Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5004 del 28/02/2017

Cassazione civile, sez. III, 28/02/2017, (ud. 30/09/2016, dep.28/02/2017),  n. 5004

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17223/013 proposto da:

L.B.G.E., (OMISSIS) in proprio e nella qualità

di esercente la patria potestà sulla minore

B.G.F., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA ADRIANA 8, presso

lo studio dell’avvocato GIOVANNI FRANCESCO BIASIOTTI MOGLIAZZA, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DANIELA

GAMBARDELLA, GENNARO CONTARDI, giusta procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA, (OMISSIS) (già U.G.F. ASS.NI SPA) in

persona del suo procuratore Dott. L.G.M.S.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 83-A, presso

lo studio dell’avvocato WLADIMIRA ZIPPARRO, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANIELLO DE RUBERTO, giusta procura speciale a margine

del controricorso;

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ALESSANDRIA, 130, presso lo studio dell’avvocato LAURA TORRONI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO BRUNELLI

giusta procura speciale in calce al controricorso;

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA in persona del suo procuratore Dott.

L.G.M.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO

MASSIMO, 60, presso lo studio dell’avvocato LETIZIA CAROLI, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

B.G.A., N.M., CONSULTORIO GENETICA SRL;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2661/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2016 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato DANIELA GAMBARDELLA;

udito l’Avvocato MARCO BRUNELLI;

udito l’Avvocato CAROLI LETIZIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

I FATTI

Nel 2003 i coniugi L.B.G.E. e B.G.A., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla minore F., convennero in giudizio il ginecologo Dott. N.M., il genetista Dott. A.G. e il laboratorio Consultorio Genetica s.r.l., ove (in ragione della consanguineità esistente all’interno della famiglia del marito), il ginecologo N., che seguiva la signora alla sua prima gravidanza, la indirizzò per sottoporsi all’esame del liquido amniotico (amniocentesi), con prelievo eseguito dal Dottor A. ed elaborato presso il Consultorio.

Dall’esame risultò che il feto presentava un’alterazione cromosomica, la trisomia ma, nell’assunto degli attori, non fu portato a conoscenza dei futuri genitori da nessuno dei predetti professionisti che dalla trisomia x potessero derivare alla nascita, in una certa percentuale di casi, danni mentali anche gravi a carico del bambino, sottraendo in tal modo alla madre la possibilità di scegliere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza ed impedendo che i genitori prestassero alla figlia da subito le necessarie Costose cure.

Previo accertamento della responsabilità per inadempimento contrattuale dei due professionisti e del laboratorio di genetica, gli attori ne chiedevano quindi la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti (quanto al danno patrimoniale specificando: danno per mancato reddito a F., danno alla proprietà e differenza tra reddito da lavoro e da pensione ad A., danno da rinuncia al lavoro ad E.; quanto al danno non patrimoniale, specificando che esso era comprensivo della rinuncia ad aver altri figli ed alla propria vita sociale nonchè del danno derivante dalla separazione di fatto della famiglia, oltre alle sofferenze e ai danni alla vita di relazione) subiti in proprio e dalla figlia, chiedendo la condanna dei professionisti e della struttura sanitaria al pagamento di complessivi 13 milioni di Euro.

Il ginecologo Dott. N., costituitosi in giudizio, assumeva di non essere a conoscenza della consanguineità tra i coniugi, di aver comunicato l’esistenza della trisomia x alla paziente e al marito, e di aver comunicato al contempo che nella maggior parte dei casi essa non si accompagnava a specifiche anomalie. Riferiva di aver consigliato comunque alla paziente l’aborto, e che tale possibilità era stata rifiutata dagli attori, che inoltre avevano atteso oltre tre anni prima di iniziare a far curare la bambina. Il ginecologo chiamava in causa la Meie Ass.ni, sua compagnia assicuratrice per la responsabilità professionale.

Il genetista Dott. A. affermava di aver solo eseguito dapprima l’ecografia e poi il prelievo del liquido amniotico, ma sosteneva che l’esame del liquido era stato condotto dai tecnici di laboratorio ed affermava che gli attori avevano ricevuto informazioni dal laboratorio di genetica sulla esistenza della trisomia x, ed avevano deliberatamente e liberamente scelto di non interrompere la gravidanza. Negava di aver avuto un rapporto professionale diretto con gli attori, dei quali non era il medico curante, nè lo specialista di fiducia e comunque precisava di aver segnalato lui stesso alla L. la presenza della trisomia x, invitandola a rivolgersi al suo ginecologo di fiducia ai fini dell’eventuale interruzione della gravidanza, dopo i primi novanta giorni.

Anche il laboratorio Consultorio Genetica s.r.l. affermava la propria carenza di legittimazione passiva, avendo correttamente eseguito l’esame del liquido amniotico prelevato dal Dott. A., e rilevato la presenza della anomalia genetica, senza contatto con gli attori, e chiamava in causa la Unipol Ass.ni s.p.a..

L’assicurazione del ginecologo N. (Meie), costituitasi a seguito di chiamata in causa, rilevava che questi aveva comunicato ai coniugi la presenza dell’alterazione cromosomica, prospettando la possibilità dell’aborto, e comunicando anche che il nascituro avrebbe potuto da ciò riportare anche gravi patologie, per quanto in una percentuale circoscritta di casi e consigliandoli di rivolgersi a un esperto di genetica, individuato nel Dott. A..

Tutti i convenuti inoltre rilevavano che tra la nascita della bambina, avvenuta nel (OMISSIS) e il momento in cui gli attori si erano attivati per cominciare a curarla erano passati quasi quattro anni.

All’esito del giudizio di primo grado, il tribunale rigettava la domanda della minore F., e condannava i tre convenuti principali in solido a risarcire il danno in favore della madre, nella misura complessiva di Euro 33.000,00 circa, cd in favore del padre nella misura di Euro 28.000,00 circa (a fronte di una domanda per 13 milioni di Euro complessivi).

I genitori di B.G.F. proponevano appello, sia in proprio che nella qualità di genitori della minore, mentre gli originari convenuti proponevano appello incidentale.

La sentenza di appello, n. 2661 del 2012 della Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava integralmente la domanda dei genitori e della minore, affermando:

– che il ginecologo N. assolse sufficientemente al suo dovere di informazione, informando la paziente della presenza di una alterazione cromosomica, prospettandole la possibilità dell’aborto terapeutico ed indirizzandola presso il consultorio di genetica onde potersi informare più dettagliatamente sulla trisomia x;

– che la paziente si recò al consultorio di genetica, fu qui rassicurata e sulla base delle informazioni acquisite al consultorio di genetica decise di portare avanti ugualmente la gravidanza;

– che nè il consultorio nè il genetista avevano un obbligo contrattuale di fornire ulteriori informazioni, atteso che la paziente aveva un suo ginecologo di fiducia, che avrebbe dovuto esaminare le risultanze dell’amniocentesi e spiegarne nel dettaglio il significato alla paziente;

– che avendo il ginecologo, che non aveva competenze specifiche sulla trisomia x, indirizzato la paziente al laboratorio di genetica per ulteriori informazioni, il professionista aveva assolto in tal modo ai suoi obblighi informativi;

– che non è accertato che la trisomia x porti rischi di gravi danni mentali e quindi non è certo che la donna avrebbe avuto diritto all’aborto terapeutico;

– che forse la causa della dislessia dalla quale era risultata affetta la minore era riconducibile alla predisposizione familiare del padre, e non alla trisomia x.

La sola L.B.G.E., in proprio e quale genitore esercente la potestà sulla figlia B.G.F., propone ricorso per cassazione articolato in cinque motivi nei confronti di B.G.A., anch’egli in proprio e quale genitore esercente la potestà sulla minore F., N.M., A.G., Consultorio di Genetica s.r.l., nonchè nei confronti di Unipol Assicurazioni s.p.a. (già Meie e già Aurora Ass.ni s.p.a.) per la cassazione della sentenza n. 2661 del 2012, depositata dalla Corte d’Appello di Roma il 16.5.2012.

Il dottore A. resiste con controricorso.

La Unipol Ass.ni s.p.a. deposita due distinti controricorsi, uno quale assicuratrice di s.r.l. Consultorio di Genetica e uno quale subentrante alla Meie Assicurazioni, assicuratrice di N.M..

Il N. e B.G.A. non hanno svolto attività difensive.

La causa è stata chiamata in decisione una prima volta all’udienza del 9.12.2015, quindi rinviata a nuovo ruolo in attesa di una pronuncia delle Sezioni Unite conseguente alla rimessione al Primo Presidente, con ordinanza interlocutoria n. 569 del 2015, della decisione su due questioni rilevanti ai fini della decisione: la questione del riparto degli oneri probatori in caso di responsabilità medica da nascita indesiderata e la questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico che, con il suo difetto di informazioni, abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza.

Essendo le ridette questioni state esaminate e risolte, con la sentenza S.U. n. 25767 del 2015, la causa è stata nuovamente chiamata in decisione all’udienza del 30.9.2016.

La ricorrente e la controricorrente Unipol hanno depositato memorie sia in occasione della prima che della seconda udienza.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va puntualizzato che, come risulta dalla precisazione del contenuto delle domande contenuta nella esposizione sommaria dei fatti all’interno del ricorso, che trova conferma all’interno della trattazione dei singoli motivi, benchè il ricorso sia stato formalmente proposto sia a nome della madre che della figlia, esso in realtà ha ad oggetto esclusivamente i diritti asseritamente lesi facenti capo alla madre, ad una completa informazione sui possibili esiti della sua gravidanza e alla conculcazione della sua possibilità di scelta di abortire, altrimenti detto danno da nascita indesiderata.

Non vi è alcun motivo di ricorso, invece, che concerna effettivamente la posizione della figlia, B.G.F., nei cui confronti la sentenza di appello è pertanto passata in giudicato, al di là della formale prospettazione delle proposizione del ricorso anche in suo nome e nel suo interesse.

Ciò esime dal dover in questa sede esaminare la questione, peraltro recentemente risolta dalle Sezioni Unite in senso negativo con la sentenza n. 26767 del 2015, della legittimazione del nato ad agire nel giudizio di risarcimento dei danni da nascita indesiderata.

Vi è peraltro da aggiungere che, proprio sulla base della prospettazione del contenuto delle domande proposte nel giudizio di merito all’interno del ricorso, del resto, la posizione della madre sarebbe altrimenti non soltanto non collimante, ma in conflitto di interesse con quella della minore, perchè, quanto alla domanda di risarcimento del danno da nascita indesiderata, essa si fonda sul presupposto logico secondo il quale, ove i genitori fossero stati resi edotti della effettiva possibilità di un rischio disabilità, essi avrebbero comunque scelto di abortire, anche in presenza della possibilità che la figlia nascesse sana. La stessa ricorrente infatti evidenzia, sulla base delle domande proposte, che non fossero rilevanti la misura del rischio invalidità e la entità di tale possibile invalidità. Ciò che rileva è che la mancanza di una corretta informazione da parte dei professionisti avrebbe precluso ai genitori la possibilità di evitare il rischio di far nascere un bambino disabile, qualora essi non intendessero sottoporsi a tale rischio.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente L.B.G.E. denuncia la illogicità e incoerenza della motivazione della sentenza impugnata su un fatto decisivo per la decisione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostiene che il punto carente della motivazione è relativo alle informazioni fornite alla partoriente, e sulla possibilità della stessa di operare una scelta consapevole nel senso di proseguire la gravidanza. Afferma che non le venne prospettata da alcuno la possibilità che la nascita di una bambina con trisomia x si potesse accompagnare a patologie anche gravi, e che quindi non venne messa in condizione di scegliere consapevolmente se abortire o meno. Riconduce la illogicità della motivazione alla mancanza di un positivo accertamento in ordine al contenuto della informazione fornita alla L., in particolare dal laboratorio di genetica e segnala che la semplice scelta di proseguire la gravidanza, se non accompagnata da adeguate informazioni, non è scelta consapevole e non è ostativa al riconoscimento del diritto al risarcimento del danno. La ricorrente evidenzia che non le è stato spiegato che la gravidanza portava con sè comunque un rischio che un problema si verificasse sulla bambina, e quindi che, in mancanza di una corretta informazione, la scelta di non abortire non è stata consapevole.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 194 del 1978, art. 4, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 2729 c.c. e con gli artt. 61 e 191 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’illogicità e incongruenza della motivazione e la violazione dell’art. 167 c.p.c..

Critica il punto della sentenza d’appello in cui è stata rigettata la sua domanda risarcitoria sulla base della mancata prova del diritto della donna all’aborto terapeutico, in presenza di sindrome della trisomia x, non essendo stato provato in giudizio il rischio per la salute anche psichica della madre conseguente alla alterazione genetica del feto (rischio ritenuto esistente dal tribunale che per questo aveva accolto, sebbene in piccolissima percentuale, le domande). Sostiene la L. che fosse incontestato che il feto presentasse la trisomia x, che è una alterazione cromosomica in taluni casi asintomatica, mentre in altri può dar luogo a un ritardo mentale grave, e quindi che fosse provata l’esistenza del rischio che il bambino nascesse con un grave ritardo mentale. Aggiunge che trattasi di una situazione in cui il diritto all’aborto terapeutico doveva reputarsi in ogni caso sussistente perchè non era possibile accertare, prima della nascita, quanto avrebbe inciso la presenza della alterazione cromosomica sulla nascitura e perchè l’esistenza e la consapevolezza di questo rischio comportava di per sè un grave rischio per la salute psichica della donna, ovvero afferma che è pacifico che in caso di rischio di gravi ritardi mentali del nascituro, l’aborto terapeutico rappresenti un diritto della donna.

Con il terzo motivo si deduce ancora l’esistenza di un vizio di motivazione e la violazione della L. n. 194 del 1978, art. 4, in combinato disposto con l’art. 2043 e la violazione dell’art. 167 c.p.c..

Si critica, in particolare, il punto della sentenza in cui si afferma che non è stato provato in causa che la dislessia, di cui si è accertato a distanza di qualche anno dalla nascita che la minore soffrisse, fosse effettivamente derivante dalla trisomia x e non derivasse piuttosto da una tendenza familiare presente nella famiglia del padre. Sostiene la ricorrente che il momento in cui si deve assicurare il diritto della donna di scegliere liberamente se abortire o no è il momento della gravidanza, quindi la valutazione deve essere ex ante e non ex post.

Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., in relazione al risarcimento dei danni da mancata informazione e la violazione degli artt. 61 e 191 c.p.c.. Torna a criticare la decisione laddove ha escluso la consulenza tecnica: la sentenza afferma che la stessa fosse superflua in quanto volta ad accertare la presenza della trisomia x, la cui presenza era pacificamente stata accertata e riconosciuta, mentre invece doveva servire ad accertare quali erano state le conseguenze della alterazione genetica, cioè il ritardo nel linguaggio e i problemi di lateralizzazione, che se conosciuti avrebbero consentito alla donna la scelta abortiva oppure, in caso negativo, di intervenire immediatamente con cure sulla minore.

I motivi sono fondati, nei termini che seguono.

Nella motivazione della sentenza impugnata si afferma che l’onere della prova sulla erogazione dell’informazione grava sul medico, ma si ritiene che esso sia stato sufficientemente assolto per una serie di circostanze: quanto al N. (il ginecologo), perchè, essendosi la paziente rivolta per eseguire l’amniocentesi e per avere ulteriori informazioni sulla trisomia x al laboratorio, essa fu sufficientemente informata dal ginecologo della presenza della alterazione cromosomica: l’onere di informazione gravante sul ginecologo viene quindi circoscritto, dalla sentenza impugnata, all’aver comunicato alla paziente la presenza di una anomalia genetica; quanto al laboratorio di analisi genetiche e al genetista, la sentenza ritiene che essi abbiano sufficientemente assolto agli obblighi di informazione a loro carico in quanto, eseguito e terminato correttamente l’approfondimento diagnostico, in presenza di un medico di fiducia, essi non avevano l’onere di informare la partoriente dei rischi nè di segnalarle o caldeggiarle possibilità abortive.

Così ricostruita nel suo contenuto sul punto denunciato, relativo al corretto assolvimento dei doveri di informazione nei confronti della paziente, la motivazione mostra una evidente carenza di logica e una intima contraddittorietà laddove esclude la responsabilità di tutti i professionisti coinvolti in giudizio puntualizzando, quanto a ciascuno di essi, che l’onere di fornire una informazione completa gravava sull’altro, e ritenendo l’altro, al contempo non responsabile.

Anche in relazione al secondo e al terzo motivo, si rileva una incongruenza della motivazione. La corte d’appello ha rigettato la domanda della donna senza mai disporre una consulenza tecnica, pur richiesta, disattendendo tutte le pubblicazioni scientifiche cui aveva fatto riferimento il tribunale per affermare la possibilità del rischio di un danno grave alla salute mentale del nascituro, e proponendo in alternativa, come parimenti inattendibili in quanto prive di oggettività scientifica, le conseguenze della trisomia x tratte da Wikipedia, dalla cui consultazione avrebbe tratto che dalla trisomia x non derivi il rischio di grave ritardo mentale, svalutando le competenze scientifiche proprie del giudice di primo grado che lo avevano portato ad affermare la possibilità di un rischio per la salute del nascituro.

La motivazione della sentenza sul punto, come rilevato dalla ricorrente, è del tutto contraddittoria laddove afferma, al contempo, che l’aborto terapeutico sarebbe stato giustificato solo se fosse stato dimostrato che la trisomia x possa portare gravi ritardi mentali, e dall’altra parte, afferma di non avere sufficienti competenze scientifiche per accertarlo. La conoscenza delle conseguenze accreditate scientificamente di una alterazione cromosomica è un dato di conoscenza scientifica che il giudice avrebbe potuto acquisire tramite una consulenza tecnica percipiente piuttosto che addebitarlo ad esclusivo onere probatorio della parte.

Anche sotto i profili della violazione di legge, richiamati dal terzo e quarto motivo, il ricorso è fondato in quanto, in un giudizio di risarcimento del danno per violazione del diritto al compimento di una scelta consapevole sulla interruzione di gravidanza, connessa alla possibile presenza di gravi problemi al nascituro, tali da destabilizzare la salute fisiopsichica della madre, l’accertamento della possibilità del verificarsi di tale malformazione va fatto con valutazione ex ante, ovvero sulla base delle informazioni delle quali avrebbe potuto disporre la madre prima della nascita, al momento di scegliere se interrompere o meno la gravidanza, e non con valutazione ex posi, sulla base della situazione concreta del nato.

Tuttavia, questo tipo di accertamento peraltro presuppone che il genitore che agisce abbia soddisfatto l’onere probatorio a suo carico (che può assolvere anche facendo ricorso alle presunzioni), che la madre avrebbe tempestivamente esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale, mentre grava sul medico, ai fini di escludere la sua responsabilità, la prova contraria, ovvero che la partoriente, per le sue convinzioni morali o religiose o altro, ove messa di fronte alla scelta dell’aborto perchè correttamente informata, in ogni caso avrebbe scelto di non abortire (Cass. S.U. n. 25767 del 2015).

Si tratta di accertamento in fatto che il giudice di merito dovrà rinnovare.

Si aggiunga peraltro che la violazione del diritto al consenso informato in capo ad una donna in gravidanza non incide solo sulla autodeterminazione delle scelte abortive, ma può avere altre conseguenze in quanto la madre, se adeguatamente informata, potrebbe ugualmente scegliere di non abortire (e non avrebbe perciò alcun diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata), ma avrebbe la possibilità di prepararsi psicologicamente ed anche materialmente alla nascita di un bambino con possibili problemi, che potrebbe necessitare di un particolare accudimento, di una elaborazione del fatto da parte dei genitori, della accettazione e predisposizione di una diversa organizzazione di vita. Inoltre, la tempestiva informazione sulla possibilità di alterazioni fisiche o psichiche del nato in molti casi consente di programmare interventi chirurgici o cure tempestive, farmacologiche o riabilitative: interventi tutti che possono consentire, a seconda dei casi, ai genitori di attivarsi immediatamente con la collaborazione dei medici per eliminare il problema o limitarne le conseguenze dannose per il bambino.

Pertanto, la violazione del diritto ad una piena e corretta informazione sulla salute del nascituro può incidere negativamente, ed essere apprezzabile sotto il profilo del risarcimento per equivalente, non solo quanto si provi che, se adeguatamente informata, la madre avrebbe scelto di abortire, ma anche quanto questa prova manchi, laddove i genitori siano stati privati della possibilità di prepararsi ad accogliere un bambino che presenti problemi di salute particolari e della possibilità di seguirlo con particolare attenzione, intervenendo tempestivamente laddove questi problemi si verifichino.

Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1218 c.c., in combinato disposto con l’art. 1375 c.c., dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 2979 c.c., il tutto in relazione all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e la illogicità manifesta della sentenza su un punto fondamentale della controversia.

Riprende le censure alla motivazione della sentenza, già accolte da questa Corte in riferimento ai motivi di ricorso precedentemente esaminati, e critica sotto il profilo della violazione di legge le affermazioni contenute nella sentenza impugnata laddove hanno individuato il contenuto dei doveri di informazione gravanti sui professionisti coinvolti, rigettando la domanda della ricorrente ritenendo che tutti vi avessero sufficientemente assolto.

Il motivo va accolto, per le ragioni che seguono. Deve ritenersi infatti che la corte d’appello non abbia correttamente individuato il contenuto minimo indispensabile degli obblighi di informazione gravanti, in siffatta situazione, in capo ai professionisti e alle strutture professionali coinvolte.

Quanto alla posizione del ginecologo di fiducia della gestante, la corte d’appello ha ritenuto che il ginecologo avesse correttamente ed esaurientemente informato la ricorrente, affermando che la correttezza dell’informazione si potesse desumere dal fatto che il ginecologo abbia indirizzato la sua paziente al centro genetico per avere maggiori particolari.

Gli obblighi di informazione a carico del medico di fiducia, chiariti da Cass. n. 16754 2012, sono più complessi. Non integra un comportamento idoneo a liberare il medico ginecologo dall’onere di dare una informazione completa sui possibili rischi di una gravidanza connessi ad una per quanto poco frequente alterazione cromosomica, il comportamento del medico che, individuata tramite un particolare esame la presenza della alterazione cromosomica, si limiti a comunicare il dato alla propria paziente per poi indirizzarla al centro di genetica per avere ulteriori informazioni sull’esito dell’esame.

Va a questo proposito puntualizzato, quanto al contenuto degli obblighi di informazione a carico del medico ginecologo, a fronte di una paziente in gravidanza, laddove sia stata rilevata una alterazione cromosomica a carico del feto che, qualora la gestante o anche il ginecologo abbiano richiesto un esame specialistico atto a far emergere l’esistenza di alterazioni cromosomiche o altre anomalie del feto (che potrebbero indurre ad una scelta abortiva o, se particolarmente gravi, consentire anche l’aborto terapeutico), il compito del professionista di fiducia non si esaurisce nell’indicare alla paziente la presenza della alterazione, ma esso è necessariamente comprensivo, in particolare ove gli sia stato richiesto, di un approfondimento (che può comportare un impegno di studio e documentazione integrativo, da parte sua, se non conosce approfonditamente l’argomento, al fine di rendere una informazione completa nei confronti della paziente) in ordine alle conseguenze di tale alterazione, alle percentuali di verificabilità, alle alterazioni della qualità della vita dei genitori e del nascituro ipotizzabili, alla riconducibilità di tali possibili conseguenze ad una scelta abortiva libera o alla indicazione se esse comportino rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che possano determinare un grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna, tali da legittimare una interruzione della gravidanza oltre i primi novanta giorni (L. n. 194 del 1978, ex art. 6). L’informazione dovuta deve essere in altre parole comprensiva di tutti gli elementi per consentire alla paziente una scelta informata e consapevole, sia che essa sia volta alla interruzione che se sia volta alla prosecuzione di una gravidanza il cui esito potrà comportare delle problematicità da affrontare.

Ne consegue che il comportamento dello specialista di fiducia-ginecologo che a fronte di una, per quanto rara, alterazione rinvii per più dettagliate informazioni la paziente non ad uno specialista della alterazione stessa, ove lo ritenga necessario perchè sia data una informazione di maggior competenza dopo la propria informazione generale sulle ricadute della alterazione cromosomica, ma a soggetto non maggiormente specializzato e neppure legato alla paziente da un pregresso rapporto fiduciario, come il laboratorio di analisi, non integra un idoneo assolvimento dei doveri di informazione e non libera il professionista della sua responsabilità per mancata formazione di un consenso informato.

Quanto alla posizione del laboratorio di analisi e del genetista che in sede di analisi specialistica abbiano riscontrato la presenza di una anomalia genetica, a fronte della richiesta di maggiori dettagli da parte della gestante in ordine alle conseguenze di essa, a loro volta non può ritenersi che abbiano compiutamente assolto ai doveri di informazione in capo ad essi gravanti qualora si siano limitati, a loro volta, a reindirizzarla al ginecologo di fiducia opponendo di aver terminato il proprio compito: il compito del laboratorio specialistico di diagnostica non si arresta alla verifica della esistenza della anomalia, ma, a specifica richiesta della paziente, deve soddisfare le sue richieste di informazioni anche in relazione alle più probabili conseguenze di tali anomalie.

In virtù delle considerazioni che precedono, il ricorso va accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 30 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2017

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