dell’appalto e, di conseguenza, dei maggiori oneri da sostenere” (pag.n. 13 sentenza impugnata). Di conseguenza, ha affermato la Corte territoriale, Impresa, poichè poteva prevedere già da allora, utilizzando il parametro della normale diligenza, i danni che le mancate concessioni di rallentamenti ed interruzioni potevano cagionarle, avrebbe dovuto iscrivere la riserva nel SAL 12 del 19/06/07, mentre l’iscrizione era avvenuta solo nel SAL 13 del luglio 2007, e quindi tardivamente. Così riassunto l’articolato percorso motivazionale della sentenza impugnata sulla tardività della riserva n. 18, Impresa, inammissibilmente, censura la valutazione del materiale probatorio, il controllo della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, che sono, invece, riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità, ove il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, come è nel caso di specie.

21. Con il quarto motivo la ricorrente incidentale Impresa lamenta la “violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, degli artt. 99,112,342,329 e 336 c.p.c. ed in particolare vizio di extrapetizione in sede di impugnazione e violazione del principio del tantum devolutum quantum appellatum con riferimento alla decisione della Corte di appello di rigettare la riserva n. 29 per difetto di prova in assenza di doglianze fatte valere al riguardo da RFI, o comunque violazione dell’art. 115 c.p.c. in ordine alla reformatio in pejus su un profilo non contestato”. Riportando nel testo del controricorso il motivo d’appello di RFI in ordine alla riserva n. 29, deduce Impresa che la censura concerneva la tardività della riserva e l’infondatezza della stessa per contrarietà a buona fede del comportamento dell’appaltatrice. Non era, invece, stato contestato da RFI, nell’atto di appello, il difetto di prova del quantum richiesto in ordine alla riserva n. 29, che riguardava i maggiori oneri e danni per la sospensione dei lavori dal 12-10-2007 al 12-12-2007. RFI si era limitata a svolgere censure di diritto, in ordine al limite di cui all’art. 28 delle condizioni generali di contratto, e non di merito, ed anzi nell’atto di appello era riprodotta la quantificazione proposta dall’impresa in sede extra-processuale. Pertanto, ad avviso di Impresa, il tema della prova della pretesa non era compreso nei motivi d’appello di RFI ed era escluso dal devoluto, come da giurisprudenza di questa Corte che richiama (Cass. n. 19229 del 2015).

22. Il motivo è infondato.

22.1. La giurisprudenza più recente di Corte ha chiarito, esprimendo un orientamento a cui il Collegio intende dare continuità, che, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (Cass.n. 2217/2016 e Cass. n. 24783/2018).

22.2. Nel caso di specie RFI aveva anche contestato, in radice, la fondatezza della pretesa e la sussistenza del credito, deducendo che, durante il periodo a cui si riferiva la riserva n. 29, Impresa non aveva in cantiere nè mezzi, nè maestranze (pag.49 controricorso Impresa), sicchè, in applicazione dei principi di diritto suesposti, non opera il limite devolutivo nel senso prospettato da Impresa.

La pronuncia di questa Corte richiamata da detta parte si riferisce a fattispecie differente da quella che si sta scrutinando, poichè in quel caso la sentenza d’appello era stata resa su un punto della sentenza di primo grado non compreso, neppure implicitamente, nel thema decidendum, come delimitato dai motivi di gravame, nè connesso implicitamente ai punti censurati.

23. In conclusione, devono essere rigettati il ricorso principale proposto da Intesa Sanpaolo s.p.a. ed i ricorsi incidentali proposti da Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e da Impresa s.p.a. in amministrazione straordinaria.

24. Le spese del presente giudizio possono essere compensate tra tutte le parti, stante la reciproca soccombenza.

25. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale Intesa Sanpaolo s.p.a. e dei ricorrenti incidentali Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Impresa s.p.a. in amministrazione straordinaria, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale proposto da Intesa Sanpaolo s.p.a. ed i ricorsi incidentali proposti da Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e da Impresa s.p.a. in amministrazione straordinaria e compensa le spese di lite del presente giudizio tra tutte le parti.

Ai sensi della D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale Intesa Sanpaolo s.p.a. e dei ricorrenti incidentali Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Impresa s.p.a. in amministrazione straordinaria, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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