Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5013 del 28/02/2017

Cassazione civile, sez. III, 28/02/2017,  n. 5013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SETENZA

sul ricorso 21224/2014 proposto da:

A.G., A.S., A.G.F., domiciliati ex

lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI MURRU giusta procura

speciale a margine ricorso;

– ricorrenti –

contro

F.L.F., F.G., F.M.C.,

F.P., domiciliato ex lege in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI

BATTISTA PINNA, FAEDDA MARIA CRISTINA, GIAMPAOLA CAREDDU, LILIANA

PINTUS giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

F.L.F., F.P., F.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 203/2014 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI

SASSARI, depositata il 16/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;

udito l’Avvocato GIOVANNI MURRO;

udito l’Avvocato LILIANA PINTUS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso, in subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 203/2014 del 16 maggio 2014, la Corte di Appello di Cagliari sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l’appello di F.P. e dichiarava prescritto il diritto al risarcimento dei danni nei suoi confronti, poichè, considerata la qualità di coerede del danneggiante e la inapplicabilità dell’art. 1310 c.c., reputava la lettera del 13 giugno 2007, ricevuta dagli altri coeredi, obbligati parziari, ma non da F.P., inidonea ai fini della interruzione della prescrizione; quanto poi al risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale dovuto da F.M.C., L.F., P. e G. – quali eredi di F.F., danneggiante e dalla Nuova Tirrena S.p.A. a favore di A.G.F., S. e G., prossimi congiunti di B.A.M., deceduta nel sinistro stradale occorso in (OMISSIS), riteneva la congruità delle somme corrisposte da detta assicurazione nel 2006 e quindi non dovute le maggiori somme riconosciute a tale titolo dal Tribunale.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono, affidandosi a due motivi, A.G.F., S. e G.; resistono con controricorso gli eredi di F.F..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via pregiudiziale, va affermata, disattendo la eccezione ad hoc sollevata da parte resistente, l’ammissibilità del ricorso introduttivo, non ravvisandosi inosservanza del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, circa la corrette modalità di esposizione sommaria dei fatti di causa.

Non ignora questa Corte il consolidato orientamento – cui anzi intende dare continuità in forza del quale “la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, assolutamente superflua, non essendo affatto richiesto che il ricorrente dia meticolosamente conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s’è articolata; ed è, per altro verso, inidonea a soddisfare il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, in quanto con tale modalità espositiva si affida in sostanza alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non serve affatto che il giudice di legittimità sia informato), la scelta di quanto effettivamente rileva in relazione ai motivi di ricorso. Il sintetico riscontro dello svolgimento del processo e la selezione di ciò che serve ai fini della decisione, in stretta connessione con i motivi di ricorso, vanno insomma fatti dal difensore del ricorrente che, per essere iscritto all’albo speciale di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 33, (convertito in legge 22 gennaio 1934, n.36, come successivamente modificata), ha l’esperienza e la competenza necessarie a un non delegabile compito di sintesi, non sempre del tutto agevole e, tuttavia, assolutamente ineludibile” (così, testualmente, Cass., sez. un., 11 aprile 2012 n.5698; nello stesso senso, ex plurimis, si vedano Cass., 22 gennaio 2014 n.1220; Cass., ord. 22 novembre 2013 n. 26277; Cass., 9 luglio 2013 n. 17002; Cass., 7 dicembre 2012 n.22039; Cass., ord. 9 giugno 2010 n.13395; Cass., ord. 22 settembre 2009 n. 20393; Cass., sez. un., 17 luglio 2009 n. 16628; più recentemente, e con riferimento a fattispecie in tema di esecuzione forzata, Cass., 12 febbraio 2015 n. 2747; Cass., 10 febbraio 2015 n. 2485; Cass., 4 dicembre 2014 n. 25713; Cass., 19 novembre 2014 n. 24632; Cass., 12 novembre 2014 n. 24039; Cass., 21 agosto 2014 n. 18105).

Nel libello introduttivo in esame, tuttavia, al pur riscontrabile assemblaggio, in sequenza cronologica, dei principali atti di causa, riprodotti in copia fotostatica ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, sentenza di primo grado, sentenza d’appello si accompagnano, negli intervalli tra i vari atti ricopiati, passaggi descrittivi, connotati peraltro da marcata differenziazione grafica, contenenti una sufficiente narrazione delle vicende di lite, in specie la esposizione delle domande formulate nei differenti gradi di giudizio e degli esiti delle stesse, tali da consentire, in maniera del tutto agevole, alla Corte la individuazione dei fatti (ancora) rilevanti, senza necessità di compiere alcuna (indebita) attività di selezione.

2. n il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 e 2943 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, parte ricorrente si duole della declaratoria di prescrizione della domanda risarcitoria spiegata nei riguardi di F.P., quale erede dell’originario responsabile F.F., cui la Corte di Appello pervenuta reputando la insussistenza di atti interruttivi del termine ex art. 2947 c.c., comma 3, nei confronti di quest’ultimo (obbligato in via parziaria e non solidale), in quanto della missiva raccomandata di costituzione in mora a lui diretta (regolarmente ricevuta dagli altri coeredi destinatari) vi era prova della sola spedizione all’indirizzo di residenza e non già della avvenuta ricezione.

Assume, in particolare, il ricorrente che dalla prova della spedizione della lettera raccomandata debba inferirsi, pur in assenza della produzione dell’avviso di ricevimento, la presunzione del suo arrivo a destinazione, in considerazione dei particolari doveri imposti al servizio postale, e considerando altresì che la notifica dell’atto introduttivo del giudizio si era ivi perfezionata.

Il motivo non è fondato.

Occorre, al riguardo, muovere dalle fondamentali affermazioni operate in un recente arresto delle Sezioni Unite in funzione nomofilattica: affrontando il controverso tema della scissione degli effetti della notificazione degli atti processuali proprio con riguardo alla incidenza interruttiva della prescrizione, la pronuncia di questa Corte del 9 dicembre 2015 n. 24822 ha chiarito che il normale carattere recettizio degli atti negoziali unilaterali, frutto di una ponderata opzione del legislatore per una più accentuata tutela del destinatario ed espresso nell’univoco dettato dell’art. 1334 c.c., importa che l’effetto sostanziale di interruzione della prescrizione si produce soltanto dal momento in cui l’atto perviene all’indirizzo del destinatario, e sottende quindi la verifica del regolare perfezionamento del procedimento volto ad assicurare la piena garanzia di conoscenza (o conoscibilità legale) dell’atto stesso.

Dalla descritta impostazione deriva che qualora l’effetto di interruzione della prescrizione venga ascritto ad un atto di costituzione in mora trasmesso a mezzo lettera raccomandata non può prescindersi dal concreto accertamento circa l’ingresso dell’atto nella sfera di conoscenza o legale conoscibilità della persona cui l’atto è diretto: nè in senso contrario assume rilievo l’argomentazione del ricorrente sopra descritta, atteso che seppure la prova della spedizione della missiva raccomandata possa far presumere l’arrivo a destinazione della lettera, la natura recettizia dell’atto richiede la prova di quando tale arrivo sia avvenuto, cioè a dire sul momento significante e dirimente per verificare la conoscibilità, da parte del destinatario, dell’esercizio del diritto soggetto a prescrizione.

3. Con il secondo motivo, parte ricorrente censura la modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale seguite nella sentenza in questa sede impugnata, sotto un duplice profilo:

– per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1226, 2056 e 2059 c.c.) o comunque per vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto congrue le somme versate dalla compagnia assicuratrice nell’anno 2006, in quanto ricomprese nel range medio di oscillazione previsto dalle tabelle del Tribunale di Milano dell’epoca, senza tener conto del fatto che, per una valutazione equitativa conforme al pregiudizio effettivamente subito (in ragione dell’età della vittima, del marito e delle figlie superstiti al momento dell’evento, del gravissimo sconvolgimento delle condizioni familiari e di vita), il danno andava stimato in una misura superiore anche alla soglia massima di dette tabelle;

– ancora per violazione delle medesime norme di diritto, laddove la pronuncia ha fatto applicazione delle tabelle di liquidazione vigenti al momento della offerta risarcitoria formulata dalla compagnia assicuratrice senza tener conto della esigenza di attualizzazione del danno, e cioè della necessità di quantificazione dello stesso secondo i parametri in uso al momento della decisione.

3.1. La complessa doglianza così articolata non ha pregio.

Il pregiudizio da rottura o lesione del rapporto parentale, integrante danno non patrimoniale iure proprio del congiunto della vittima, si concreta nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita conseguenti al decesso del congiunto, rimanendo invece esclusa la configurabilità di tale danno quando dall’evento conseguano meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, ovvero, in sintesi, la perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita (Cass., 20 agosto 2015 n. 16992; Cass., 16 febbraio 2012 n. 2228; Cass., 13 maggio 2011 n. 10527).

Si tratta di un danno che non può considerarsi esistente in re ipsa (cioè a dire per il solo fatto del vincolo parentale venuto meno) ma richiede, secondo il principio della domanda e la regola generale dell’art. 2697 c.c., l’allegazione (e la asseverazione), precisa e circostanziata, dello sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete estrinsecazioni, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass., 25 settembre 2012 n. 16255; Cass., 7 giugno 2011 n. 12273;

Il ristoro del danno da lesione del rapporto parentale è imprescindibilmente rimesso ad una valutazione equitativa, secondo criteri – la cui scelta è affidata alla prudente discrezionalità del giudice – che devono essere comunque idonei a consentire la cd. personalizzazione del danno, una liquidazione adeguata e proporzionata che, muovendo da una uniformità pecuniaria di base, riesca ad essere adeguata all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato nel caso concreto: per il danno da perdita da rapporto parentale, l’apprezzamento deve concernere, quali fatti specifici cui parametrare la misura economica dello sconvolgimento di vita, la gravità del fatto, l’entità del dolore patito, le condizioni soggettive della persona, il turbamento dello stato d’animo, l’età della vittima e dei congiunti all’epoca del fatto, il grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, la situazione di convivenza o meno con il deceduto (Cass., 15 ottobre 2015 n. 20895; Cass., 20 maggio 2015 n. 10263; Cass., 8 luglio 2014 n. 15491; Cass., 16 febbraio 2012 n. 2228).

Anche per questa tipologia di danno non patrimoniale, valida risposta alla difficoltà di dare concretezza alla nozione di liquidazione equitativa come adeguatezza e proporzione al caso concreto e, al contempo, trattamento uguale di casi uguali, stata ravvisata nell’adozione del sistema delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano – aventi, per il costante utilizzo nella metodologia degli operatori e nella stratificazione giurisprudenziale, una vera e propria “vocazione nazionale” -, quale strumento recante i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e quindi a consentire l’attuazione della clausola generale dell’art. 1226 c.c., ed evitare quanto meno attenuare) il pericolo di ingiustificate disparità di trattamento profilabili in termini di violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., (specificamente e con diffusa motivazione, Cass., 20 agosto 2015 n.16992 cui si fa richiamo).

Con la doverosa precisazione che il giudice, nell’effettuare la necessaria personalizzazione del danno non patrimoniale in base alle circostanze del caso concreto, può anche superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle tabelle del Tribunale di Milano, purchè la specifica vicenda oggetto di apprezzamento si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui la tabella non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborata in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l’id quod plerumque accidit, dando conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate (espressamente, Cass., 23 febbraio 2016 n. 3505).

Se, dunque, i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, la mancata adozione da parte del giudice di merito delle stesse in favore di altro criterio (ivi compresa l’adozione di tabelle in precedenza adottate presso l’ufficio giudiziario di appartenenza) integra violazione di norma di diritto censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorrendo determinate condizioni (e cioè soltanto se la questione sia stata già posta nel giudizio di merito e la parte interessata abbia depositato in atti, al più tardi in grado di appello, copia delle tabelle milanesi: così, sulla scia del basilare arresto di Cass., 7 giugno 2011 n. 12408, cfr. Cass., 16 giugno 2016 n.12397; Cass., 13 novembre 2014 n.24205; Cass., 7 novembre 2014 n. 23778).

Per converso, la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale è sindacabile in sede di legittimità sub specie del vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, allorquando l’ammontare quantificato si prospetti palesemente non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso rispetto a quello previsto dalle tabelle milanesi, oppure quando il giudice di merito non espliciti i criteri assunti a base del procedimento valutativo adoperato oppure ancora quando, nell’individuare la somma concretamente attribuibile nel range tra il minimo ed il massimo stabiliti in via astratta e generale dalle tabelle, non espliciti i parametri di giudizio e le circostanze che abbia considerato per addivenire alla quantificazione (Cass., 30 maggio 2014 n. 12265; Cass., 17 aprile 2013 n. 9231).

3.2. Tanto debitamente precisato circa il potere di controllo devoluto a questa Corte, si appalesa la infondatezza dei motivi sollevati.

Invero, la pronuncia citata, nel quantificare il ristoro per il danno non patrimoniale sofferto dagli istanti per la perdita della congiunta (più precisamente, al fine di verificare la congruità della somma a tale titolo versata dalla compagnia assicuratrice responsabile civile) si è riferita alle tabelle di Milano (e ciò, pertanto, esclude la pur prospettata violazione di legge) e, nell’individuare il concreto importo risarcitorio nella forbice dei valori, minimo e massimo, stabiliti dalle richiamate tabelle, si è orientata per l’attribuzione di una somma collocata, per ciascuno dei superstiti danneggiati, nella fascia medio – alta del liquidabile, dando contezza delle circostanze fattuali considerate (l’intensità del dolore, la subitaneità dell’evento morte) e delle allegazioni meramente generiche delle parti danneggiate sul concreto atteggiarsi del rapporto tra i familiari prima del decesso della vittima e dopo tale luttuoso evento.

In tal guisa argomentando, si sottrae ad ogni censura di natura motivazionale, formulabile peraltro, avuto riguardo all’epoca di emanazione della sentenza (nel maggio 2014, e quindi successivamente alla vigenza del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 1349, nei ben circoscritti confini disegnati dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cioè a dire nelle sole ipotesi di anomalie motivazionali che si traducano in violazioni di legge costituzionalmente rilevanti, dacchè attinenti all’esistenza della motivazione in sè, come la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, con esclusione di qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (sull’argomento, basti il richiamo a Cass., sez. un., 22 settembre 2014 n. 19881 e a Cass., sez. un., 7 aprile 2014 n. 8053).

Anche la doglianza concernente la presunta erronea individuazione delle tabelle ratione temporis applicabili al caso non coglie nel segno.

Giova premettere che nelle obbligazioni da risarcimento danni per equivalente, la prestazione ha ad oggetto il valore economico del bene illecitamente distrutto, leso o non conseguito, e viene adempiuta con la corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea rispetto all’utilità originaria, cui deve essere (appunto) equivalente in termini di potere di acquisto.

La difficoltà nell’operazione sorge per l’ineludibile scarto temporale esistente tra l’epoca di verificazione dell’evento lesivo e quella della sua liquidazione: nasce qui la distinzione tra la aestimatio, cioè la determinazione dell’astratto valore del bene leso, e la taxatio, ovvero la traduzione, in espressione pecuniaria, di siffatto valore.

Gli arresti di questa Corte invocati da parte ricorrente a sostegno del motivo, in cui si afferma l’obbligo dell’applicazione, nella quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, dei parametri tabellari vigenti al momento della decisione (Cass., 11 maggio 2012 n. 7272; Cass., 17 aprile 2013 n. 9231) non rappresentano altro che la risposta giurisprudenziale al problema nascente dall’ontologico iato temporale tra i due momenti sopra illustrati, con l’affermazione del principio che la stima e determinazione del danno vanno compiute secondo i criteri praticati al momento della liquidazione.

Si tratta di un canone di valenza generale, destinato ad operare (e qui si percepisce la fallacia del ragionamento del ricorrente) in ogni ipotesi di liquidazione del danno, nozione da intendersi, cioè, in una accezione estesa e comprensiva non soltanto della determinazione dell’importo risarcitorio in via convenzionale (ad esempio, per un accordo transattivo tra le parti) o giudiziale (all’esito di una controversia) ma anche del pagamento spontaneo della somma ad opera della parte obbligata: diversamente opinando, in quest’ultimo caso, il danneggiato, ricevuta una somma idonea a compensare il pregiudizio sofferto, ben potrebbe in un momento successivo (ed anche a distanza notevole di tempo) invocare un maggior ristoro, “lucrando” su più favorevoli criteri di liquidazione nelle more affermatisi in via normativa o pretoria.

Correttamente quindi la sentenza gravata ha valutato la congruità della somma motu proprio versata dal responsabile civile alla stregua delle tabelle di liquidazione milanesi all’epoca del pagamento vigenti.

Il motivo va pertanto disatteso sulla base del seguente principio di diritto: in tema di risarcimento danni per equivalente, la stima e la determinazione del pregiudizio da ristorare (ovvero del valore economico del bene illecitamente leso, compensato con la corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea rispetto alla perduta utilità) vanno operate alla stregua dei criteri praticati al momento della liquidazione in qualsivoglia maniera compiuta, cioè secondo i parametri vigenti alla data della pattuizione convenzionale stipulata tra la parti, del pagamento spontaneamente effettuato dal soggetto obbligato o della pronuncia (anche non definitiva) resa sulla domanda risarcitoria formulata in sede giurisdizionale o arbitrale, restando preclusa, una volta quantificato il danno con una di tali modalità, la applicazione di criteri di liquidazione (se del caso più favorevoli al danneggiato) elaborati in epoca successiva.

4. In ragione del rigetto del ricorso, rimane assorbito l’esame dell’ultimo motivo di doglianza, con il quale è stata dedotta la erroneità della condanna alle spese disposta dalla Corte di Appello quale conseguenza della (asseritamente sbagliata, ma in realtà ineccepibile) riforma della pronuncia di primo grado.

5. Disatteso il ricorso, il regolamento delle spese del giudizio di legittimità si conforma al principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c., con liquidazione operata, alla stregua dei parametri fissati dal D.M. n. 55 del 2014, come in dispositivo.

Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte dà atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17): in base al tenore letterale della disposizione, il rilievo della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nell’importo di Euro 5.800,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori, fiscali e previdenziali, di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2017

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