Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5045 del 01/03/2011

Cassazione civile sez. II, 01/03/2011, (ud. 25/01/2011, dep. 01/03/2011), n.5045

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A., rappresentato e difeso per procura speciale per atto

dott. Savio Maurizio, notaio in Napoli, del 20 gennaio 2010, rep.

3045, dall’Avvocato Tramonti Eugenio Gianalberto, elettivamente

domiciliato presso il suo studio in Roma, via A. Mordini n. 14;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, in persona del

presidente e legale rappresentante, rappresentato e difeso per

procura in calce al controricorso dagli Avvocati Collina Pietro e De

Ruvo Gaetano, elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura centrale

dell’Istituto in Roma, via della Frezza n. 17;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 900 della Corte di appello di Roma, depositata

il 28 febbraio 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25

gennaio 2011 dal consigliere relatore Dott. BERTUZZI Mario;

udite le difese del controricorrente, svolte dall’Avv. Anziano

Daniela per delega dell’Avv. Pietro Collina;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha chiesto il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.A., premesso che in qualità di dottore commercialista aveva stipulato in data 17 febbraio 2002 una convenzione con l’INPS avente ad oggetto la trasmissione via internet all’Istituto dei dati reddituali dei pensionati, c.d. modelli red, ma di non aver potuto effettuare la propria prestazione a causa del mancato invio dalla controparte delle istruzioni concernenti le procedure informatiche necessarie per effettuare la trasmissione, si rivolse al collegio arbitrale previsto dal contratto chiedendo che, previo accertamento dell’inadempimento dell’INPS, l’istituto fosse condannato a risarcirgli il danno economico e d’immagine.

Si costituì l’INPS assumendo che tutte le indicazioni utili per la trasmissione dei dati via internet erano a disposizione sul proprio sito, accessibile a tutti, e che comunque l’istante non aveva dimostrato di avere raccolto nessun dato. Con lodo del 4 aprile 2002, il collegio arbitrale affermò la responsabilità dell’INPS in quanto il dott. G. non avrebbe potuto consultare le informazioni presenti sul sito internet non essendogli stata consegnata la necessaria chiave telematica di accesso e liquidò il danno dallo stesso subito nell’importo di Euro 15.493,71.

Proposta impugnazione da parte dell’INPS, la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 900 del 28 febbraio 2005, dichiarò nullo il lodo, affermando che gli arbitri erano incorsi in un palese travisamento dei fatti, atteso dagli atti di causa risultava che l’acquisizione delle procedure telematiche di trasmissione dei dati erano presenti nel sito internet dell’Istituto accessibile a tutti, mentre la chiave telematica di accesso, consegnata al commercialista solo in data 18.10.2000, era necessaria ai soli fini della trasmissione delle dichiarazioni raccolte. La Corte affermò inoltre anche la nullità della statuizione relativa alla liquidazione del danno, pronunciata dagli arbitri pur in mancanza di prova da parte dell’istante di avere raccolto dichiarazioni reddituali da parte di pensionati da trasmettere all’Istituto.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 7 luglio 2005, ricorre, sulla base di due motivi, G.A..

Resiste con controricorso, illustrato anche da memoria, l’INPS.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso, che denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. e difetto di motivazione della sentenza per errata valutazione dei fatti”, censura l’accertamento della sentenza impugnata, in forza del quale essa ha ritenuto l’Istituto esente da colpa, secondo cui le informazioni sulla procedura contenute nel sito internet dell’Istituto erano accessibili liberamente, senza necessità di utilizzare la chiave telematica di accesso. Questa affermazione, ad avviso del ricorrente, è errata, in quanto tale fatto non risulterebbe da alcun documento in atti, essendo anzi emerso dalla documentazione esibita dall’istante nonchè dalle deposizione dei testi escussi che per avere informazioni sulla trasmissione telematica dei modelli red era necessario inserire la “famosa chiave di accesso” fornita dal Ministero delle Finanze e che il dott. G. sì possedeva, ma non sapeva di dover usare, non avendo ricevuto notizia di ciò da parte di alcuno. La conclusione fatta propria dal giudice a quo, in particolare, appare smentita una serie di circostanze e di elementi di prova: il fatto che le numerose richieste di chiarimenti inoltrate via mail dall’istante non ebbero risposta da parte dell’INPS, se non dopo l’attivazione della procedura arbitrale; la circostanza, confermata dal teste A.C., che ogni volta che egli, accedendo al sito per la trasmissione telematica, inseriva il proprio codice fiscale, lo stesso risultava “errato” o “non presente tra i certificati abilitati nei nostri archivi”; le deposizioni testimoniali da cui è emerso che per poter trasmettere i modelli red era necessario non solo essere abilitati ai sensi del D.L. 28 dicembre 1998, n. 490, abilitazione che il ricorrente possedeva, ma anche essere autorizzati dal Ministero delle Finanze. Lo stesso Collegio arbitrale aveva poi riconosciuto che il dott. G. non era mai stato reso edotto della necessità di utilizzate la chiave di accesso, nè al momento della stipula della convenzione, nè quando si era recato per chiarimenti presso la sede dell’Istituto in Arzano.

La Corte di appello, inoltre, non ha considerato che, come riferito dai testi A.C. e M.G., dirigenti dell’INPS, dei tentativi di accesso compiuti dall’istante nel sito dell’Istituto non poteva rimanere traccia, sicchè la relativa circostanza avrebbe dovuto essere acclarata tramite presunzioni, dall’esame del complesso degli elementi e delle risultanze istruttorie acquisiti. Il motivo è inammissibile.

Il mezzo fonda la sua critica alla sentenza impugnata sull’assunto che il giudice territoriale ha mal valutato le prove raccolte in giudizio, dal momento che esse dimostrerebbero, diversamente da quanto da questi affermato, che l’accesso sul sito internet dell’Istituto per l’acquisizione delle informazioni necessarie per la trasmissione dei modelli era necessario utilizzare la chiave telematica di accesso, informazione che nonostante le richieste di chiarimenti avanzate dall’istante l’INPS avrebbe sempre trascurato di fornire.

Le censure così sollevate sono però inammissibili nella misura in cui tendono ad accreditare una ricostruzione dei fatti, attraverso una valutazione diretta da parte di questa Corte delle prove raccolte in giudizio, divergente da quello compiuta dal giudice di merito. E’ noto, per contro, che nel giudizio di legittimità, non essendo questa Corte giudice del fatto, non sono proponibili censure dirette a provocare un nuovo apprezzamento delle risultanze processuali, diversa da quella espresso dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione, che, se dedotto, conferisce alla Corte di legittimità il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale, l’esame e la valutazione dei fatti compiuta dal giudice del merito, non già quello di effettuare un nuovo esame ed una nuova valutazione degli stessi (Cass. n. 14972 del 2006; Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002).

A tale considerazione merita aggiungere che le censure sollevate dal ricorso non appaiono sostenute dal requisito di autosufficienza, il quale impone al ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie di riprodurre esattamente il contenuto dei documenti e delle prove che si assumono non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004). Costituisce diritto vivente di questa Corte infatti il principio che il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. n. 15952 del 1997; Cass. n. 14767 del 2007; Cass. n. 12362 del 2006).

Nel caso di specie, in particolare, il ricorso non rispetta il suddetto principio di autosufficienza in quanto omette completamente di riprodurre il testo dei documenti e delle prove orali su cui ritiene di poter fondare le proprie censure, mancanza che impedisce al Collegio qualsiasi valutazione sul punto. Con riferimento, invece, al fatto che le informazioni sulle procedure informatiche di trasmissione dei dati presenti sul sito internet dell’Istituto fossero accessibili a tutti e che la chiave di accesso telematica fosse utilizzabile soltanto per la trasmissione delle dichiarazioni, si ritiene che la sentenza impugnata sia congruamente motivata attraverso il richiamo alle risultanze probatorie ed alle dichiarazioni delle parti.

Il secondo motivo di ricorso, che denunziando “violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. e difetto di motivazione della sentenza per errata valutazione dei fatti”, investe il capo della decisione che si è espresso sulla mancanza del danno lamentato dall’istante, per difetto di prova dello stesso, si dichiara assorbito, interessando un tema consequenziale a quello trattato con il primo motivo, che è stato respinto. Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2011

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