Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5030 del 24/02/2021

Cassazione civile sez. II, 24/02/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 24/02/2021), n.5030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio (da remoto) – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello (da remoto) – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27042/2019 proposto da:

H.M., rappresentato e difeso MAURIZIO SOTTILE, ed

elettivamente domiciliato studio, in CESENA, V.le MATTEOTTI 60;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 sono

domiciliati;

– resistente –

avverso il decreto n. 3720/2019 del TRIBUNALE di BOLOGNA pubblicato

in data 16/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/11/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

H.M. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.

Sentito all’udienza del 23.10.2018, il richiedente aveva riferito di essere nato in (OMISSIS); che il padre faceva il contadino ma che i terreni non erano di sua proprietà, anzi fino al (OMISSIS) avevano un terreno di proprietà che era stato devastato da un’alluvione; che era il maggiore di quattro fratelli; che aveva lasciato gli studi all’età di 22 anni, nel (OMISSIS), dopo la scuola superiore e non era andato all’università per aiutare la sua famiglia in quanto il padre non ce la faceva da solo; che lavorava in un negozio di scarpe e part time in un negozio di informatica, ma poi il negozio di scarpe era stato chiuso e da quello di informatica era stato licenziato; essendo disoccupato, il padre aveva pensato di farlo andare in Qatar, invece scopriva di dover andare in Turchia e poi in Libia, dove veniva rinchiuso in uno stanzone con molte altre persone e dove lo avevano fatto lavorare senza pagarlo; che un giorno, a seguito di una rissa, era riuscito a fuggire e, con l’aiuto di un libico, riusciva a giungere in Italia, dove lavorava con un contratto regolare.

Con decreto n. 3720/2019, depositato in data 16.8.2019, il Tribunale di Bologna rigettava il ricorso, ritenendo che le dichiarazioni del ricorrente potessero considerarsi credibili, ma al di fuori dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale. Infatti, le dichiarazioni non rappresentavano alcuna ipotesi di fondato timore di subire, in caso di rimpatrio, atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Analoga valutazione andava operata in merito alla protezione sussidiaria, non risultando neppure allegato il rischio di subire un danno grave alla persona come previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Quanto alla situazione di violenza generalizzata, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 14, lett. c), della suddetta normativa, dalle aggiornate fonti internazionali non risultava in Bangladesh alcun tipo di conflitto armato in corso, tale da poter porre in serio pericolo l’incolumità della popolazione civile. Anche la domanda di protezione umanitaria doveva essere rigettata in quanto non erano emerse situazioni di particolare vulnerabilità del ricorrente che, in Italia dal 2017, manteneva in Bangladesh tutti i suoi riferimenti affettivi e familiari; mentre la circostanza che il ricorrente avesse in corso un contratto di lavoro a tempo determinato con ultima scadenza al (OMISSIS) – pur certamente meritevole – non era di per sè tale da evidenziare un radicamento sul territorio, ostativo al suo rientro in patria, nè da consentire di ritenere integrati quei seri motivi di carattere umanitario che potevano fondare il riconoscimento della suddetta forma di protezione.

Avverso il decreto propone ricorso per cassazione H.M. sulla base di tre motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente al solo fine dell’eventuale partecipazione alla udienza di discussione della causa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27; artt. 2 e 3 CEDU, oltre al difetto di motivazione, travisamento dei fatti e omesso esame dei fatti decisivi”. Il Tribunale non applicava il principio dell’onere della prova attenuato, così come enunciato dalle SS.UU. con la sentenza n. 27310/2008, e non valutava la credibilità del richiedente alla luce del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Nonostante sia la Commissione Territoriale che il Tribunale avessero dichiarato la vicenda narrata plausibile e coerente, entrambi avevano ritenuto che la stessa fosse scarsamente rilevante ai fini della protezione internazionale, andando così a sminuire la grave situazione di indigenza economica e familiare, talmente critica che, in caso di rimpatrio, il ricorrente sarebbe esposto a seri pericoli per la sua sopravvivenza. Il Tribunale errava nel non considerare i possibili rischi di subire un danno grave derivanti dalla situazione di conflittualità presente in Bangladesh. La decisione impugnata sarebbe anche viziata, sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo, nel punto in cui ritiene non assolto dal ricorrente l’onere di allegazione in relazione ai presupposti integranti un danno grave costituiti da una situazione di violenza indiscriminata. Invero, il ricorrente ha adempiuto all’onere sul medesimo incombente di presentare, assieme alla domanda di protezione internazionale, tutti gli elementi necessari a motivare la domanda stessa. L’autorità amministrativa e giudiziaria erano tenute a rispettare l’obbligo di cooperazione e a valutare tutti i fatti relativi al Paese d’origine, per poter escludere la sussistenza di rischi in caso di rimpatrio. Il ricorrente affermava altresì che in Bangladesh sussistesse una condizione politica molto critica, gravi problemi di ordine pubblico, forti limitazioni delle libertà fondamentali, violenze nei confronti delle persone più deboli e indifese, numerosi scontri tra i sostenitori dei due partiti politici che da anni si contendono il potere; attacchi terroristici degli estremisti islamici; interferenze del governo sulla magistratura.

1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14 – Omessa valutazione di fatti decisivi”, là dove il Tribunale errava nel non aver qualificato come idonea all’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la grave situazione socio-politica del Bangladesh.

1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la “Violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19. Errato e omesso esame dei fatti decisivi anche in riferimento all’integrazione socio lavorativa in Italia”, richiamando alcune pronunce di merito che hanno riconosciuto la protezione umanitaria tenendo conto del proficuo percorso di integrazione nel Paese ospitante, specie dell’attività lavorativa. Nella fattispecie, il ricorrente dal (OMISSIS) ha sempre lavorato con contratto a tempo determinato prorogato fino al (OMISSIS), per cui il medesimo, in caso di rimpatrio, si troverebbe in una situazione di specifica estrema vulnerabilità, idonea a pregiudicare la possibilità di esercitare i diritti fondamentali e impossibilitato a svolgere un’esistenza dignitosa, tenuto conto, in particolare, delle condizioni di estrema povertà e delle avverse condizioni climatiche presenti in Bangladesh. Si evidenzia che la madre del ricorrente è gravemente malata e la sua famiglia è impossibilitata a provvedere autonomamente al proprio sostentamento e solo il ricorrente può aiutarla, grazie al lavoro trovato in Italia.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i tre motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi sono inammissibili.

2.2. – Questa Corte (Cass. sez. un. 8053 del 2014) ha affermato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle pronunce impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 29.3.2019) consente di denunciare in cassazione oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è specifica adeguata indicazione.

Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014; ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2.3. – A ciò va aggiunto che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevtabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze non riferibili al provvedimento impugnato, e quindi non chiaramente individuabili (Cass. n. 11603 del 2018). Le proposte censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

3. – Giova inoltre ricordare, sotto altro profilo, che secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito (peraltro in termini generali) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

3.1. – Le censure si risolvono, dunque, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

4. – A ciò va aggiunto che questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018).

Come, inoltre precisato (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

4.1. – Tanto premesso, va rilevato che il Tribunale ha analiticamente motivato (con il dovuto specifico riferimento e richiamo a quanto affermato dai siti internazionali accreditati: cfr. Cass. n. 15794 del 2019) le ragioni per cui si debba escludere che il richiedente provenga da una zona del Pakistan (il Punjab) in cui si registri un clima di tensione tale da far presumere che in caso di suo rientro possa andare incontro a torture o altre forme di trattamento inumano e degradante; deducendo viceversa che la situazione politica quantomeno di tale zona del Paese risulta, al momento, sufficientemente stabile.

La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere allora interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

4.2. – Peraltro, nel caso concreto, i fatti allegati nel giudizio di merito non attengono a situazioni di violenze indiscriminate, derivanti da un conflitto armato interno o internazionale, trattandosi di circostanze relative ad una vicenda, seppure colposamente delittuosa, comunque risolvibile mediante il ricorso alla giustizia ordinaria. Orbene, una interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico (Cass. n. 9043 del 2019).

Nel caso, dunque, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), all’esito di un’articolata analitica valutazione desunta (come detto) da siti internazionali accreditati, senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto altre idonee fonti, essendosi limitato a richiamare il medesimo rapporto Easo dell’agosto 2017 da cui sono state tratte dal giudicante le espresse considerazioni in ordine alla situazione del paese.

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

4.3. – In ordine, infine, alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha violato il suddetto principio nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (come detto, non applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

4.4. – Quanto infine al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

A tal riguardo il motivo appare ulteriormente inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

5. – Il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che si è costituito tardivamente al solo fine dell’eventuale partecipazione alla udienza di discussione della causa. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021

 

 

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