Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5005 del 28/02/2017


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Cassazione civile, sez. III, 28/02/2017, (ud. 30/09/2016, dep.28/02/2017),  n. 5005

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23765/2013 proposto da:

B.S., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

POMPEO MAGNO 2 B, presso lo studio dell’avvocato FABIO LEPRI, che lo

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

THE ECONOMIST NEWSPAPER LIMITED in persona del suo legale

rappresentante p.t. Mr. K.G.O. e D.R.;

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUDOVISI 35, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO DONNINI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARISA PAPPALARDO giusta procura del

5/12/2013 certificata con apostille il 6/12/2013;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2909/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2016 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato FABIO LEPRI;

udito l’Avvocato ALESSANDRO MAURISI per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Con atto notificato il 10.5.2001 B.S. convenne dinanzi al Tribunale di Roma le società The Economist Newspaper Ltd. e Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a., allegando che:

– le società convenute erano editrici, rispettivamente, dei quotidiani (OMISSIS) e (OMISSIS);

– il (OMISSIS) il quotidiano (OMISSIS) aveva pubblicato un articolo dal titolo “(OMISSIS)”, dal contenuto diffamatorio per esso attore, del quale si mettevano in dubbio l’onestà e la trasparenza;

– tale scritto era stato ripreso e divulgato dal quotidiano (OMISSIS) il giorno successivo ((OMISSIS)), in un articolo dal titolo “(OMISSIS)”);

– la pubblicazione dei due articoli avvenne in concomitanza con lo svolgimento della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2001, nelle quali l’attore era candidato.

Concluse pertanto chiedendo la condanna delle società convenute al risarcimento del danno.

Con sentenza n. 28206 del 21.11.2003 il Tribunale di Roma dichiarò la propria incompetenza per territorio in merito alla domanda formulata nei confronti della The Economist Newspaper Ltd., e rigettò quella formulata nei confronti del Gruppo Editoriale L’Espresso.

B. propose appello dinanzi alla Corte d’Appello di Roma limitatamente al rigetto della domanda nei confronti del Gruppo Editoriale L’Espresso; la sentenza di primo grado venne confermata dalla Corte d’appello di Roma con sentenza 9.10.2007 n. 3983 dove si affermava che la pubblicazione dell’articolo “(OMISSIS)” sul quotidiano (OMISSIS) costituì legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica. Il ricorso per cassazione proposto dal B. è stato rigettato da questa Corte con la sentenza n. 19152 del 2014.

Per quanto concerne la domanda proposta nei confronti della società cui fa capo il settimanale britannico (OMISSIS), B. riassumeva la causa dinanzi al Tribunale di Milano che, con sentenza n. 10661/2008 del 26.8.2008, rigettava le domande proposte dall’attore.

Con sentenza n. 2909/2012, depositata in cancelleria in data 4.9.2012 la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado. La predetta sentenza, oggetto dell’impugnazione oggi all’esame della Corte, dapprima richiama i principi di riferimento per la decisione della fattispecie concreta, precisando che:

– il diritto di critica implica l’esame di opinioni e comportamenti altrui cui segue la formulazione di un giudizio necessariamente soggettivo;

– in relazione al diritto di critica il canone della verità dei fatti o delle notizie riportate, pur continuando ad avere una propria rilevanza, opera entro limiti diversi rispetto a quelli del diritto di cronaca;

– non può pretendersi in questo caso la verità oggettiva di quanto rappresentato, a meno che non vi sia un fatto obiettivo posto a fondamento della elaborazione critica.

Quindi, la corte d’appello afferma che, sulla scorta di una serie di fatti storici e processuali pianamente e financo piattamente riportati nell’articolo del settimanale, il giornale formulava una propria negativa valutazione, necessariamente soggettiva, sulla idoneità di B. a rivestire il ruolo di prime minister: Ciò costituisce, nella operazione di sussunzione che compie la corte d’appello della fattispecie concreta all’interno delle categorie giuridiche ad essa predicabili, esercizio legittimo del diritto di critica.

Quindi, prosegue la sentenza, l’unico limite il cui rispetto la corte era tenuta a verificare è se i fatti da cui questi giudizi traggono origine siano veri o almeno siano stati correttamente verificati e riportati, atteso che anche la verità putativa, purchè conseguente ad un adeguato controllo di attendibilità delle fonti, ha efficacia scriminante della diffamazione.

In merito al controllo di attendibilità, la corte puntualizza che l’accertamento del requisito della verità dei fatti deve essere compiuto con valutazione ex ante, e che è onere del diffamato, a fronte di una sequela di fatti che si collocano all’interno di decenni di storia pubblica di un soggetto politico, indicare quali dei fatti riportati nell’articolo ritiene non conformi al vero, anche per consentire alla controparte la possibilità di difendersi.

Così ricostruiti i principi di riferimento e la struttura del giudizio di verifica, la Corte d’Appello di Milano rigetta l’appello, affermando che le contestazioni del B. sono in larga parte generiche e ripetitive di quanto esposto in primo grado e che “i documenti dell’appellato confermano il dato storico delle ipotesi di reato riferite nell’articolo”.

Dopo aver affermato ciò in linea generale, la sentenza affronta nei successivi undici punti i rilievi dell’appellante in ordine alla veridicità degli undici raggruppamenti di fatti riportati nell’articolo.

Tale sentenza viene ora impugnata per cassazione da Silvio B., sulla base di tre motivi.

Ha resistito la (OMISSIS) Newspaper Limited con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 51, 185 e 595 c.p.c., nonchè degli artt. 2043 e 2059 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente contesta che sia stato applicato il più blando limite del diritto di critica e non quello più stringente del diritto di cronaca o, quanto meno, quello del diritto di critica su fatti di cronaca.

Sostiene che, ai fini di individuare se fosse o meno riconducibile il caso di specie al (legittimo o meno) esercizio del diritto di critica, e ai relativi limiti al legittimo esercizio di esso, più ampi da quelli dettati per il diritto di cronaca, non si può far riferimento al fine perseguito dall’articolo e che la riconduzione di un determinato articolo nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica o di cronaca non può essere una derivazione automatica dal tipo di periodico in cui esso è pubblicato.

Piuttosto, laddove il periodico, all’interno di un articolo, citi una sequela di fatti, per fondare sulla verità di essi la propria critica nei confronti del soggetto al quale i fatti si riferiscono, l’esposizione dei fatti deve sottostare ai più rigidi limiti del diritto di cronaca, mentre soltanto laddove l’articolo si limiti ad esporre opinioni personali dell’autore si applicherebbe il limite del diritto di critica.

Da questa distinzione, il ricorrente fa discendere che, qualora la corte d’appello avesse valutato l’operato del periodico alla luce dei più ristretti limiti che circoscrivono il legittimo esercizio del diritto di cronaca, essa avrebbe riscontrato che si trattava di fatti non veri, e, in ogni caso, avrebbe sanzionato l’intervenuto superamento del limite della continenza espositiva. Il ricorrente evidenzia che solo i fatti di partenza riportati dall’articolo fossero veri (in particolare, l’essere stato il B. sottoposto, in quegli anni, a numerose inchieste penali), mentre non erano veri altri fatti, riferiti dal periodico come se fossero stati veri, quali l’essere i capitali dei quali disponeva il ricorrente provenienti da fonti oscure, o l’esistenza di legami con la mafia.

Sostiene che i fatti riportati dal periodico sarebbero stati in parte totalmente inventati, in parte gonfiati, in parte accostati ad arte per formare un complessivo quadro denigratorio e non assoggettato nè agevolmente assoggettabile in tal modo a verifica, allo scopo di supportare, senza che quei fatti fossero riscontrabili, una critica negativa all’uomo che si proponeva, in quel momento storico, per la guida di un importante paese europeo.

Inoltre, il ricorrente evidenzia che riconducendo l’articolo all’obbligo di attenersi ai più blandi limiti afferenti al legittimo esercizio del diritto di critica, la corte avrebbe sganciato l’articolo dalla necessità di rispettare il requisito della continenza espositiva, che presuppone obiettività e completezza ed esclude insinuazioni, illazioni, suggerimenti e diffusione di messaggi capziosi.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata resiste alle critiche mosse dal ricorrente, in quanto innanzitutto riassume la struttura dell’articolo, che si scandisce nella ricostruzione, per l’arco di diversi decenni, delle varie vicende processuali o comunque di pubblico dominio e risonanza concernenti il ricorrente, ed atte a ricostruirne complessivamente la “storia”, di ovvio interesse pubblico, atteso che l’interessato era stato Presidente del consiglio dei Ministri e si candidava alle elezioni per riproporsi a capo dello schieramento di maggioranza. Essa inquadra correttamente la fattispecie come legittima espressione, da parte del settimanale, del diritto di critica giornalistica, e non di semplice cronaca, neppure giudiziaria.

Costituisce infatti esercizio di critica politica, in questo caso svolto da un settimanale di riflessione sui principali accadimenti economici e politici sia interni che internazionali, l’esposizione di fatti in parte ormai storici, in parte aventi comunque già una pubblica diffusione e tali da incidere sulla reputazione pubblica di un soggetto avente ampie aspirazioni politiche (come tali di sicuro interesse pubblico), e di altri fatti dei quali se pur il periodico non sveli la fonte di apprendimento ne indichi la ricostruibilità (in particolare, le copie dei verbali contenenti un interrogatorio), laddove l’articolo non si limiti a rassegnare i fatti ma li utilizzi come elementi sulla base dei quali complessivamente considerati (per la loro pluralità, la loro gravità, per il fatto di non essere episodi isolati ma al contrario di caratterizzare tutto il percorso politico e pubblico della persona in questione) costruire una valutazione, tutta politica, di inadeguatezza del soggetto obiettivamente coinvolto a vario titolo in quella sequela di fatti a candidarsi alla guida di un paese.

Si precisa ulteriormente che l’esercizio del diritto di critica, all’interno di una pubblicazione che si propone al pubblico come periodico di riflessione e di analisi, e non come di mera cronaca, si differenzia dalla critica storica (che impone una aderenza ai fatti storici, ovvero la contrapposizione ad un fatto storico di un altro fatto che sia altrettanto verificabile: v. Cass. 6784 del 2016) e non soggiace ad un vincolo di obiettività. Esso non si concreta, come il diritto di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime mediante un giudizio o un’opinione, che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Il giornalista che sulla base di determinati fatti formuli una valutazione negativa su una persona o una situazione, non è tenuto, per mantenersi nei limiti del consentito, ad un vincolo di obiettività, ovvero ad esporre anche, dando alle stesse pari risalto, le eventuali opinioni a favore di cui sia a conoscenza o ad esporre con completezza gli argomenti a difesa dei quali pure sia a conoscenza.

I limiti al diritto di critica, come pure al diritto di critica che si fondi su fatti di cronaca, sono da un lato quello di non attribuire fatti non veri alla persona sulla quale si formula il giudizio, dall’altro quello della continenza, ovvero della correttezza nelle espressioni verbali utilizzate (seppur attenuata, rispetto al limite di continenza vigente per il diritto di cronaca, essendo consentito nella critica specie politica, l’utilizzo di un linguaggio più pungente).

Per quanto concerne il rispetto del limite della verità dei fatti, vale la precisazione che integra la scriminante del legittimo esercizio del diritto di critica anche la verità putativa dei fatti riferiti, che si ha quando il soggetto legittimamente riferisca determinati fatti, che risultino attendibili in quanto frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata.

A ciò si aggiunga che è esonerato dal dovere di verifica della verità putativa di quanto riferito il giornalista che si limiti a riferire fatti enunciati da terzi, ma questo riguarda la posizione – diversa da quella in esame – del giornalista che sia anche divulgatore di notizie fornite da terzi (c.d. diffusore mediatico), purchè sia però accertato che sussista un interesse dell’opinione pubblica a conoscere, prima ancora dei fatti narrati, la circostanza che un terzo li abbia riferiti (in applicazione di questo principio di diritto è stato rigettato, con sentenza n. 19152 del 2014, il ricorso proposto dall’attuale ricorrente nei confronti del quotidiano (OMISSIS) che aveva ripreso l’articolo già apparso su (OMISSIS)).

La sentenza si è attenuta ai principi sopra riportati ed ha compiuto una accurata ricostruzione, punto per punto, volta a ricostruire la verità o l’attendibilità nel senso sopra riferito dei fatti riportati – indubbiamente gravi, indubbiamente idonei a istillare dei dubbi sulla affidabilità e correttezza della persona cui si riferiscono – per poi escludere con analitico giudizio in fatto, che l’articolo nella sua esposizione, non caratterizzata da particolare veemenza di toni, che non viene neppure addebitata, quanto culminante, attraverso una concatenazione di fatti sempre associati alla medesima persona, alcuni accertati, altri sub iudice, altri riportati da terzi, in una valutazione di totale inadeguatezza politica della stessa, non abbia travalicato i limiti della corretta critica giornalistica.

Per quanto concerne l’aspetto della continenza, in tema di diffamazione a mezzo stampa, il legittimo esercizio del diritto di critica – anche in ambito politico, ove è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati – è pur sempre condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, intesa come correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. Ove tuttavia la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme ad opinioni dell’autore, in modo da costituire al contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza richiede un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto (Cass. n. 841 del 2015).

Nel caso di specie, da un canto, la corte d’appello si pone nell’ottica di valutare il bilanciamento tra interesse dell’opinione pubblica a conoscere la valutazione politica di un autorevole settimanale di diffusione internazionale su un personaggio che aspirava all’epoca dei fatti a candidarsi a ricoprire la quarta carica dello Stato, vertice del potere esecutivo (aspirazione peraltro coronata da successo), e il disvalore obiettivo che i fatti esposti, alcuni dei quali riferiti ed indicati come tali ad indagini ancora in corso, possano contenere, e lo risolve a favore dell’interesse a conoscere.

Vi è poi da dire che, nella parte in cui il motivo di ricorso prospetta una violazione, da parte del periodico britannico, del requisito della continenza, esso è inammissibile per come è formulato: in questa parte infatti, sotto le vesti della censura in iure, il ricorrente intende inammissibilmente sottoporre a riesame un tipico accertamento di fatto, ovvero la valutazione della forma civile e della continenza verbale di uno scritto giornalistico.

Col secondo motivo il ricorrente deduce l’insufficienza della motivazione su un punto decisivo, rappresentato dall’applicabilità o meno del diritto di cronaca anzichè del diritto di critica al testo oggetto di causa, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

La sentenza impugnata è stata depositata il 4 settembre 2012; alla stessa pertanto non si applicano, ratione temporis, la più ristretta nozione del vizio di motivazione introdotta con D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. n. 134 del 2012.

Tuttavia, il motivo è infondato, la motivazione sul punto indicato esiste ed è assai articolata, ed è stata ampiamente ripercorsa in questa sede sia nella esposizione dei fatti che all’interno dell’esame del primo motivo di ricorso articolato dal ricorrente.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce l’omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso, rappresentato dai contenuti dello scritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, laddove la corte d’appello ha ritenuto, senza motivare, che le due espressioni “alleged” e l’altra, “alligation” utilizzate dal periodico, fossero traducibili come genericamente accusato o sottoposto ad indagini in ordine ad alcuni fatti delittuosi, e non piuttosto formalmente incolpato, come sostenevano i legali di B. per attribuire alla formula adottata dal periodico inglese contenuto diffamatorio.

Il motivo è infondato, in quanto la sentenza è correttamente e diffusamente motivata sul punto. La corte d’appello dapprima correttamente puntualizza che l’obbligo di utilizzare nel processo la lingua italiana è limitato dall’art. 122 c.p.c., agli atti processuali in senso proprio, ovvero ai provvedimenti del giudice, ai verbali di causa, e agli atti di parte, mentre non si estende ai documenti prodotti dalle parti. In relazione a questi ultimi, il giudice italiano non è tenuto ad avvalersi di alcuna traduzione quando è in grado di tradurre autonomamente un documento prodotto nel processo in lingua straniera se sia in grado di apprezzarne autonomamente il contenuto e il significato.

Ciò premesso quanto al corretto inquadramento della questione, la corte d’appello, non ritenendo nella sua discrezionalità necessario avvalersi di un traduttore, esamina direttamente il testo originario dell’articolo, in inglese, come già il giudice di primo grado, e rileva che la contestazione è circoscritta alla impropria, a dire dell’attuale ricorrente, traduzione, nella versione italiana del testo, prodotta in giudizio in forma di traduzione privata asseverata, di un unico termine, nella duplice forma di sostantivo (allegation) e dì verbo (alleged). Dà la sua più che congrua motivazione del significato ampio da attribuire ai due termini in contestazione, utilizzabili in varie accezioni e comunque non circoscritti ad una accezione tecnica ristretta ed univoca in termini di incolpazione o di accusa formulata in giudizio o di accusa che abbia già avuto un riscontro probatorio.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

Atteso che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza del ricorrente, la Corte, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 10.000,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre contributo spese generali ed accessori.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 30 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2017

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