Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5008 del 24/02/2021

Cassazione civile sez. II, 24/02/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 24/02/2021), n.5008

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23048/2019 proposto da:

I.T., (alias, B.T.I.), rappresentato e difeso

dall’Avvocato STEFANIA SANTILLI, ed elettivamente domiciliato presso

il suo studio in MILANO, VIA LAMARMORA 42;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 5350/2019 del TRIBUNALE di MILANO del

23/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/09/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, I.T. (alias, B.T.I.) adiva il Tribunale di Milano proponendo opposizione avverso il provvedimento di diniego della domanda di protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale il 13.3.2018 e notificato in data 10.7.2018, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria, oppure il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Sentito dinanzi alla Commissione Territoriale, il ricorrente cittadino pakistano, nato in (OMISSIS), dove aveva vissuto sino al (OMISSIS), recandosi diverse volte in Pakistan, dove si occupava di bigiotteria e di abbigliamento – deduceva tra l’altro che, decorso un mese dal matrimonio, il marito della sorella minore aveva iniziato a picchiarla chiedendole di intestargli i suoi beni, per cui la famiglia riportava a casa la sorella minore e il ricorrente si rivolgeva al Tribunale familiare di Lahore per presentare la domanda di divorzio per conto della sorella; ma all’uscita del Tribunale il ricorrente e la sorella minore erano stati minacciati e dopo qualche giorno il ricorrente aveva subito un’aggressione da parte di due persone che erano venute a cercarlo. Il ricorrente presentava denuncia e i due aggressori erano arrestati, ma dopo 8 mesi la polizia li rilasciava. Nel (OMISSIS) il ricorrente aveva iniziato il commercio di bigiotteria e vestiti in Pakistan, ma nel (OMISSIS), mentre si trovava in negozio con due amici, riceveva una chiamata di una persona che diceva di essere un terrorista e gli chiedeva 5.000.000 di rupie, minacciandolo di morte. Si recava alla polizia dove presentava denuncia. Dopo qualche giorno, mentre era in negozio, subiva l’aggressione da parte di 4 persone che, dopo averlo ferito e preso a calci fino a fargli perdere conoscenza, gli rubavano dalla cassa 500.000 rupie. Il padre del ricorrente andava dalla polizia, che gli spiegava che si trattava di una grande società, i mujaheddin, che possono essere arrestati solo se colti in flagrante. A quel punto il padre contattava un suo amico in Libia, chiedendogli il favore di procurare un visto al figlio, arrivato il quale il ricorrente si recava in Libia, dove restava per un anno e due mesi, ma lì la situazione peggiorava e il suo capo era stato costretto a chiudere la sua ditta. Inoltre, non era riuscito a ottenere il rinnovo del passaporto e un giorno era stato rapinato da alcuni malesi che lo avevano rinchiuso in una stanza e poi in un centro di detenzione, da cui fuggiva con l’aiuto di un amico del padre, che gli faceva raggiungere l’Italia. In caso di rimpatrio, dichiarava di temere che le persone che lo avevano minacciato lo avrebbero ucciso. Aggiungeva che, mentre il cognato era in carcere, i fratelli di quest’ultimo andavano dal ricorrente per chiedere di ritirare la denuncia e anche il cognato, dopo la sua scarcerazione. Non escludeva che potesse esserci una relazione tra gli estorsori e il cognato. Dichiarava che anche altri commercianti avevano subito minacce e che avevano pagato.

Con decreto n. 5350/2019, depositato in data 23.6.2019, il Tribunale di Milano rigettava il ricorso. Il Tribunale non riteneva credibile il racconto nella parte relativa all’aggressione del 1 marzo 2014 (che sarebbe stata priva ogni giustificazione logica), nonchè alle ripetute minacce di estorsione, riferite a un gruppo terroristico, che tuttavia agirebbe con modalità diverse da quelle descritte dal ricorrente e che non avrebbe esitato ad ucciderlo.

Il Giudicante riteneva che non vi fossero motivi di persecuzione, non avendo il ricorrente evidenziato un particolare profilo personale che potesse giustificare l’attenzione del gruppo terroristico nei suoi confronti e che quindi si imponeva una pronuncia di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Quanto alla protezione sussidiaria, non ne sussistevano i presupposti ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in quanto non essendo il racconto credibile non si riteneva sussistente la possibilità, in caso di rimpatrio, che il ricorrente andasse incontro a sanzioni da parte del preteso gruppo terroristico.

Con riferimento al rischio di essere coinvolto nella violenza di un conflitto armato generalizzato, nella fattispecie, secondo le informazioni aggiornate, il Pakistan non presentava una generalizzata situazione di violenza indiscriminata nella zona di provenienza del ricorrente (Lahore, capitale della regione del Punjab), tale da far ritenere che lo Stato avesse perso il controllo del territorio e neppure sussistevano, nei fatti riferiti dal richiedente, circostanze specifiche e individuali che aumentassero l’esposizione al rischio in caso di rimpatrio.

Anche la domanda diretta al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie non poteva essere accolta.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione I.T. in base di otto motivi. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, il ricorrente ha richiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, convertito con L. n. 46 del 2017, in relazione agli artt. 3,24 e 111 Cost., nella parte in cui prevede la applicazione delle norme in materia di impugnazione giudiziale di cui al D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 6, lett. g, anche alla impugnazione dei provvedimenti amministrativi introdotti anteriormente al 17.8.2017 e che ai sensi dell’art. 21, comma 2, si sono svolti in applicazione della precedente normativa.

1.1. – Anche a prescindere dalla assenza di idonea argomentazione in ordine alla rilevanza della questione nel giudizio a quo, essa è già stata ritenuta manifestamente infondata da questa Corte (con giudizio che questo collegio fa proprio), giacchè la disposizione transitoria – che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito – è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (v., ex plurimis, Cass. n. 17717 del 2018; Cass. n. 28119 del 2018).

Può, dunque, richiamarsi il principio costantemente affermato dalla Corte Costituzionale secondo cui in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (ex plurimis: sentenze n. 17 del 2011; n. 229 e n. 50 del 2010; n. 221 del 2008; ordinanze n. 43 del 2010, n. 134 del 2009, n. 67 del 2007).

La non irragionevolezza della soluzione adottata dal legislatore evidenzia la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità non sussistendo in alcun modo quel livello di manifesta irragionevolezza o di arbitrarietà che unicamente consente di rimettere alla Corte Costituzionale la questione relativa all’esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali (ex plurimis, ordinanze n. 138 del 2012, n. 141 del 2011).

2.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, mancanza assoluta di motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile. Violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), non avendo compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dal richiedente e la situazione personale da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, là dove, respingendo la domanda di protezione internazionale, il Tribunale aveva negato in parte la credibilità della storia, basando il proprio ragionamento su congetture che rispecchiavano la teoria personale dell’organo giudicante.

2.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU. Violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), non avendo compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dal richiedente e la situazione personale da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale ex art. 360 c.p.c., n. 3”. Il ricorrente afferma che dai report internazionali risulta che il gruppo terroristico (OMISSIS) – a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale – pratica l’estorsione per finanziare le sue attività criminali. Si sottolinea che il Giudice di merito ha il dovere di svolgere ampie indagini e di acquisire documentazione anche officiosa della situazione reale del paese di provenienza. Il Tribunale avrebbe, infine, completamente omesso l’esame dei certificati medici del ricovero per un mese a causa di trauma alla testa e percosse, documentazione che fornisce la prova della violenta aggressione subita.

3. – Per la loro connessione logico-giuridica, i motivi primo e secondo vanno esaminati e decisi congiuntamente.

3.1. – I due motivi non possono essere accolti.

3.2. – Va premesso, in primo luogo che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento (così come nel primo motivo) alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. n. 8368 del 2020).

3.3. – Peraltro, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. sempre Cass. n. 3340 del 2019, cit.).

3.4. – Questa Corte ha, d’altronde, chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018).

3.5. – Si rileva dunque come il ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, pretenda, ora, una inammissibile nuova valutazione del giudizio di credibilità del richiedente (apodittica e disancorata rispetto alla singola fattispecie esaminata), proponendo censure che sconfinano con tutta evidenza sul terreno delle mere valutazioni di merito, come tali rimesse alla cognizione dei giudici della precedente fase di giudizio e che (come detto) possono essere censurate innanzi al giudice di legittimità solo attraverso le ristrette maglie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Laddove, poi, non è possibile pretendere l’attivazione dei poteri istruttori officiosi del tribunale per l’acquisizione di ulteriori informazioni sulla situazione sociopolitica del Pakistan, in presenza di una valutazione giudiziale negativa della credibilità del richiedente, valutazione quest’ultima che rende superflua ogni ulteriore approfondimento istruttorio in ordine al reclamato status di rifugiato.

4. – Con il terzo motivo, il ricorrente censura la “Violazione o falsa interpretazione della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951, ratificata con L. n. 722 del 1954, della dir. 2004/83/CE, attuata con D.Lgs. n. 251 del 2007 e, in particolare, degli artt. 2, 7, 8 e 14 del Decreto. Omesso esame di fatti decisivi consistenti nella faida familiare con l’ex cognato”. Nonostante il ricorrente avesse fatto riferimento a una faida familiare violentissima e non arginabile dallo Stato, il Tribunale non aveva esaminato i fatti pertinenti relativi al paese d’origine. Non esaminando tale aspetto, il Tribunale violava i parametri normativi previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria con riferimento ai motivi di persecuzione e all’individuazione degli agenti di persecuzione.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – Si assiste, di nuovo, alla impropria mescolanza e sovrapposizione di mezzi d’impugnazione, fra loro eterogenei, facenti riferimento (così come evidenziato nel primo motivo) alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e n. 5.

4.3 – Giova peraltro ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito (peraltro in termini generali valevoli per tutti i motivi) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

4.4. – Dal canto suo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non v’è specifica adeguata indicazione. Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

5.1. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la “Violazione art. 111 Cost., comma 6 e art. 24 Cost.. Nullità della sentenza per omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile. Violazione ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione del contraddittorio sulle C.O.I. ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”.

5.2. – Con il quinto motivo, il ricorrente lamentala “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 dei parametri normativi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,5,7 e 8, che definiscono gli atti persecutori e i soggetti individuabili come agenti della persecuzione, nonchè della norma di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 21, in relazione agli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale; violazione della Convenzione di Ginevra e delle Linee Guida dell’UNHCR, nonchè dei parametri normativi previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 21, artt. 2 e 3 CEDU”. Osserva il ricorrente che il Tribunale, come già detto, non avrebbe ben esaminato le informazioni relative a tale gruppo terroristico e al suo modus operandi. Nel caso di faide private, nel determinare la capacità dello Stato di controllare tali pratiche, il Tribunale avrebbe dovuto verificare non solo l’esistenza di leggi che vietano le faide, ma anche se tali atti fossero tollerati dalle autorità. Tale accertamento non veniva invece compiuto.

5.3. – Con il sesto motivo, il ricorrente censura la “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, nella parte in cui il tribunale ha ritenuto la insussistenza della probabilità che, in caso di rimpatrio, il ricorrente vada incontro a un rischio effettivo di subire una condanna a morte o trattamenti inumani o degradanti a causa della propria specifica situazione.

5.4. – I motivi quarto, quinto e sesto vanno anch’essi congiuntamente decisi.

5.5. – Essi sono inammissibili.

5.6. – Oltre ad essere connotati dai medesimi vizi sopra posti in evidenza (cui si rinvia), i motivi propongono censure che si risolvono, dunque, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione delle rapsodiche risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento; così mostrando il ricorrente di anelare piuttosto ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

6. – Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e art. 14, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente escluso che nel paese d’origine vi sia una situazione di instabilità tale da comportare minaccia grave alla vita e alla persona del richiedente”.

6.1. – Il motivo non è fondato.

6.2. – Questa Corte con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha osservato che “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. n. 14006 del 2018).

Secondo il Tribunale dalle informazioni aggiornate risultava che il Pakistan non presenta una generalizzata situazione di violenza indiscriminata nella zona di provenienza del ricorrente tale da far ritenere che lo Stato abbia perso il controllo del territorio, nè sussistono, nei fatti riferiti dal ricorrente, circostanze specifiche e individuali che aumentino l’esposizione a rischio in caso di rimpatrio. Il Tribunale (con il dovuto specifico riferimento e richiamo a siti internazionali accreditati: cfr. Cass. n. 15794 del 2019) ha dunque analiticamente motivato le ragioni per cui si debba escludere che il richiedente provenga da una zona del Pakistan in cui si registri un clima di tensione tale da far presumere che in caso di suo rientro possa andare incontro a torture o altre forme di trattamento inumano e degradante; deducendo viceversa (pag. 23) che nel caso in esame il Paese non presenta una generalizzata situazione di violenza indiscriminata nella zona di provenienza del richiedente (Lahore, capitale della regione del Punjab: cfr. Amnesty International Report 2017/18-Pakistan; World Report 2019: Pakistan). Viceversa, il richiamo del ricorrente ai report internazionali, in ordine alla condotta del gruppo terroristico (OMISSIS), che pratica l’estorsione per finanziare le sue attività criminali, non è idoneo (con riferimento, peraltro, alla ratio decidendi) a porre in essere la predetta situazione di violenza indiscriminata.

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

6.3. – Va rimarcato che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

7. – Con l’ottavo motivo, il ricorrrente censura la “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e art. 10, comma 3, motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima. Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7, 14, 16, 17; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10,32; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; art. 10 Cost.. Omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione ai presupposti della protezione umanitaria; mancanza o quantomeno apparenza della motivazione e nullità della sentenza per violazione di varie disposizioni artt. 112,132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, art. 111 Cost., comma 6”. Secondo il ricorrente il provvedimento impugnato viola i parametri per il vaglio di vulnerabilità ai fini della protezione umanitaria poichè la valutazione comparativa deve prendere le mosse dalla condizione del paese al momento della partenza, con verifica della condizione attuale in caso di rimpatrio al fine di stabilire se il rientro determini la specifica compromissione dei diritti umani adeguatamente riconosciuti e goduti nel nostro paese. L’accertamento della situazione oggettiva del paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale, costituiscono punto di partenza ineludibile dell’accertamento. Tale parte mancherebbe del tutto nel decreto impugnato e quindi il giudizio di bilanciamento risulta solo apparente. Infine, il Tribunale non teneva conto, ai fini della vulnerabilità, del fatto che il ricorrente fosse seguito da uno psichiatra, nè dell’attività lavorativa svolta in Italia.

7.1. – Il motivo non può essere accolto.

7.2. – Questa Corte ha premesso che la protezione umanitaria costituisce una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. n. 23604 del 2017; Cass. n. 252 del 2019). Ciò che si demanda al giudice è “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)”.

A tale fine, peraltro, non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, allo scopo di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass. n. 12537 del 2020; cfr. Cass. n. 4455 del 2018).

Poste tali premesse, nella specie non si rileva il denunciato omesso esame di domanda, dato che la Corte di merito ha esplicitamente scrutinato, e respinto, con motivazione congrua, la domanda dell’odierno ricorrente volta al riconoscimento della protezione umanitaria.

7.3. – Il decreto impugnato ha qualificato, in primo luogo, come inattendibile il racconto del richiedente la protezione internazionale segnalando le lacune e le contraddizioni del racconto reso dallo stesso. Peraltro, in materia di protezione internazionale il positivo superamento del vaglio di credibilità soggettiva del richiedente protezione condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, è preliminare all’esercizio da parte del giudice del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che il richiedente non è in grado di provare, in deroga al principio dispositivo (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 11267 del 2019; Cass. n. 16925 del 2018). E la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, che è censurabile in cassazione nei limiti di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1; doglianza che non solo non è stata dedotta, ma che, ovviamente, non potrebbe consistere nella prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di questione attinente al merito (cfr. Cass. n. 3340 del 2019).

7.4. – Quanto all’accezione oggettiva della condizione di vulnerabilità del richiedente protezione umanitaria, il ricorso non si confronta con la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha escluso per la zona di provenienza del richiedente, il Pakistan, la sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata e diffusa idonea ad esporre la popolazione civile ad un grave pericolo per la vita o l’incolumità fisica per il solo fatto di soggiornarvi.

Esso ha inoltre correttamente negato la sussistenza di elementi tali da far ritenere l’appellante un soggetto in situazione di vulnerabilità, non essendo state dimostrate specifiche situazioni di vulnerabilità, parimenti neppure dedotte (quali, tra l’altro, le condizioni di salute del ricorrente ritenute non adeguatamente comprovate). Il giudice di merito ha quindi correttamente concluso, avuto riguardo alle ragioni di natura essenzialmente economica che avevano spinto l’appellante a lasciare il proprio Paese, per l’infondatezza della sua richiesta di protezione umanitaria.

D’altro canto, è stato giustamente posto in rilievo che “il parametro dell’inserimento sodale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine i m idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili” (Cass. n. 4455 del 2018).

8. – Il ricorso va dunque rigettato. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021

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