Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5040 del 01/03/2011

Cassazione civile sez. II, 01/03/2011, (ud. 12/01/2011, dep. 01/03/2011), n.5040

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.S. (C.F. (OMISSIS)) rappresentato e

difeso dall’avv. Greco Salvatore, giusta procura in calce al ricorso

per cassazione ed elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’avv. Mattina Giuseppe in Roma, viale Delle Milizie n. 9;

– ricorrente –

contro

F.G.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 87/2005,

pubblicata il 4/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2011 dal consigliere Dott. BIANCHINI Bruno;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

F.S. citò innanzi al Tribunale di Palermo la sorella. G. affinchè fosse pronunziata sentenza che tenesse luogo dell’atto di trasferimento della proprietà di un appartamento sito in (OMISSIS) – acquistato dalla germana nel 1971 per conto e nell’interesse di esso attore – rispetto al quale la stessa, con scrittura del 16 settembre 1974, aveva riconosciuto il diritto dell’esponente e si era obbligata a trasferirgli l’immobile.

La convenuta, nel costituirsi, eccepì la prescrizione del diritto fatto valere dall’attore e chiese che venisse accertato che l’appartamento era di sua proprietà e, in via riconvenzionale, instò per la condanna del fratello a pagare canoni di locazione non corrisposti e le spese di restauro. L’adito Tribunale, con sentenza n. 3284/1998 – per quello che qui ancora conserva interesse-respinse sia la domanda dell’attore sia quella della convenuta.

La Corte d’Appello di Palermo, pronunziando sentenza n. 87/2005, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannò F. S. a corrispondere alla sorella L. 17.696.280 a titolo di canoni di locazione.

Il giudice di appello pervenne a tale decisione osservando: 1. che l’eccezione di prescrizione, pur essendo stata proposta tardivamente in primo grado, era però stata riproposta in grado di appello, sotto il vigore dell’art. 345 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma di cui alla L. n. 353 del 1990; 2. che l’azione proposta dall’appellante doveva qualificarsi come azione – personale- diretta a far valere l’obbligo di ritrasferimento dell’immobile, oggetto di mandato del fratello alla sorella: il termine di prescrizione del relativo diritto di credito sarebbe decorso dal momento dell’acquisto da parte della mandataria, avvenuto il 2 luglio 1971; 3. che, sta la diffida a ritrasferire l’immobile (giusta missiva del 29 dicembre 1987) che la citazione in giudizio (notificata il 2 aprile 1988), erano intervenute dopo lo spirare del termine ordinario di prescrizione; 4. – che non si sarebbe potuto attribuire efficacia interruttiva alla lettera del novembre 1982 con la quale il procuratore dell’appellata aveva invitato l’appellante a “regolarizzare” la situazione dell’appartamento: 5. – che invece il diritto di F.G. ad ottenere i canoni di locazione aveva trovato la sua definitiva consacrazione nella ordinanza 18 febbraio 1987 di convalida di sfratto nei confronti del fratello della predetta, emessa dal Pretore di Bagheria la quale, non avendo formato oggetto di opposizione, aveva determinato lo stabilizzarsi di una preclusione pro judicato non solo sull’esistenza del rapporto di locazione ma anche sull’ammontare dei canoni (indicati nell’atto di intimazione come corrispondenti a quello legale).

Contro tale sentenza ha proposto ricorso F.S., facendo valere tre motivi; l’intimata non si è costituita.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con il primo motivo il F. lamenta la violazione dell’art. 948 c.c., comma 3, in relazione al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 perchè la Corte territoriale non avrebbe ritenuto che l’azione promossa dal medesimo fosse diretta alla rivendicazione, come tale non soggetta a termini di prescrizione: tale conclusione deriverebbe dal riconoscimento del diritto domenicale dell’esponente contenuto nella missiva del settembre 1974 sottoscritta dalla sorella. 1/a – Il motivo è inammissibile in quanto il ricorrente non esamina criticamente la compiuta motivazione con la quale il giudice di merito ha ritenuto che fosse stata esercitata un’ actio mandati ed ha posto a base di tale interpretazione una compiuta e congrua motivazione, come tale insuscettibile di ulteriore scrutinio in sede di legittimità.

2 – Deduce poi il ricorrente, con secondo motivo – sempre in relazione ai vizi illustrati nell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – l’erronea o falsa applicazione delle norme in materia di interruzione del termine prescrizionale – artt. 2944 e 2945 c.c -: in particolare denuncia la mancata considerazione della scrittura del 16 settembre 1974 che, contenendo il riconoscimento da parte della sorella del poziore diritto dell’esponente, avrebbe avuto un effetto interruttivo; del pari medesimo effetto sarebbe stato da riconoscersi alla missiva del legale della sorella del 9 novembre 1982.

2/a – Il morivo non è fondato, pur con le precisazioni appresso esposte.

Deve darsi atto che la Corte d’Appello è caduta in una contraddizione logica là dove, pur accertando che la missiva del 1974 conteneva il riconoscimento del diritto dell’attuale ricorrente alla retrocessione dell’immobile, ha per contro ritenuto che il diritto scaturente dall’actio mandati si fosse prescritto nel 1982, dunque non tenendo conto che nel 1974 ricominciava a decorrere un nuovo termine decennale.

Pur accertato quanto sopra, non per ciò solo poteva dirsi interrotto il decorso del termine di prescrizione per effetto della comunicazione del 1982 in quanto la stessa è stata interpretata dalla Corte distrettuale – con motivazione congrua e non censurata in relazione alla violazione delle norme di ermeneutica- come diretta a regolamentare il rapporto relativo all’appartamento: ciò però non comportava di per sè alcun riconoscimento del diritto – immediato e senza condizioni- alla retrocessione del medesimo.

3- Il F. si duole infine, con il terzo morivo, che la Corte territoriale abbia ritenuto che la mancata opposizione all’inumazione di sfratto avrebbe permesso di ritenere incontroversi sia l’esistenza di un contratto di locazione, sia l’ammontare dei canoni, sostenendo al contrario che sia l’uno che gli altri avrebbero dovuto essere in concreto provati. Il morivo è fondato per quanto di ragione.

3/a – Invero questa Corte non ritiene di discostarsi dall’insegnamento di legittimità, anche di recente ribadito (cfr.

Cass. n. 8013/2009; Cass. 2280/2005; Cass. 6406/1999), secondo il quale l’ordinanza di convalida di sfratto per morosità, una volta preclusa l’opposizione ex art. 668 c.p.c., acquista efficacia di cosa giudicata in senso sostanziale in ordine alla pregressa esistenza della locazione ed alla qualità di locatore dell’intimante e di conduttore dell’intimato ma detta preclusione non può estendersi alla esistenza e misura dei canoni.

3/b – Tale principio trova adeguata applicazione alla fattispecie in esame dal momento che, secondo la narrativa di fatto contenuta nella intimazione di sfratto, trascritta a fol 9 della sentenza di appello, l’attuale intimata aveva commisurato l’inadempimento del fratello, quale conduttore, ad un ammontare mensile dei canoni, pari – quanto meno- a quello stabilito dalla L. n. 392 del 1978, senza specificare se tale misura fosse stata effettivamente concordata o se potesse trovare applicazione automatica al caso concreto: se ne ricava che la preclusione pro judicato derivante dalla mancata opposizione all’intimazione era limitata all’esistenza di un inadempimento ma non alla misura dello stesso.

3/c – Ne consegue che questa Corte, non essendo necessari altri accertamenti da demandare al giudice del rinvio, può decidere nel merito respingendo la domanda di pagamento dei canoni, in riforma della sentenza di appello.

4 – Le spese del giudizio di appello e del procedimento di legittimità vanno regolate in considerazione della soccombenza dell’intimata, secondo quanto indicato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, respinge i primi due motivi e, in accoglimento del terzo, cassa la sentenza impugnata nel capo in cui, in riforma di quella di primo grado, aveva condannato F. S. al pagamento di L. 17.696.280, confermando nel resto la gravata decisione. Condanna F.G. al pagamento delle spese del giudizio di appello e del presente procedimento di legittimità, liquidandole, quanto alle prime, in Euro 1.200,00 di cui Euro 400,00 per spese vive; quanto alle seconde, in Euro 1.500,00 di cui Euro 200,00 per spese vive oltre, per entrambi i giudizi, IVA, GAP e spese generali come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Cassazione, il 12 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2011

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