Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 512 del 11/01/2018

Cassazione civile, sez. lav., 11/01/2018, (ud. 19/09/2017, dep.11/01/2018),  n. 512

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 7.1.2016 la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Vicenza, ha condannato la società Gemmo s.p.a. a pagare a B.N. la somma di Euro 127.901,05 a titolo di risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18 (nel testo antecedente la novella legislativa del 2012) dovuto per l’accertata illegittimità del licenziamento dell’aprile 2008 nonchè l’ulteriore somma risarcitoria per l’inabilità temporanea conseguita a due infortuni sul lavoro, respinta la domanda di manleva proposta nei confronti delle società Unipolsai Assicurazioni s.p.a. e Aviva Italia s.p.a..

2. Il giudice d’appello ha, per quel che interessa, ritenuto che nessuna somma poteva essere detratta a titolo di aliunde percipiendum, avendo – il lavoratore – dimostrato di essersi attivato per la reperibilità, sin dal 2009, di altra occupazione che aveva consentito, seppur parzialmente, di limitare il danno.

3. La Gemmo s.p.a. ricorre per la cassazione di questa sentenza con tre motivi, illustrati da memoria. Il lavoratore e la società Unipolsai Assicurazioni s.p.a. resistono con controricorso. La società Aviva Italia s.p.a. è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con tutti e tre i motivi di ricorso la società ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1227,2727 e 2729 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè vizio di motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.p., comma 1, nn. 3 e 5) avendo, la Corte distrettuale, omesso di valutare la mancata cooperazione del lavoratore – successivamente al licenziamento – nel reperimento di un’altra occupazione, nonostante sussistessero, negli elementi istruttori raccolti, tutti gli indicii elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (ossia qualificazione professionale del lavoratore, andamento del mercato del lavoro, condotta del lavoratore), elementi istruttori che, comunque, integravano la prova presuntiva della scarsa diligenza tenuta dal lavoratore. In particolare, la Corte distrettuale ha omesso di valutare i modelli CUD presentati dal lavoratore da cui emerge – quantomeno dal 2010 – che il lavoratore ha percepito circa Euro 6.000,00 all’anno, cifra che corrisponde al reperimento di lavori saltuari, a tempo determinato e ad orario parziale e che dimostra la carenza di diligenza nel reperimento di altro posto di lavoro.

2. I motivi di ricorso, che essendo strettamente connessi possono affrontarsi congiuntamente, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Preliminarmente, va richiamato, l’orientamento di questa Corte, cui si è adeguata la Corte del merito nella sentenza impugnata, secondo cui in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. 12 maggio 2015, n. 9616; Cass. 17 novembre 2010 n. 23226).

In base a consolidato e condiviso orientamento di questa Corte il dovere del danneggiato di attivarsi per evitare il danno secondo l’ordinaria diligenza ex art. 1227 c.c., comma 2, deve essere inteso come sforzo di evitare il danno attraverso un’agevole attività personale, o mediante un sacrificio economico relativamente lieve, mentre non sono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza quelle attività che siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (cfr, per tutte: Cass. 11 marzo 2016, n. 4865; Cass. 11 febbraio 2005, n. 2855). La regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, è applicabile anche al danno da risarcire ex art. 18 Stat.lav. a seguito di un licenziamento dichiarato illegittimo, ma sempre entro i suddetti limiti, il che comporta, in particolare, che l’obbligo di cooperazione del creditore volto ad evitare l’aggravarsi del danno, nell’ambito dell’ordinaria diligenza, ivi previsto, possa riguardare solo quelle attività che non siano gravose, eccezionali o tali da comportare notevoli rischi e sacrifici per il creditore, secondo una valutazione riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Cass. 4 dicembre 2012, n. 21712; Cass. 11 maggio 2005 n. 9898; Cass. 6 luglio 2002, n. 9850; Cass. 11 maggio 2005 n. 9898; Cass. 13 giugno 2012, n. 9656).

Pertanto, non è ravvisabile alcun vizio nella sentenza impugnata per non aver proceduto a detrarre dall’entità del risarcimento del danno posto a carico della società i danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza per reperire un’attività lavorativa a tempo indeterminato e ad orario pieno, avendo sottolineato, la Corte distrettuale, che era emerso un tempestivo sforzo, da parte del lavoratore, di evitare il danno conseguente al licenziamento, sforzo che aveva consentito di limitare (seppur non interamente) la perdita della retribuzione percepita dalla società Gemmo.

3. I motivi si presentano, altresì, inammissibili in quanto va precisato che il giudice del merito è libero di scegliere le risultanze istruttorie ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, e di dare liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (ex plurimis Cass. SS.UU. 5802/1998 e 2418/2013, Cass. 1892/2002, 15355/2004, 1014/2006, 18119/2008, del 1998). Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie; controllo che attualmente è consentito negli stretti limiti del c.d. minimo costituzionale, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 22 giungo 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modd. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis” al caso in esame, posto che la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11.9.2012 (Cass. Sez. Un. n. 8053/2014; Cass. nn. 10075/2013, 15107/2013, 21234/2012; Ord. 6448/2017).

In particolare, compete al giudice del merito valutare se gli elementi offerti, complessivamente considerati, siano in grado di fornire una valida prova presuntiva; il risultato di tale accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, che è invece ammissibile quando nella motivazione siano stati pretermessi, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, una oggettiva portata indiziante (cfr da ultimo Cass. 1792/2017; in senso conforme, Cass. nn. 10973/2017, 12002/2017, 101/2015).

Nessuna omissione o contraddizione – nei termini precisati dalle Sezioni Unite n. 8053/2014 di tutela del minimo costituzionale – può ravvisarsi nella sentenza impugnata che ha ritenuto che “il lavoratore ha dimostrato di essersi attivato per reperire in termini ragionevoli (sin a partire dal 2009) altra occupazione anche se solo parzialmente ha consentito di contenere la perdita della retribuzione che sarebbe stata percepita mantenendo il rapporto lavorativo in essere con la Gemmo”. La sentenza impugnata ha, pertanto, esaminato gli elementi istruttori emersi in giudizio, rimanendo, per il resto, del tutto generica ed apodittica la prospettazione, nel ricorso, dell’ulteriore elemento “dell’andamento del mercato del lavoro”.

4 Il ricorso sulla base delle esposte considerazioni, in conclusione, va rigettato e le spese di lite sono regolate in applicazione del criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

4. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. i bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) da rigettarsi, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese di lite liquidate, per ciascun controricorrente, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarre a favore del procuratore di B.N. dichiaratosi antistatario, avv. Franco Focareta.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2018

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