Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5091 del 28/02/2017

Cassazione civile, sez. trib., 28/02/2017, (ud. 08/02/2016, dep.28/02/2017),  n. 5091

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BNP PARIBAS PERSONAL FINANCE spa (già BANCA UCB spa), rappresentata

e difesa dall’avv. Livia Salvini dall’avv. Giuseppe Maria Cipolla,

presso lo studio dei quali è elettivamente domiciliata in Roma in

Viale Giuseppe Mazzini n. 11;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 102/13/07, depositata l8 aprile 2008;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

febbraio 2016 dal Relatore Cons. Dott. Antonio Greco;

udita l’avv. Gabriele Escalar per la ricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La spa BNP Paribas Personal Finance, nuova denominazione sociale assunta dalla spa Banca UCB, propone ricorso per cassazione, con diciassette motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, rigettandone l’appello – accolto solo limitatamente alla statuizione sulle spese -, ha confermato la fondatezza della pretesa manifestata con l’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEG e dell’IRAP per l’anno 2000, con il quale si negava la deducibilità di interessi passivi corrisposti alla casa madre, la banca francese Compagnie Bancaire S.A., per i prestiti da questa concessi.

Dal verbale di constatazione era infatti emerso che la contribuente aveva stipulato il (OMISSIS) un contratto di capitalizzazione, di durata venticinquennale con la Cardif Societè Vie S.A. (appartenente al medesimo gruppo bancario) per l’importo di Lire 25.000.000.000, con un rendimento a tasso variabile legato all’andamento di un fondo di investimento gestito dalla stessa società.

Per finanziare tale operazione, non utilizzando la propria liquidità, aveva contratto il giorno precedente un prestito di pari importo, di durata quinquennale, al tasso fisso del 10,815% con la società capogruppo Compagnie Bancaire, e successivamente aveva ancora contratto con quest’ultima, per incrementare il capitale investito nel certificato Cardif, un ulteriore prestito di Lire 4.000.000.000, al tasso fisso del 6,91875%.

L’ufficio, rilevato che il certificato Cardif aveva in quegli anni, e nella fattispecie, offerto un rendimento sensibilmente più basso del costo rappresentato dagli interessi passivi pagati dalla contribuente alla casa madre per ottenere il finanziamento, vale a dire i fondi necessari alla sua acquisizione, riteneva che l’operazione avesse quale unico scopo l’ottenimento di un indebito vantaggio fiscale: mentre i proventi derivanti dal contratto di capitalizzazione erano stati tassati con ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 12,50%, infatti, gli interessi passivi erano stati interamente dedotti dai redditi, andando quindi ad incidere, in senso favorevole alla società contribuente, in misura del 37%. Attesa l’inesistenza di valide ragioni economiche e la finalità rappresentata dall’indebita riduzione d’imposta, con l’atto impositivo venivano disconosciuti, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, i vantaggi tributari conseguiti, considerando indeducibili gli interessi passivi pagati alla casa madre Compagnie Bancaire per il finanziamento ottenuto, tenendo conto dell’imposta pagata quale ritenuta alla fonte a titolo d’imposta sugli interessi attivi maturati sul certificato di capitalizzazione.

Secondo il giudice d’appello, poichè la valutazione di procedere all’investimento in valori mobiliari era stata effettuata prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, la norma sostanziale di riferimento era, anche per il periodo d’imposta 1998, quella dettata dall’art. 29 settembre 1990, n. 408, venendo in esame le disposizioni del detto art. 37 bis soltanto per la parte procedimentale.

L’assenza di valide ragioni economiche e lo scopo esclusivo di ottenere un risparmio di imposta veniva rinvenuta, avendo riguardo al contesto dei comportamenti della società contribuente nel rapporto con la società capogruppo, nella particolarità del collegamento tra finanziamento a tasso fisso ricevuto da questa e investimento di capitalizzazione presso la Cardif Societè. Come era emerso dalla verifica ed era stato richiamato nell’avviso di accertamento, la attività della contribuente consisteva esclusivamente nella erogazione di mutui immobiliari alla clientela privata a tasso fisso o variabile o misto, e per reperire quanto necessario alla detta erogazione la società contribuente ricorreva esclusivamente a finanziamenti ricevuti dalla capogruppo, con tipologie di finanziamento strettamente connesse: per i mutui a tasso fisso finanziamenti a tasso fisso di eguale durata e in caso di mutui a tasso variabile, finanziamenti a tasso variabile di eguale durata, con eguale parametro di riferimento per la determinazione del tasso. Nella specie, invece, il ricorso a prestiti per Lire 29.000.000.000 a tasso fisso era avvenuto esclusivamente per un immediato e corrispondente investimento in certificati Cardif C3 fondo Beta a tasso variabile, di per sè non vantaggioso. Le operazioni condotte dalla società contribuente integrano la fattispecie elusiva in presenza dell’elemento oggettivo costituito dall’esistenza di stretto collegamento temporale tra il prestito di Lire 25.000.000.000 seguito da investimento di eguale importo, e prestito di Lire 4.000.000.000 seguito da investimento di eguale importo; dell’elemento soggettivo desunto dall’assenza di valide ragioni economiche, confermata dalla contemporanea assunzione di reciproci obblighi fra le tre società del gruppo, con aspetti anomali rispetto alla politica gestionale della società contribuente; dell’elemento teleologico costituito dalla finalità di ottenere, mediante il collegamento negoziale, riduzioni di imposta altrimenti indebite. Il carattere fraudolento della condotta, da valutare secondo criteri diversi da quelli penalistici, sussiste, ravvisandosi nell’artificio che la società contribuente ha adottato per conseguire il vantaggio tributario, disegno di strumentalizzazione mediante comportamenti volontariamente diretti a una scorretta sottrazione di imponibile. La diversa durata dei negozi di finanziamento rispetto a quelli di investimento e l’allineamento dei rendimenti dei certificati Cardif… con quelli alternativi a basso livello di rischio sono argomentazioni addotte dalla società contribuente che, più che intaccare, corroborano quelle svolte nella sentenza impugnata. La argomentazione della diversa durata è contrastata dalla contemporaneità della scadenza dei finanziamenti e il riscatto anticipato delle somme investite; la argomentazione del rendimento analogo a quello proprio dei titoli a ridotto rischio accentua l’incongruenza fra l’impegno di pagare un tasso fisso di rilievo, anche non potendosi escludere aspettative di riduzione connesse all’adozione della moneta unica e il coevo corrispondente investimento con aspettative a basso rischio di resa modesta.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi del ricorso la società contribuente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine al rispetto dell’onere di motivazione dell’avviso di accertamento, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 5.

Con il terzo ed il quarto motivo denuncia la violazione della L. 29 dicembre 1990, n. 408, art. 10 (a tenore del cui comma 1 “E’ consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta”), rispettivamente, a) in quanto il comportamento elusivo contestato – posto in essere attraverso la deduzione dal proprio reddito imponibile di interessi passivi sostenuti nel periodo d’imposta 2000 a fronte della percezione, nel medesimo periodo d’imposta, di proventi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta con l’aliquota del 12,50% – sarebbe disciplinato ratione temporis esclusivamente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis e b), in quanto l’ufficio non sarebbe legittimato a disconoscere i vantaggi fiscali discendenti dall’attività elusiva contestata, non essendo questa riconducibile ad operazioni di valutazione di valori immobiliari ai sensi della disposizione in rubrica.

Con il quinto motivo denuncia la contraddittorietà della motivazione della sentenza nel ricondurre l’attività elusiva contestata ad un’operazione di valori immobiliari.

Con il sesto ed il settimo motivo si duole, rispettivamente sotto il profilo dell’error in procedendo e della violazione di legge, che il giudice d’appello abbia erroneamente ritenuto che il motivo con cui essa contribuente ha impugnato la sentenza di primo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 63 e 75 del T.U.I.R. sarebbe inammissibile per difetto di specifica critica, e per genericità.

Con l’ottavo motivo denuncia la violazione degli artt. 63 e 75 del T.U.I.R., nonchè dell’art. 2728 c.c., per non aver ritenuto precluso al giudice di merito, in forza della presunzione legale posta dalle due prime norme, la possibilità di affermare che gli interessi passivi dedotti da essa contribuente in relazione ai finanziamenti contratti con la propria capogruppo afferiscano in modo diretto ed univoco alla sottoscrizione del certificato di capitalizzazione ed al versamento del premio aggiuntivo.

Con il nono motivo, denunciando violazione di legge, assume che la deduzione dal reddito imponibile degli interessi passivi a fronte di proventi derivanti dal certificato di capitalizzazione soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta con l’aliquota del 12,50% non costituisce un vantaggio tributario indebito conseguito in modo fraudolento, in quanto gli artt. 63 e 75 del T.U.I.R., legittimano espressamente la deducibilità di interessi passivi sostenuti a fronte del conseguimento di proventi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo a titolo d’imposta.

Con il decimo motivo denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alle ragioni per cui la deduzione dal reddito imponibile degli interessi passivi derivanti dai finanziamenti stipulati con la capogruppo a fronte del conseguimento di proventi derivanti dal certificato di capitalizzazione assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta con l’aliquota del 12,50% costituirebbe una riduzione di imposta indebita; con l’undicesimo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di valide ragioni economiche nell’acquisizione del finanziamento in relazione alle ragionevoli aspettative di rendimento dell’investimento nel certificato di capitalizzazione sulla base delle informazioni di cui essa disponeva prima di sottoscrivere il detto certificato; con il dodicesimo motivo lamenta l’omessa motivazione in ordine alla sussistenza di valide ragioni economiche nella stipula, nel dicembre 1996, del finanziamento per l’importo degli ulteriori quattro miliardi di Lire dietro pagamento degli interessi passivi, e del versamento del premio aggiuntivo di pari ammontare, in relazione al rendimento realizzato dal certificato di capitalizzazione il 31 dicembre dello stesso anno.

Con riguardo alle sanzioni, con il tredicesimo motivo si duole, sotto il profilo della violazione di legge, che sia stata irrogata una sanzione amministrativa a titolo di infedeltà nella dichiarazione dei redditi derivante dall’inopponibilità all’amministrazione finanziaria degli effetti fiscali di un’operazione considerata elusiva; con il quattordicesimo motivo denuncia omessa pronuncia sulla richiesta di disapplicazione delle sanzioni per ricorrere obiettive condizioni di incertezza sull’ambito di applicazione e sulla portata delle disposizioni applicabili ai sensi della L. n. 212 del 212, art. 10, comma 2, mentre con il quindicesimo motivo lamenta l’omessa pronuncia sulla medesima richiesta, sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c. e con il sedicesimo motivo assume, lamentando violazione di legge, che sussisterebbe oggettiva incertezza normativa in ordine all’individuazione del principio in base al quale l’attività elusiva contestata costituirebbe una riduzione di imposta indebita.

Con il diciassettesimo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5 – “laddove obbliga il giudice che prende cognizione dell’ultimo giudizio a rideterminare le sanzioni complessivamente irrogate” -, si duole che la sentenza impugnata non abbia determinato la sanzione complessiva in relazione a tutti gli atti di irrogazione delle sanzioni emanati dall’ufficio per i periodi d’imposta dal 1996 al 2000.

Il ricorso è complessivamente infondato.

Questa Corte ha da tempo chiarito, in sede di nomofilachia, come “in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione” (Cass. sezioni unite, 23 dicembre 2008, n. 30055).

E si è precisato che “in materia tributaria, l’operazione economica che abbia quale suo elemento (non necessariamente unico, ma comunque) predominante e assorbente lo scopo elusivo del fisco costituisce condotta abusiva, ed è, pertanto, vietata allorquando non possa spiegarsi altrimenti (o, in ogni caso, in modo non marginale) che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate: nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una condotta abusiva con riguardo ad un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata mediante il concorso di tre società, che aveva comportato, come risultato finale, un vantaggio fiscale per una di esse, costituito da un’eccedenza di imposta portata in compensazione di quanto dovuto a titolo di IRPEG ed ILOR” (Cass. n. 3938 del 2014).

Alla luce dei principi affermati, sembra venir meno l’interesse della contribuente al terzo, al quarto ed al quinto motivo, ravvisandosi in tali censure profili di inammissibilità.

Nondimeno, quanto all’applicabilità ratione temporis della L. n. 408 del 1990, art. 10, non vi è dubbio che una parte rilevante della condotta, vale a dire il finanziamento ed il pressochè contestuale investimento, e quindi lo schema di collegamento negoziale – i cui effetti si sono poi prodotti con le dichiarazioni relative a periodi d’imposta successivi risalgono al dicembre 1995, e quindi ad un’epoca anteriore alla novella del 1997 con la quale fu introdotto nel corpo del D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 37 bis; e quanto al quarto ed al quinto motivo, la sussunzione, nei termini della sentenza impugnata, della fattispecie contestata in una “operazione di valutazione di valori immobiliari” (“posta in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta”), nei sensi dell’art. 10, comma 1 (come novellato nel 1994) della L. n. 408 del 1990, è del tutto coerente.

Sono infondati i primi due motivi, avendo accertato il giudice di merito che in relazione ai chiarimenti offerti dalla contribuente, nella motivazione dell’avviso di accertamento poi emesso, l’ufficio, dichiarando di “non ritenere condivisibile la memoria depositata dal contribuente in quanto non ritiene fondate le ragioni economiche sottostanti l’operazione contestata”, aveva, “sia pure sinteticamente, esposto nella motivazione dell’avviso una argomentazione idonea a confutare l’assunto nella memoria medesima sostenuto”.

Sono infondati l’ottavo ed il nono motivo, in quanto la sentenza impugnata non si pone in contrasto con il principio dell’inerenza e con lo specifico “sistema” di deducibilità degli interessi passivi dettati dal T.U.I.R. del 1986, perchè piuttosto afferma che “utilizzando” tali regole si sia perseguito e conseguito un risultato fiscale elusivo.

Sono conseguentemente inammissibili il sesto ed il settimo motivo.

Sono infondate le censure concernenti vizi di motivazione formulate con il decine, l’undicesimo ed il dodicesimo motivo, in quanto la sentenza impugnata, nel contesto dell’attività svolta dalla contribuente, ponendo in relazione, cronologica e logica, il finanziamento richiesto e l'”investimento” realizzato dalla società, e segnatamente lo squilibrio dei valori espressi dalle due operazioni, ha rilevato l’assenza di valide operazioni economiche, ravvisando come scopo esclusivo il conseguimento di un risparmio di imposta; ed ha puntualmente dato conto del complessivo disegno perseguito e dei passaggi in cui esso si articolava, senza trovare sostanziale, adeguata smentita nelle deduzioni difensive formulate.

Con riguardo alle sanzioni, il tredicesimo motivo non ha pregio, ove si consideri che questa Corte ha chiarito che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno l’abuso del diritto” (Cass. n. 25537 del 2011).

Quanto ai motivi quattordici, quindici e sedici, osserva il Collegio che “in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, può ravvisarsi l’incertezza normativa obiettiva, che è causa di esenzione del contribuente da responsabilità, quando la disciplina da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l’equivocità del loro contenuto, con conseguente insicurezza del risultato interpretativo ottenuto, riferibile non già ad un contribuente generico o professionalmente qualificato o all’Ufficio finanziario, bensì al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” (Cass. n. 4394 del 2014).

Nella specie, come rilevato dalla controricorrente, il carattere necessariamente intenzionale dell’elusione, più volte affermato dal giudice d’appello – che presuppone nell’agire la finalità di ottenere un indebito risparmio d’imposta -, è incompatibile con uno stato di buona fede, determinato da un’obiettiva incertezza sulla portata delle norme impositive, essendo noto che ad integrare tale stato soggettivo non è sufficiente una situazione di dubbio circa la portata di una norma impositiva, dovendo il contribuente, anche in caso di dubbio, astenersi dal tenere la condotta potenzialmente illecita, facendo semmai riserva di ripetizione delle imposte eventualmente non dovute.

Il diciassettesimo motivo è infondato.

Come questa Corte ha ripetutamente affermato, “in tema di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, l’applicazione del regime del cumulo giuridico delle sanzioni, previsto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, può essere richiesta soltanto nell’ambito di un “iter” processuale corretto, che, per quanto attiene al giudizio di legittimità, presuppone la formulazione della richiesta nel giudizio di merito, affinchè essa possa essere riproposta, se rigettata o non valutata, nel giudizio di cassazione” (Cass. n. 26457 del 2014, n. 28384 del 2005).

Nella specie dalla sentenza impugnata non risulta che tale domanda sia stata posta, nè la società ricorrente indica il luogo dell’appello in cui essa sarebbe stata formulata, anzi neppure sostiene di averla posta.

Trova invece applicazione alla fattispecie, come dedotto nella memoria dalla difesa della società contribuente, in virtù di quanto disposto per i procedimenti in corso del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 3 e art. 25, comma 2 (cfr. Cass. n. 20141 del 2016), lo ius superveniens recante “legge più favorevole” in materia di sanzioni costituito da quanto previsto al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, comma 1, lett. a), che ha, tra l’altro, sostituito del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, il comma 2, determinando la sanzione minima – irrogata con l’atto impositivo in esame – nel “novanta per cento della maggiore imposta dovuta”, in luogo del “cento per cento della maggior imposta”.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, determinandosi, in applicazione della legge più favorevole sopravvenuta, la misura della sanzione minima nel novanta per cento in luogo del cento per cento.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Determina la sanzione nella misura prevista dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, nel senso indicato in motivazione.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 6.000 per compensi di avvocato oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2017

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