Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4993 del 02/03/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 4993 Anno 2018
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: CINQUE GUGLIELMO

ORDINANZA

sul ricorso 10603-2014 proposto da:
MOLINO FRANCESCO, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR
presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso d)ìVavvocatAL
i (Mt0
v – VINCENZO DI PALMA, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
2017
4751

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175, presso la
DIREZIONE AFFARI LEGALI DI POSTE ITALIANE,
rappresentata e difesa dall’avvocato VITA TOSCANO,
giusta delega in atti;

Data pubblicazione: 02/03/2018

- controricorrente –

avverso la sentenza n. 8835/2013 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/11/2013 R.G.N.

2273/2012.

N

RG. 10603/2014

RILEVATO
che, con la sentenza n. 8835/2013, la Corte di appello di Roma ha
confermato la pronuncia del 24.10.2011 dal Tribunale della stessa città
con cui era stata respinta la domanda proposta da Francesco Molino
nei confronti di Poste Italiane spa, diretta alla declaratoria di nullità
della clausola di durata apposta al contratto intercorso tra le parti,
stipulato ai sensi dell’art. 2 comma 1 bis D.Igs n. 368/2001, dal

che

avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione

Francesco Molino affidato a tre motivi;
che Poste Italiane spa ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte.

CONSIDERATO
che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) la violazione della
clausola n. 8.3 (di non regresso) dell’Accordo Quadro recepito dalla
Direttiva comunitaria 99/70CE; la violazione dei principi di non
discriminazione e di uguaglianza comunitaria; la violazione e falsa
applicazione dell’art. 1 comma 3 Reg. CE n. 1/03 del Consiglio del
16.12.2002; la violazione e falsa applicazione della legge comunitaria
n. 442/2000; la violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. (art. 360 cpc):
si sostiene, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che
la disciplina di cui all’art. 2 comma 1 bis D.Igs n. 368/2001 è in
contrasto con la normativa comunitaria; 2) l’erronea e falsa
applicazione dell’art. 2 comma 1 bis D.Igs n. 368/2001, in relazione
all’art. 1 stessa norma (art. 360 n. 3 cpc) per avere erroneamente
ritenuto la Corte territoriale che, nel contratto a termine stipulato ai
sensi dell’art. 2 comma 1 bis D.Igs n. 368/2001, non fosse necessaria
l’indicazione dell’organico aziendale in forza all’1.1.2010 e quella dei
contratti a tempo determinato stipulabili nella misura del 15%
consentito ed effettivamente stipulati al momento dell’assunzione; 3)
l’errata e falsa applicazione dell’art. 2 comma 1 bis del D.Igs n.
368/2001 con riferimento al rispetto alla clausola di contingentamento;
l’errata e falsa applicazione della legge (art. 2 comma 1 bis e D.Igs n.

I

14.7.2010 al 30.10.2010;

61/2000) con riguardo alle modalità di calcolo dell’organico aziendale e
delle assunzioni a termine effettuate, per avere la Corte territoriale
erroneamente considerato che non dovessero essere esclusi dal
computo dell’organico i lavoratori non addetti al servizio postale
universale e che sia l’accertamento della consistenza dell’organico
aziendale che del contingente delle assunzioni a termine dovessero
essere effettuati con il medesimo criterio del “full-time equivalent”;

che il primo motivo è infondato: infatti, le assunzioni a tempo

delle poste, che presentino i requisiti specificati dal comma 1 bis
dell’art. 2 del D.Igs ni 368/2001 (per Poste italiane spa ex lege), non
necessitano anche dell’indicazione delle ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi del comma 1 dell’art.

1

del medesimo D.Igs, trattandosi di ambito nel quale la valutazione sulla
sussistenza della giustificazione è stata operata “ex ante” direttamente
dal legislatore (Cass. Sez. Un. 31.5.2016 n. 11374);

che la disposizione dell’art. 2 comma 1 bis del D.Igs n. 368/2001,
aggiunta dall’art. 1 comma 558 della legge n. 266 del 2005, non
contrasta con l’ordinamento comunitario, in quanto, come rilevato
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-20/10 Vino), è
giustificata dalla direttiva 1997/67/CE, in tema di sviluppo del mercato
interno dei servizi postali, non venendo in rilievo la direttiva
1999/70/CE, in tema di lavoro a tempo determinato, neppure con
riferimento al principio di non discriminazione, che è affermato per le
disparità di trattamento fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori
a tempo indeterminato, ma non anche per le disparità di trattamento
fra differenti categorie di lavoratori a tempo determinato (cfr. Cass.
11.7.2012 n. 11659);

che il citato art. 2 comma 1 bis D.Igs. n. 368/2001 non contrasta
neanche con il divieto di regresso contenuto nell’art. 8 dell’Accordo
quadro allegato alla direttiva 99/70/CE, trattandosi di disposizione
speciale, introdotta accanto ad altra analoga previsione speciale, con la
quale il legislatore si è limitato ad operare una tipizzazione della
ricorrenza di esigenze oggettive, secondo una valutazione di tipicità
sociale (cfr. Cass. 26.7.2012 n. 13221);

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determinato, effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore

che, inoltre, correttamente la Corte distrettuale ha considerato che
l’art. 2 comma 1 bis del D.Igs n. 368/2001 fa riferimento
esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene
l’assunzione -quelle concessionarie di servizi e settori delle poste- e
non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la
ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale
con sentenza n. 241/2009, individuata nella possibilità di assicurare al
meglio lo svolgimento del “servizio universale” postale, ai sensi dell’art.

1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel
ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre
nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore
(cfr. Cass. 2.7.2015 n. 13609);
che deve essere escluso anche che Poste Italiane spa abbia realizzato,
in virtù di detta disposizione, un abusivo sfruttamento di posizione
dominante -in violazione dei Trattati- come unica impresa
concessionaria di servizi postali, come già affermato in precedenti
pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 5860/2017; Cass. n.
19688/2014; n. 19998/2014) alle cui condivisibili argomentazioni si
rinvia;
che il secondo motivo è parimenti infondato: in primo luogo, va
rimarcato che l’art. 2 comma 1 bis D.Igs. n. 368/2001, aggiunto
dall’art. 1 comma 558 della legge n. 266/2005, ha introdotto per le
imprese operanti nel settore postale, una ipotesi di valida apposizione
del termine autonoma e speciale rispetto a quelle stabilite dall’art. 1
comma 1 D.Igs n. 368/2001 (cfr. Cass. n. 26678/2016; Cass. n.
10590/2017) per cui ogni riferimento in ordine ad uno stretto
collegamento tra le due disposizioni circa il contenuto del contratto non
è condivisibile; in secondo luogo, deve osservarsi che l’art. 2 comma 1
bis citato, come già rilevato dalla Corte distrettuale, non richiede
alcuna indicazione specifica nei contratto di lavoro di elementi
riguardanti il numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al
10 gennaio dell’anno di assunzione, o del numero dei contratti a
termine stipulabili o stipulati (alla data di sottoscrizione del contratto)
nella misura del 15% consentito, né è prevista alcuna sanzione per la

3

1 comma 1 del D.Ig 22 luglio 1999 n. 261, di attuazione della direttiva

eventuale loro omissione; in terzo ed ultimo luogo, oltre al profilo
letterale sopra esposto, va sottolineato che le esigenze di trasparenza
e di controllo per le parti sociali e per i lavoratori medesimi, in ordine
all’osservanza di tale requisito, sono già assicurate dalla chiara ed
esatta determinazione legale della fattispecie, circa i riferimenti
temporali diretti ed indiretti e con riguardo ai parametri quantitativi
con la precisazione dei relativi criteri, sicché il problema della loro
verifica attiene ad un piano diverso, da effettuarsi in concreto in sede

oneri di allegazione e di riparto della prova;
che

il terzo motivo, infine; è anche esso infondato: invero, la

disposizione di cui all’art. 6 D.Igs n. 61/2000, concernente appunto tale
criterio e richiamata dalla ricorrente a fondamento della propria
doglianza, ha finalità di ordine generale e riguarda la consistenza
dell’occupazione aziendale come metro della forza economica
dell’azienda dipendente dalla quantità di lavoro svolto dal personale
occupato, mentre la norma sul contingentamento dei contratti a tempo
determinato non oltre la percentuale del 15% dell’organico aziendale,
riferito al 1° gennaio dell’anno in cui le assunzioni si riferiscono (art. 2
comma 1 bis D.Igs n. 368/2001), è specifica ed è riferita alla sola ratio
di limitazione del potere di assunzione a termine che costituisce pur
sempre un’eccezione rispetto alla regola del lavoro subordinato a
tempo indeterminato;
che tra le due norme non si pone un problema di abrogazione tacita
per incompatibilità non ricorrendo tra le stesse una contraddizione tale
da rendere impossibile la loro contemporanea coesistenza, proprio in
considerazione della differente ratio cui sono ispirate e del diverso
ambito applicativo cui sono destinate ad operare;
che avvalora, altresì, l’adozione del criterio cd. “per teste” l’uso nella
disposizione di cui all’art. 2 citato del termine

“assunzioni” che si

riferisce evidentemente ad un criterio numerico e non a quello di forza
economica connessa alla attività lavorativa espletata;
che ciò implica, come conseguenza, necessariamente un raffronto su
base omogenea con l’organico aziendale mentre un eventuale doppio
criterio (il primo sulla base del principio del full-time equivalent per

4

giudiziale, e da svolgersi con l’osservanza delle regole processuali sugli

determinare l’organico ed il secondo “per teste”) porterebbe ad una
comparazione dei fattori di riferimento irrazionale e non coerente con
la formulazione letterale della norma;

che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente, secondo il principio
della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di
legittimità;

che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel

ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in
favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che
liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella
misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli
accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, la Corte dà
atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.
13.
Così deciso nella Adunanza camerale del 29 novembre 2017.

testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi,

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