Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4998 del 25/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 25/02/2020, (ud. 27/05/2019, dep. 25/02/2020), n.4998

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1218-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI TRIESTE, in persona del Presidente e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato ROMA

VIA PO, presso lo studio dell’avvocato PIETRO ANELLO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 62/2013 della COMM.TRIB.REG. di TRIESTE,

depositata il 16/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO BERNAZZANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

UMBERTO DE AUGUSTINIS che ha concluso per l’accoglimento per quanto

di ragione in subordine rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato ANELLO che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate propone ricorso, affidato ad un unico motivo, nei confronti della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste per la cassazione della sentenza della CTR del Friuli-Venezia Giulia n. 62/09/13, pronunciata in data 1.7.13 e depositata in data 16.9.13, che ha accolto l’appello della contribuente in controversia concernente l’impugnazione del silenzio-rifiutò opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso, presentata il 29.10.2008, della somma di Euro 843.814,00 versata a titolo di imposta sostitutiva IRES D.Lgs. n. 461 del 1997, ex art. 5, comma 2, sulla plusvalenza realizzata in occasione dell’alienazione di n. 2.805.000 azioni della Unicredito Italiano S.p.a., autorizzata dal M.E.F. ai sensi del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 7, comma 3.

Tale istanza di rimborso era fondata, in particolare, sull’applicazione della normativa concernente le fondazioni bancarie, che prevede, al D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, l’esclusione dalla base imponibile ai fini IRES ed IRAP delle plusvalenze da cessione delle partecipazioni in istituti di credito costituiti in forma di società per azioni, sul presupposto del precedente “scorporo” dell’azienda bancaria dagli originari enti pubblici creditizi – che assumevano, per l’effetto, la veste giuridica di fondazioni – e del conferimento della stessa in una società bancaria.

Resiste la predetta Fondazione con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, art. 13; della L. 26 novembre 1993, n. 489, art. 1, comma 4; della L. 30 luglio 1990, n. 218, artt. 1 e 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3

1.1. In tale prospettiva, l’Agenzia ha evidenziato il rilievo centrale rivestito, ai fini del trattamento fiscale della dismissione delle partecipazioni detenute in società bancarie, dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, a tenore del quale (si riporta il testo originario) “Per le fondazioni non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche nè alla base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive le plusvalenze derivanti dal trasferimento delle azioni detenute nella società bancaria conferitaria, se il trasferimento avviene entro il quarto anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (termine successivamente prorogato, come si dirà meglio infra).

Deduce, in tal senso, l’Ufficio che erroneamente la CTR ha ritenuto che fossero assoggettate alla disciplina di favore sopra citata le plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni oggetto di controversia, non potendosi qualificare quale “dismissione di parte residuale della originaria partecipazione con conseguente esclusione da tassazione sulle plusvalenze realizzate” (così la sentenza della CTR), trattandosi, invece, di un’operazione di carattere speculativo consistente nella cessione, nel successivo riacquisto e nell’ulteriore dismissione di un pacchetto di azioni di Unicredito Italiano s.p.a. (d’ora innanzi, Unicredito s.p.a.), in quanto tale non rispondente alle finalità sottese al predetto D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13.

1.2. E’ opportuno, ai fini di un adeguato inquadramento delle questioni sottese al ricorso, evidenziare che la sentenza della CTR ha rilevato, riportando in motivazione in modo dettagliato gli estremi degli atti citati ed il loro contenuto, del resto non contestati dalle parti, che:

a) la Cassa di Risparmio di Trieste, con progetto approvato dal Ministro del Tesoro e pubblicato sulla GU n. 185 del 7.8.1993, aveva conferito, previo scorporo, la propria azienda bancaria in una società regolarmente costituita allo scopo, denominata Cassa di Risparmio di Trieste-Banca s.p.a. (di seguito, CRT-Banca s.p.a.), il cui capitale sociale, rappresentato da titoli azionari, era detenuto dall’Ente conferente, che aveva assunto la natura giuridica di fondazione, denominata C.R.T.-Fondazione (di seguito, Fondazione CRT);

b) in data 19.6.2002 si era verificata la fusione per incorporazione di CRT-Banca s.p.a. in Unicredito s.p.a.; quanto alle azioni dell’incorporata, la parte di esse a tale epoca già detenute dall’incorporante veniva annullata, mentre, a fronte delle restanti azioni della società incorporata all’epoca nella titolarità di terzi, Unicredito s.p.a. aveva effettuato un aumento del proprio capitale sociale mediante emissione di azioni ordinarie, che erano state assegnate ai soci terzi di CTR-Banca s.p.a.

Per effetto, dunque, delle operazioni di concambio conseguente alla fusione per incorporazione, le azioni di CRT-Banca s.p.a. erano state sostituite da azioni Unicredito s.p.a.: in particolare, a fronte di n. 4.372.045 azioni di CRT-Banca spa possedute da CRT-Fondazione erano state emesse n. 16.701.212 azioni di Unicredito s.p.a.

Tali azioni Unicredito, ha concluso la CTR, rappresentavano la restante parte del controvalore dell’azienda bancaria a suo tempo scorporata, ossia equivalevano (secondo il rapporto di concambio) esattamente alle azioni di CRT-Banca s.p.a. che Fondazione CRT deteneva al momento della fusione per incorporazione di quest’ultima.

Da ciò conseguiva, secondo la CTR, che:

1) tramite la fusione per incorporazione, la titolarità dell’azienda bancaria originariamente conferita era passata ad Unicredito s.p.a.,. che veniva quindi ad assumere nei confronti della Fondazione la qualifica di “società bancaria conferitaria”, beninteso a far tempo dal 19.6.2002 e con riferimento alla quota di partecipazione posseduta da Fondazione CRT a seguito del concambio e fino alla totale dismissione di questa;

2) tale conclusione era coerente con le previsioni di cui al D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 1, comma 1, il quale alla lett. c) afferma che per “fondazione” si deve intendere l’ente che ha effettuato il conferimento dell’azienda bancaria ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990; alla lett. f) precisa che per “Società bancaria conferitaria” si intende la società titolare direttamente o indirettamente di tutta o parte dell’originaria azienda bancaria della fondazione e nella quale la stessa detiene direttamente o indirettamente una partecipazione, ivi comprese, in particolare, la società titolare di tutta o parte dell’originaria azienda bancaria conferita dalla fondazione ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990, e “la società risultante da operazioni di fusione della Società bancaria conferitaria”.

Corollario di quanto precede era che la successiva cessione di parte di tale pacchetto azionario (n. 2.805.000 azioni di Unicredito Italiano s.p.a.) aveva integrato una dismissione, autorizzata debitamente dal Ministero del Tesoro, di parte residuale della originaria partecipazione, con conseguente esclusione da tassazione sulle plusvalenze realizzate, con legittimità della richiesta di rimborso.

1.3.Rispetto all’ordito motivazionale fornito dalla decisione impugnata, l’Agenzia ha posto a fondamento del proprio ricorso una considerazione sostanziale: che l’operazione posta in essere dalla Fondazione è stata “realizzata attraverso strumenti, quali l’acquisto e la successiva cessione di azioni, che rispondono a regole e valutazioni determinate dai mercati finanziari” e che conseguentemente “hanno senz’altro finalità speculative”: in tale prospettiva, l’Agenzia afferma che la pur ampia portata del più volte richiamato D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, non consente di estendere l’applicazione del beneficio fiscale all’ipotesi in cui le azioni della società conferitaria siano state oggetto di ripetute operazioni di cessione e di riacquisto, in quanto le finalità sottese alla norma sono volte ad agevolare esclusivamente le vendite dei pacchetti azionari che rappresentino una dismissione effettiva delle originarie partecipazioni derivanti dal trasferimento dell’azienda bancaria nella società conferitaria.

1.4. A tal fine, la ricorrente richiama il fatto che anche prima e dopo l’operazione in esame vi erano stati ripetuti acquisti e cessioni di azioni Unicredito s.p.a. da parte della Fondazione. Una parte di tali operazioni era avvenuta, peraltro, prima della incorporazione da parte di Unicredito s.p.a. di CRT-Banca s.p.a. (come detto, avvenuta nel 2002) e precisamente nel 1997 e nel 1998: al riguardo, peraltro, mette conto sin d’ora osservare che la veste assunta da Unicredito s.p.a. all’epoca non era ancora quello di società bancaria conferitaria; altra parte, invece, era avvenuta dopo l’incorporazione e prima della operazione oggetto della presente controversia, che appariva collegata: si richiama, a tale proposito, un passo della motivazione della sentenza di primo grado resa dalla CTP di Trieste in cui si ricorda che, dopo la descritta incorporazione, Fondazione CRT era stata autorizzata il 13 aprile 2004 dal Ministero a cedere, D.Lgs. n. 153 del 1999, ex art. 7, comma 3, un pacchetto di azioni Unicredito s.p.a., cessione avvenuta il 21.9.2005; poco dopo, il 19-21 ottobre 2005, la Fondazione aveva riacquistato n. 2.805.000 azioni Unicredito s.p.a.; in data 12 febbraio 2007, la Fondazione veniva nuovamente autorizzata dal Ministero a cedere, D.Lgs. n. 153 del 1999, ex art. 7, comma 3, il medesimo quantitativo di n. 2.805.000 azioni ordinarie “della società bancaria conferitaria Unicredito”. L’operazione di cessione, posta in essere fra il 12 febbraio ed il 16 aprile 2007, generava ricavi per la Fondazione pari ad Euro 20.353.300,28, con l’emersione di una plusvalenza pari ad Euro 7.657.946,00 (in proposito, va annotato che tali dati sono stati confermati dalla Fondazione CRT nella sua ricostruzione cronologica delle operazioni, a pag. 4 del controricorso).

Infine, un’ultima operazione sarebbe avvenuta dopo il caso che qui occupa, ossia nel 2009 (acquisto azioni Unicredito s.p.a. da parte della Fondazione): si tratta, peraltro, di un’operazione meramente richiamata nel ricorso, senza ulteriori indicazioni, e di cui la sentenza della CTR non fa menzione.

2. Così precisato il perimetro della questione devoluta al Collegio, occorre affrontare le due eccezioni preliminari di inammissibilità formulate dalla contribuente.

2.1. La prima di esse è diretta a sostenere l’inammissibilità del motivo di ricorso in quanto diretto ad introdurre nuove contestazioni non sollevate nel giudizio di merito. Rileva, in tal senso, la Fondazione CRT che l’Agenzia, nei gradi di merito, aveva fondato la propria difesa sull’unico presupposto che, nella specie, non ricorreva alcun conferimento di azienda bancaria previo scorporo, ma soltanto una serie di operazioni di cessione ed acquisto di azioni nei confronti di Unicredito s.p.a., la quale non poteva essere considerata società bancaria conferitaria nei rapporti con la Fondazione. L’Ufficio, dunque, non aveva fatto riferimento al fatto che le operazioni avessero “natura speculativa” e che (anche) per tale motivo fosse inapplicabile l’art. 13 cit.

Il ricorso dell’Agenzia delle entrate, sul punto, osserva che la questione era stata, invece, formulata sin dal principio, tenuta presente dalla decisione di primo grado (secondo la quale la disciplina del conferimento dell’azienda bancaria prevedeva una serie di passaggi volti ad “escludere che al processo di diversificazione si accompagnino o si sovrappongano finalità di natura speculativa”) e ribadita nel proprio atto di controdeduzioni in appello ed aggiunge che la stessa che sarebbe stata, parimenti, affrontata dalla sentenza di appello che avrebbe escluso la sussistenza di tale finalità speculativa, pur non indicando il punto specifico della sentenza in cui la CTR avrebbe affrontato tale questione.

L’eccezione è infondata.

Sul punto, va registrato che la stessa Fondazione ha riconosciuto (cfr. p. 15 del controricorso) che nelle controdeduzioni dell’Ufficio nel giudizio di appello (cfr. p. 6) compariva un riferimento al fatto che fra le intenzioni del legislatore “vi era sicuramente quella di consentire la fruizione delle agevolazioni di cui si discute solo nelle ipotesi in cui sia provata l’assenza di fine speculativo nella vendita dei pacchetti azionari posti in essere dalle Fondazioni stesse”.

Questo passaggio appare rilevante per avvalorare la conclusione che, nelle difese dell’Agenzia, la “natura speculativa” dell’operazione sia stata specificamente dedotta, come, del resto desumibile dallo stesso, significativo, riferimento compiuto dalla sentenza di prime cure in ordine alla finalità degli adempimenti previsti per legge nella materia in esame, in quanto diretti ad escludere che al processo di diversificazione si accompagnino finalità di natura anche speculativa. Nè rileva, in tale quadro ricostruttivo, che tale profilo sia stato inizialmente correlato, anche sul piano logico, ad una più ampia impostazione difensiva secondo cui, nella specie, non si poteva individuare in radice un conferimento. di azienda. Invero, indipendentemente dalla considerazione che la difesa dell’Ufficio si collocasse in una dimensione più articolata, funzionale a dimostrare l’assenza degli estremi per configurare un trasferimento di azienda bancaria, resta il rilievo – decisivo al fine in esame – che l’Ufficio ha sempre e tempestivamente dedotto la configurabilità, nella specie, di una serie concatenata di vendite e di acquisti di titoli azionari, la cui finalità era di tipo speculativo, ossia aliena da funzioni di dismissione azionaria.

Nello sviluppo del ricorso di legittimità, l’Agenzia non ha ulteriormente sviluppato l’argomento relativo all’inesistenza di un conferimento di azienda bancaria, ma si è concentrata sulla finalità speculativa della dismissione azionaria, intesa quale caratteristica che, anche di per sè sola considerata, impedirebbe alla contribuente di fruire del regime di non imponibilità: tale argomento, per quanto concettualmente distinguibile dagli altri, nondimeno risulta ricompreso nell’originario e più ampio thema decidendum e tanto consente di concludere che si non si è in alcun modo ampliata la materia del contendere rispetto a quanto dedotto nella fase di merito.

2.2. La seconda eccezione è volta a sostenere l’inammissibilità del motivo in quanto implicante un non consentito esame di merito ed in quanto viziato da errata indicazione del parametro di legittimità applicabile.

Secondo la difesa della Fondazione, in particolare, la possibilità di qualificare l’operazione realizzata come “speculativa” presupporrebbe un’indagine ed una valutazione di fatto ovvero, comunque, sarebbe al più censurabile entro i confini segnati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, in tema di vizio di motivazione, nella specie non dedotto.

Si afferma, in particolare che, avendo affermato la stessa Agenzia ricorrente che la CTR aveva preso in esame la questione rimarcando “l’insussistenza delle finalità speculative”, non vi sarebbe spazio per il vizio di violazione di legge: la CTR non avrebbe affatto interpretato la norma di cui all’art. 13 nel senso di ricomprendere nel beneficio anche operazioni speculative e, tanto meno, potrebbe dirsi che la stessa abbia falsamente applicato la norma de qua ad una fattispecie concreta – così come ricostruita dal giudice di merito – non corrispondente allo schema astratto contemplato dalla norma stessa.

Secondo la Fondazione CRT, invece, i giudici di appello avrebbero applicato detta norma sulla base di una precisa ricostruzione della quaestio facti, affermando, da un lato, l’esistenza del conferimento di azienda costituente il presupposto per l’applicazione della norma tributaria di favore ed escludendo, dall’altro, il carattere speculativo dell’operazione. Pertanto, contestare la valutazione della CTR circa l’insussistenza di siffatta finalità speculativa equivarrebbe a proporre un’inammissibile questione di merito o, al più, a dedurre una censura astrattamente possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto e nei limiti del vizio di motivazione.

2.3. Anche tale eccezione appare infondata.

Dal tenore della motivazione della decisione impugnata si evince che, in realtà, la CTR non ha operato alcun riferimento al carattere di speculatività dell’operazione, ossia al fatto che la stessa non fosse giustificabile in un’ottica di dismissione dell’originario pacchetto azionario, ma fosse inserita in un’operazione caratterizzata dal trasferimento ad Unicredito s.p.a. di una parte del pacchetto azionario ancora detenuto in CRT Banca, dal successivo riacquisto di una parte delle stesse azioni e dalla ulteriore rivendita del medesimo pacchetto; nè tale profilo controverso, nella specie, può dirsi implicitamente rigettato per effetto dell’accoglimento di questioni logicamente assorbenti ed incompatibili con lo stesso.

In tal senso, il vizio di violazione di legge dedotto risulta ammissibile sotto il profilo della falsa o errata interpretazione ed applicazione delle norme di legge invocate, ed in particolare dell’art. 13 cit., poichè la CTR ne ha ritenuto l’operatività senza valutare la sussistenza di uno dei presupposti applicativi di tale disposizione, ossia l’assenza di carattere “speculativo” in capo all’operazione (ovvero considerando erroneamente irrilevante la natura speculativa o meno dell’operazione stessa).

Nella medesima prospettiva, il fatto che l’Agenzia ricorrente abbia inesattamente affermato che la CTR abbia “ritenuto.insussistente” il fine speculativo, non preclude affatto alla Corte, nell’esercizio dei propri poteri di qualificazione giuridica, di apprezzare la sussistenza del dedotto vizio di violazione di legge anche con riferimento ad un profilo di diritto non esattamente coincidente ovvero diverso da quello prospettato dal ricorrente, purchè, come nella specie, sempre fondato sui fatti allegati e senza alcuna modifica officiosa della domanda (cfr. Sez. 3, n. 18775 del 28/07/2017, Rv. 645168 – 01; Sez. 6 – 3, n. 3437 del 14/02/2014, Rv. 629913 – 01).

3. Nel passare all’esame del nucleo essenziale del ricorso dell’Ufficio è indispensabile delineare, sulla base del quadro normativo interno, le linee maestre dei provvedimenti legislativi che si sono susseguiti in materia di fondazioni bancarie, esaminati sotto il particolare angolo prospettico che rileva ai fini della decisione.

3.1. La disciplina fiscale delle operazioni di trasferimehto delle partecipazioni nelle società bancarie detenute dalle fondazioni bancarie, così come di recente introdotta dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, è il risultato di una lunga e complessa evoluzione normativa.

Con la legge delega 30 luglio 1990, n. 218 e con il D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, è stata avviata una globale riorganizzazione del settore bancario mediante operazioni di ristrutturazione e ripatrimonializzazione degli enti creditizi pubblici a fini di rafforzamento della competitività nel mercato unico Europeo.

Tali provvedimenti legislativi hanno reso possibile la trasformazione degli istituti di credito di diritto pubblico in società per azioni. A tal fine, era prevista la possibilità per gli enti creditizi pubblici, fra i quali le casse di risparmio, di “scorporare” e conferire l’azienda bancaria in una società per azioni, in modo tale da separare la persona giuridica cedente, alla quale veniva attribuita la qualifica di “fondazione bancaria”, proprietaria delle partecipazioni, dalla società per azioni cessionaria, unica titolare dell’attività bancaria. La fondazione bancaria amministrava, quindi, la partecipazione nella banca cessionaria e utilizzava le relative entrate per perseguire finalità sociali.

Sulla base della delega di cui alla L. n. 218 del 1990 e del D.Lgs. n. 356 del 1990, recante la disciplina degli statuti e delle attività degli enti di credito nonchè dei progetti di ristrutturazione, risulta che l’assetto originariamente prescelto dal legislatore contemplava un sistema di enti di matrice pubblicistica, assoggettati ad una serie di vincoli e sotto la vigilanza dell’autorità pubblica, i quali mantenevano il controllo delle società bancarie.

Coerentemente con tale assetto, si era affermato il principio della permanenza in capo agli enti della partecipazione di controllo sulle società bancarie conferitarie, salva la facoltà di dismettere siffatta partecipazione previa autorizzazione, senza previsione di alcuna norma agevolativa di carattere fiscale.

3.2. Con i successivi interventi normativi, il legislatore si è mosso, invece, nella direzione di svincolare gli istituti conferenti dall’ingerenza dell’autorità pubblica e di favorire il trasferimento delle azioni delle società bancarie; tale da comportare il venir meno della partecipazione di controllo in capo all’ente conferente (cfr., ad es., il D.Lgs. n. 481 del 1992, art. 43, comma 3).

In questo nuovo contesto, lo strumento principe prescelto dal legislatore per indurre gli istituti ad attuare la riforma è stato individuato, sin dall’inizio, nella leva costituita dall’agevolazione fiscale: ne sono testimonianza l’introduzione, con la L. n. 489 del 1993, di un’agevolazione analoga a quella già contemplata con riguardo all’operazione di conferimento dell’azienda bancaria, mediante la previsione che anche la rivendita delle azioni, ricevute a seguito del conferimento, non comportasse il realizzo di plusvalenze ove effettuata in conformità alle direttive emanate dal Ministero del Tesoro ed alle ulteriori specifiche previsioni, fino al successivo momento del realizzo o della distribuzione. Ancora, con la L. n. 474 del 1994, art. 1, comma 7 ter, si ribadiva il principio secondo cui non costituiva realizzo di plusvalenze il trasferimento delle azioni ricevute a seguito del conferimento, se deliberato dall’ente in conformità alle direttive di carattere generale emanate dal Ministro del Tesoro con riferimento alla diversificazione del rischio di investimenti.

L’obiettivo di ottenere la diversificazione del patrimonio degli enti conferenti mediante la dismissione delle partecipazioni nella società bancaria è stato fatto proprio anche dalla successiva direttiva del Ministro del Tesoro del 18 novembre 1994 (c.d. direttiva Dini), la quale stabiliva che i suddetti enti entro cinque anni procedessero “alla diversificazione del proprio attivo” secondo un criterio composito che contemplava, fra l’altro, il tetto massimo del 500/0 del patrimonio complessivo dell’ente per l’investimento in azioni delle società bancarie, con la previsione che il trasferimento delle azioni della società bancaria, in quanto diretto al raggiungimento del suddetto parametro minimo di diversificazione, non costituisse realizzo di plusvalenze in capo all’ente.

3.3. Infine, mediante l’assetto da ultimo raggiunto con la legge delega 23 dicembre 1998, n. 461, ed il successivo D.Lgs. n. 17 maggio 1999, n. 153, il legislatore ha evidenziato la volontà di contrastare la permanenza in capo agli enti della partecipazione di controllo nella società bancaria ed ha, a tal fine, previsto una serie di disposizioni agevolative di ordine eminentemente fiscale, applicabili alla espressa condizione della dismissione da parte dell’ente conferente, entro un certo periodo di tempo, della partecipazione di controllo nella società bancaria, sempre nell’ambito di una diversificazione patrimoniale di tali enti, espressamente qualificati come soggetti di diritto privato per quanto soggetti a penetranti controlli pubblicistici.

Significativo, ad esempio, nella disciplina generale “a regime” del D.Lgs. n. 153, è l’art. 12, comma 3 (come modificato dal D.L. n. 143 del 2003), il quale prevede che la fondazione bancaria perde la qualifica di ente non commerciale e cessa di fruire delle agevolazioni fiscali previste qualora, successivamente alla scadenza del termine prefissato, sia ancora in possesso di una partecipazione di controllo, così come individuata dall’art. 6, nella società bancaria conferitaria; l’art. 6, comma 4, del decreto cit., inoltre, non consente di detenere partecipazioni di controllo in società che non abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di imprese strumentali alla diretta realizzazione degli scopi statutari perseguiti dall’ente nei settori individuati. Correlativamente, il successivo art. 7, consente che le fondazioni mantengano partecipazioni anche in società non svolgenti attività direttamente strumentali alla propria attività purchè non raggiungano la soglia di partecipazione di controllo, precedentemente definita.

Infine, l’art. 13 – norma costituente il fulcro della controversia in esame dispone, con particolare riguardo alle fondazioni conferenti, che non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini Irpeg, nonchè alla base imponibile Irap, le plusvalenze derivanti dal trasferimento delle azioni detenute nella società bancaria conferitaria, a condizione che detto trasferimento sia perfezionato entro il termine indicato (originariamente fissato in quattro anni e successivamente prorogato). Identico trattamento è riservato nei confronti della società in cui la fondazione abbia conferito la propria partecipazione nella società bancaria conferitaria.

Sempre a tale proposito, precisa il successivo art. 25, che, qualora la dismissione della partecipazione di controllo non sia stata posta in essere nel termine, con conseguente perdita della qualifica di ente non commerciale e delle relative agevolazioni, nè nei successivi due anni, tale dismissione viene operata in via coattiva dall’Autorità di vigilanza.

3.4. L’impianto normativo da ultimo illustrato evidenzia eloquentemente come la dismissione della partecipazione azionaria di controllo sia stata configurata, a differenza del passato, come un vero e proprio obbligo giuridico in capo all’ente fondazione.

In tale contesto, allora, ben si comprende quale sia, nell’impianto originario e nell’assetto “a regime” della disciplina normativa, la ratio di una previsione agevolatrice sul piano fiscale come quella di cui all’art. 13 cit.. Essa discende direttamente dalla ristrutturazione delle fondazioni delineata nel provvedimento in esame e dal perseguimento delle finalità pubblicistiche alle stesse sottese.

Invero, nel momento in cui il legislatore ha attuato una “privatizzazione” delle fondazioni ed una loro più netta distinzione rispetto all’attività bancaria esercitata dalle società conferitarie, necessariamente sottratte alla sfera di controllo delle prime, si è venuto a consolidare il ruolo delle fondazioni quali soggetti operanti in attività di erogazione di beni e servizi senza scopo di lucro in settori di utilità pubblica.

In tale prospettiva, poichè le partecipazioni nella azienda bancaria così conferita costituiscono oggetto di un obbligo di dismissione – il cui carattere di cogenza è, come visto, comprovato dalla possibilità di trasferimento coattivo e dalla perdita dello status di ente non commerciale e delle connesse agevolazioni ove il termine ex lege sia stato lasciato scadere senza operare la dismissione – il legislatore ha ritenuto opportuno evitare l’imponibilità delle plusvalenze derivanti da tali trasferimenti di partecipazioni, che avrebbe avuto il significato di un prelievo, altrettanto coattivo, applicato in rapporto ad un atto dovuto e, quindi, non collegato ad una libera determinazione dell’ente.

D’altro canto, la previsione di un’esenzione dagli obblighi fiscali fino alla data entro cui doveva procedersi alla dismissione aveva l’effetto di incentivare positivamente, rimuovendo l’ostacolo rappresentato dal “costo” per le imposte, l’effettuazione di ulteriori dismissioni del patrimonio azionario detenuto dalle fondazioni rispetto a quelle imposte dal legislatore (con un effetto che è stato, come detto, definito di “leva fiscale”).

Dunque, l’alienazione della originaria partecipazione nella banca conferitaria costituisce uno dei capisaldi della riforma del 1998-99, a tal punto che la lettera della disposizione di cui all’art. 13 cit., prevede la non imponibilità non soltanto per la quota di partecipazione la cui dismissione è necessaria per scendere sotto il controllo (obbligatoria a norma del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 6, comma 4), ma per qualunque partecipazione, anche minoritaria, detenuta nella banca conferitaria.

3.5. Così delineati i tratti fondamentali della disciplina di sistema in cui si colloca il D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, va immediatamente precisato che il susseguirsi di provvedimenti normativi successivamente intervenuti ha finito per delineare una disciplina del tutto peculiare per le fondazioni bancarie aventi un patrimonio netto contabile inferiore a Euro 200.000.000 o aventi sedi operative in regioni a statuto speciale, come nel caso che qui occupa.

Tali fondazioni, invero (cfr. il D.L. 24 giugno 2003, n. 143, convertito con modificazioni dalla L. 1 agosto 2003, n. 212, che ha sostituito il comma 3-bis del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 25) possono ancora detenere una partecipazione di controllo nelle società bancarie conferitarie, senza perdere la qualifica di ente non commerciale; nè ad esse si applica più il termine previsto nell’art. 13.

Infatti, come affermato espressamente dalla Relazione al D.L. di conversione in legge del D.L. 24 giugno 2003, n. 143, “… per le fondazioni più piccole, trattandosi di enti di rilievo patrimoniale più contenuto, l’obbligo di cessione delle partecipazioni bancarie di controllo – attualmente fissato al 2006 – viene tout court rimosso”.

Infine, la L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 7, nell’introdurre, al comma 3 del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 25, il divieto per la fondazione di esercitare il diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie delle società indicate nei commi 1 e 2, per le azioni eccedenti il 30 per cento del capitale rappresentato da azioni aventi diritto di voto nelle medesime assemblee, ha escluso che detta disposizione “si applichi alle fondazioni di cui al comma 3-bis”.

In relazione a tale peculiare quadro di disciplina delle fondazioni bancarie di minori dimensioni ovvero operanti in regioni a statuto speciale, le quali dunque possono mantenere una partecipazione di controllo della società bancaria conferitaria ed esercitare il diritto di voto in ogni assemblea senza il limite del 30% vigente per le altre fondazioni, il mantenimento della detassazione delle plusvalenze derivanti dall’alienazione delle partecipazioni azionarie nella società conferitaria non può più, dunque, essere giustificato in ragione del carattere cogente della dismissione – quantomeno della partecipazione maggioritaria.- predicabile alle altre tipologie di fondazione, non essendo qui configurabile alcun obbligo in tal senso e, a maggior ragione, alcuna forma di “sanzione” in caso di inottemperanza, quali il trasferimento coattivo e la perdita dello status di ente non commerciale e delle connesse agevolazioni.

L’unica ratio ravvisabile può essere individuata, allora, in una persistente valutazione di opportunità di detassare le plusvalenze anche in ipotesi di trasferimenti non obbligati, agevolando qualsivoglia dismissione delle partecipazioni in esame, anche quelle che non siano funzionali alla perdita del controllo sulla società bancaria o tali da condizionarne la gestione e l’andamento, bensì siano piuttosto dirette alla diversificazione dell’attivo della fondazione.

4. Tuttavia, l’ampiezza del tenore testuale dell’art. 13 cit., unitamente alla eliminazione, per via dei successivi interventi normativi illustrati, di ogni limite temporale per usufruire dell’agevolazione, per giunta da parte di un ente che non ha più alcun obbligo di liberarsi della propria partecipazione azionaria, minoritaria ovvero anche di completo controllo, finisce per configurare un beneficio che, se non rettamente inteso ed interpretato, rischierebbe di integrare una violazione di fondamentali parametri costituzionali, quali gli artt. 3 e 53 Cost., aprendo il varco ad una questione di legittimità costituzionale che sarebbe logicamente prioritaria ed assorbente anche rispetto alle questioni interpretative afferenti all’art. 107 TFUE (già art. 87 TCE), di cui in appresso, in quanto tale da prescindere dal problema della qualificazione della fondazione quale impresa.

Al riguardo, può, peraltro, percorrersi una via diversa, ritenendo il Collegio che sia comunque praticabile una soluzione ermeneutica conforme agli evidenziati parametri costituzionali.

Tale percorso interpretativo conduce a riconoscere che la ratio dell’art. 13 cit., valutata alla luce del sistema normativo in cui esso si colloca, ricorre alla imprescindibile condizione che la vendita dei pacchetti azionari detenuti dalle fondazioni in esame, per quanto meramente facoltativa, avvenga pur sempre per favorire le dismissioni effettive – e sino a quel momento non ancora perfezionate delle originarie partecipazioni derivanti dal conferimento dell’azienda bancaria nella società bancaria conferitaria.

Essa, invece, non può essere ravvisata nei casi in cui le stesse azioni della società bancaria conferitaria siano state oggetto di operazioni di tipo speculativo che nessuna attinenza possiedono rispetto agli obiettivi perseguiti dal complesso di norme illustrato.

In tal senso, va osservato che la CTR non ha affrontato la questione, pure emergente dagli atti, costituita dal fatto che il pacchetto azionario costituito da n. 2.805.000 azioni di Unicredito Italiano s.p.a. è stato oggetto ripetute operazioni cessione, riacquisto e successiva alienazione di parte della Fondazione CRT, così esponendosi alla censura, fatta propria dall’Ufficio, che tale ultima ‘operazione di dismissione non potesse integrare, diversamente da quanto affermato dalla CTR, una dismissione di parte residuale della originaria partecipazione.

Così operando, i giudici di merito hanno risolto il problema relativo all’applicabilità dell’agevolazione fiscale alla fattispecie concreta in maniera errata, ossia senza tener conto di tale fondamentale profilo valutativo che condiziona l’esatta interpretazione della norma, finendo per prescindere dalla doverosa valutazione della natura, speculativa o meno, dell’operazione, essenziale ai fini del riconoscimento della disposizione di favore.

Tanto giustifica una pronuncia di annullamento con rinvio, esito verso il quale conduce anche l’ulteriore profilo che segue, convergente negli effetti invalidanti della decisione impugnata.

5. In secondo luogo – ed anche indipendentemente dalle considerazioni appena illustrate – va rilevato che la decisione della causa sulla base del diritto interno non può non tener conto del problema della compatibilità del regime fiscale delle fondazioni bancarie in esame con il diritto comunitario ed, in particolare, con gli artt. 107 e 108 TFUE, già artt. 87 ed 88 TCE; a tale proposito, va osservato che il riconoscimento dell’agevolazione in parola ad una Fondazione bancaria avente le caratteristiche della Fondazione CRT può concretamente prospettare profili di incompatibilità fra l’applicazione della norma di cui al D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, e la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE (gia art. 87 TCE), a tenore del quale ” salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

In particolare, qualora si dovesse qualificare come ipotesi di aiuto di Stato a favore di talune imprese la disposizione tributaria oggetto di giudizio, questa non potrebbe essere applicata senza una preventiva decisione della Commissione Europea sulla sua compatibilità e, fino all’adozione di una tale decisione, i giudici nazionali non dovrebbero dare ad essa applicazione, a causa dell’efficacia diretta dell’art. 108 TFUE (già art. 88, n. 3, TCE).

5.1. In tale quadro ermeneutico, l’Agenzia ricorrente ha concretamente prospettato la predetta questione, richiamando a sostegno la decisione della Commissione Europea n. 2002/581/CE e le sentenze della CGUE del 15.12.2005 nelle cause C-66/02 e C-148/04.

La decisione della Commissione Europea n. 2002/581/CE, peraltro, si riferisce esclusivamente alle misure stabilite dal legislatore italiano a favore delle “imprese bancarie”, qualificandole come aiuti di Stato e precisando espressamente (punto n. 6) che “la L. n. 461 del 1998, e il decreto n. 153 del 1999, introducono vantaggi fiscali anche per le fondazioni bancarie. Le misure destinate alle fondazioni bancarie non formano oggetto di esame nella presente decisione”.

Le sentenze della CGUE del 15.12.2005 nelle cause C-66/02 e C-148/04, parimenti, confermano l’impostazione fatta propria dalla Commissione Europea rispetto all’oggetto della decisione da quest’ultima adottata (aiuti nei confronti delle banche-imprese, che formavano specifico oggetto dei ricorsi proposti avanti alla CGUE) e non si occupano della materia afferente alle fondazioni, per quanto la prima di tali decisioni sia, comunque, di rilievo nella parte in cui passa in rassegna le principali questioni ai fini della determinazione della nozione di aiuto di Stato alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea (la cui portata semantica è tale da ricomprendere anche un provvedimento mediante il quale le pubbliche autorità accordino a determinate imprese un’esenzione fiscale o una riduzione dell’imposta normalmente dovuta che, pur non implicando un trasferimento di risorse da parte dello Stato, collochi i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole di quella degli altri contribuenti).

5.2. Delle fondazioni si occupa, invece, espressamente la decisione n. 2003/146/CE della Commissione Europea, secondo cui le misure cui l’Italia ha dato esecuzione con il D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, art. 12, comma 2, art. 13 (ossia la norma oggetto della presente controversia), art. 16, commi 4 e 5 e art. 27, comma 2, destinata alle fondazioni bancarie che non svolgono direttamente un’attività nei settori di cui all’art. 1 del decreto cit., come modificato dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, non costituiscono aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, n. 1, TCE, in quanto non destinate ad “imprese” ai sensi di tale ultima disposizione.

Più in particolare, secondo la Commissione Europea le fondazioni bancarie non sono di per sè imprese ex art. 87, n. 1, TCE (ora 107 TFUE), nel senso che il semplice possesso di partecipazioni non è sufficiente per configurare un’attività di impresa, peraltro alla rigorosa condizione che esso sia limitato alla percezione dei dividendi ed all’esercizio dei diritti spettanti all’azionista.

Diversamente accade, invece, se vi sia anche gestione diretta o indiretta dell’impresa intestata ad altro soggetto ed, altresì, qualora le fondazioni intervengano direttamente in un’attività economica nella quale sono presenti scambi tra Stati membri, anche se nei settori nei quali la legge dà ad esse questa possibilità; onde, in detti casi, qualsiasi agevolazione fiscale che possa andare a beneficio di tali attività è considerata idonea a costituire aiuto di Stato e deve, in tal caso, essere notificata ai sensi dell’art. 88, paragrafo 3, TCE (ora 108 TFUE).

Sotto tale profilo, la Commissione, per quel che qui maggiormente rileva, ha affermato (cfr. il par. 44 della decisione) che “la gestione del patrimonio delle fondazioni – se vi provvede la fondazione stessa – non dà luogo alla prestazione di un servizio sul mercato. Secondo una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia in materia di IVA, una società holding, il cui unico scopo sia l’acquisizione di partecipazioni in altre imprese, senza interferire in modo diretto o indiretto nella gestione delle stesse, fatti salvi i diritti che la holding stessa possiede nella sua qualità di azionista, non svolge un’attività economica”.

Inoltre (par. 45), “la gestione del patrimonio non può essere considerata come un’attività autonoma e distinta da quella della destinazione dei suoi proventi alla promozione di azioni di utilità sociale. Gli utili derivanti dalla gestione del patrimonio non possono essere distribuiti ai membri e ai soci della fondazione e possono essere utilizzati solo per l’erogazione dei contributi. Di conseguenza la gestione interna del patrimonio non può essere qualificata come “attività economica” in sè, ma va vista nel contesto dell’attività complessiva delle fondazioni”.

La Commissione ha, peraltro, operato una essenziale precisazione, osservando che “le cose stanno altrimenti se la partecipazione si accompagna ad un intervento diretto o indiretto nella gestione delle imprese nelle quali è stata acquisita una partecipazione, fatti salvi i diritti spettanti alla holding stessa in quanto azionista. Un intervento del genere nella gestione delle imprese controllate deve essere considerato come un’attività economica nella misura in cui comporta la partecipazione ad un’attività di cessione di beni o di prestazione di servizi”.

E’ importante, altresì, ricordare che al par. 43 della decisione 2003/146 la Commissione ha individuato, quale elemento di valutazione rilevante, l’avere il D.Lgs. n. 153 del 1999, introdotto, per quanto riguarda il controllo di imprese commerciali da parte delle fondazioni bancarie, talune “salvaguardie specifiche”, analizzate ai punti 36-39 della medesima decisione: in particolare, la Commissione ha valorizzato (par. 37) il fatto che, quanto alle partecipazioni in istituti di credito, le fondazioni bancarie erano autorizzate a conservarle per un periodo di tempo limitato a decorrere dall’entrata in vigore del decreto n. 153/99, estensibile ai sensi della L. n. 448 del 2001, per un ulteriore periodo di tre anni a condizione che le partecipazioni nelle società bancarie conferitarie fossero affidate ad una società di gestione del risparmio (SGR) indipendente.

Nel caso in esame, invece, occorre prendere atto che la situazione è ben diversa, non incontrando la Fondazione CRT alcun limite nella conservazione o nell’accrescimento della partecipazione nella società bancaria.

5.3. Nello stesso senso, quanto all’aspetto della “gestione ed investimento del patrimonio”, la Commissione ha valorizzato il fatto che, in base al tenore del D.Lgs. n. 153 del 1999 (secondo il regime “ordinario”) le fondazioni “non possono utilizzare il proprio patrimonio per acquisire il controllo di imprese commerciali: il decreto n. 153 del 1999, ha introdotto salvaguardie specifiche al riguardo (cfr. sopra, considerando 36 e 39)”, rilevando, altresì, che la L. n. 448 del 2001, ha rafforzato la separazione tra le fondazioni bancarie e gli istituti di credito.

Anche sotto questo profilo, non può farsi a meno di notare che le modifiche apportate per le fondazioni di minori dimensioni ovvero operanti in regioni a statuto speciale, come l’odierna controricorrente, consentono loro di utilizzare il proprio patrimonio anche per mantenere o acquisire il controllo della società bancaria.

5.4. Anche la Corte di giustizia UE, con sentenza 10 gennaio 2006 resa nella causa C-222/04 (avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 234 TCE, da questa Suprema Corte con ordinanza n. 8319 del 23 marzo 2004, riguardante l’interpretazione degli artt. 12, 43 e segg., 56 e segg., 87 e 88 TCE, in relazione all’applicabilità alle fondazioni di talune misure fiscali, fra cui la L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis e il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 6), ha esaminato la decisione della Commissione n. 2003/146/CE, pur ritenendola non influente sulla decisione della questione ivi sollevata, in quanto essa era il risultato dell’analisi, da parte della Commissione, “della nuova disciplina delle fondazioni bancarie risultante dalla L. n. 461 del 1998, dal D.Lgs. n. 153 del 1999 e dalla L. n. 448 del 2001, disciplina che è entrata in vigore successivamente all’esercizio 1998, oggetto della causa principale”.

In tale dimensione ermeneutica, la sentenza ha, comunque, operato alcune puntualizzazioni estremamente rilevanti sul tema che ci interessa (par. 107 e seguenti).

In primo luogo, la Corte di giustizia ha richiamato la tesi, fatta propria anche dalla Commissione, secondo cui le fondazioni bancarie non sono “imprese” ai sensi del diritto comunitario della concorrenza e, quindi, in linea di principio non sono soggette al regime degli aiuti di Stato, poichè, “in mancanza di un’ingerenza nell’attività della società bancaria controllata”, l’attività consistente nel possesso e nella gestione del patrimonio svolta dalle fondazioni bancarie non comporta l’offerta di beni o la prestazione di servizi sul mercato.

In questa prospettiva, la Corte di giustizia ha puntualizzato che:

– secondo costante giurisprudenza, nell’ambito del diritto della concorrenza il concetto di “impresa” comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (v., in particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Hdfner e Elser, Racc. pag. 11979, punto 21, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband e a., Racc. pag. 1-2493, punto 46);

– costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato (v., in particolare, sentenze 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione/Italia, Racc. pag. 1-3851, punto 36, e 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a C-184/98, Pavlov e a., Racc. pag. 1-6451, punto 75). Nella maggior parte dei casi, l’attività economica è svolta direttamente sul mercato, ma non è escluso che essa sia il prodotto di un operatore in contatto diretto con il mercato e, indirettamente, di un altro soggetto che controlla tale operatore, nell’ambito di un’unica entità economica sostanziale.

A tale proposito, se il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica quando dia luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio nonchè, eventualmente, alla percezione dei dividendi, la situazione muta laddove “un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa”, dovendo essere considerato quale partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata.

“Dunque, anche tale soggetto dev’essere considerato, a tale titolo, un’impresa ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Diversamente, la semplice suddivisione di un’impresa in due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l’attività economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo, Intervenendo nella sua gestione, sarebbe sufficiente a privare della loro efficacia pratica le norme comunitarie sugli aiuti di Stato”, poichè ciò “consentirebbe al secondo ente di beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi dallo Stato o grazie a risorse statali, e di utilizzarli in tutto o in parte a beneficio del primo, sempre nell’interesse dell’unità economica costituita dai due enti”.

La Corte ha, quindi, trasferito tali principi nella disciplina che caratterizzava il caso allora in esame, ossia quella disciplinata della L. n. 218 del 1990 e dal D.Lgs. n. 356 del 1990 (come detto, diversa da quella del D.Lgs. n. 153 del 1999), nel cui ambito l’ingerenza di una fondazione nella gestione di una società bancaria poteva effettivamente realizzarsi, in quanto il ruolo delle fondazioni bancarie andava normativamente “al di là della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore”, dal momento che esse rendevano possibile “lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario”, con ciò dimostrando “l’esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie”.

In termini più generali, il principio enunciato dalla decisione in esame è racchiuso nell’affermazione che, “al fine di un’eventuale qualificazione come “impresa” della fondazione bancaria resistente nella causa principale, spetta al giudice nazionale valutare se quest’ultima non solo detenesse partecipazioni di controllo in una società bancaria, ma esercitasse inoltre effettivamente tale controllo intervenendo direttamente o indirettamente nella gestione di essa”, onde, “qualora ne sia affermata la natura di impresa, a titolo di controllo di una società bancaria e di ingerenza nella sua gestione (…) devono applicarsi, di conseguenza, le norme comunitarie sugli aiuti di Stato”.

5.5. Una trasposizione di tali principi nell’ambito della controversia in esame poèta a riconoscere che la CTR, con la sentenza impugnata, ha concluso per l’applicabilità del beneficio della detassazione delle plusvalenze previsto dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 13, senza valutare in alcun modo la compatibilità della concreta applicazione della norma ai principi dettati dalla normativa e dalla giurisprudenza dell’Unione Europea, alla luce degli accertamenti di merito compiuti: attività che, per converso, risultava ancor più ineludibile in considerazione dello specifico regime applicabile alla Fondazione contribuente, non obbligata alla dismissione della propria partecipazione ed, anzi, autorizzata a detenere senza limiti temporali anche partecipazioni di controllo e non soggetta a limitazioni quanto all’esercizio del diritto di voto: elementi da tenere nella dovuta considerazione al fine di valutare la permanenza di legami organici e funzionali fra i due enti.

La sentenza impugnata avrebbe dovuto, dunque, ai fini di una corretta applicazione del diritto interno, verificare, sulla base delle risultanze acquisite, le ragioni del (ri)acquisto delle partecipazioni di cui trattasi e stabilire se la loro disponibilità, nel periodo temporale di riferimento, abbia consentito alla Fondazione di intervenire, anche in modo indiretto (tenendo conto, ad esempio, di eventuali accordi in qualsiasi forma stipulati con altri soci e/o di rapporti di carattere finanziario e organizzativo: cfr. il D.Lgs. n. 156 del 1999, art. 6), nella gestione della società bancaria, concludendo, nel caso di accertamento positivo, nel senso che la Fondazione doveva essere considerata partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata e, quindi, doveva essere qualificata come impresa ai sensi dell’art. 107 TFUE (già 87 TCE), con le conseguenze illustrate (si richiamano, in ragione dell’analogo iter argomentativo, sia pure riferito alla disciplina ante D.Lgs. n. 153 del 1999, le decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte n. 27619/2006 e n. 1576/2009).

6. In conclusione, la CTR è incorsa in una forma di falsa applicazione della norma di legge, in quanto avvenuta senza previamente verificare la sussistenza di tutti i suoi presupposti di operatività. La prioritaria verifica da effettuare – e non effettuata -, invero, riguardava l’influenza che ha avuto la Fondazione nella gestione della società bancaria, attraverso la partecipazione azionaria detenuta.

Sotto questo profilo, dunque, si registra un vizio della sentenza della CTR che risulta apprezzabile sulla base dei principi affermati dalla CGUE e che converge con le considerazioni più sopra illustrate verso una pronuncia di annullamento dell’impugnata sentenza, con rinvio alla CTR del Friuli Venezia Giulia, in diversa composizione, la quale dovrà provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR del Friuli Venezia Giulia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2019 ed il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020

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