Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4973 del 25/02/2020

Cassazione civile sez. II, 25/02/2020, (ud. 24/09/2019, dep. 25/02/2020), n.4973

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11449-2018 proposto da:

L.S.A.M.L., rappresentata e difesa dall’Avvocato

ORLANDO MARIO CANDIANO ed elettivamente domiciliata, presso lo

studio dell’Avv. Giuseppe Picone, in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 2/B;

– ricorrente –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, presso

la quale domicilia ex lege in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 4732/2017 della CORTE d’APPELLO di BARI,

pronunciato il 19/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/09/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con ricorso L. n. 89 del 2001, ex artt. 2 e 3 depositato in data 8.3.2017, L.S.A.M.L. adiva la Corte d’Appello di Bari al fine di vedersi riconoscere l’equo indennizzo dell’ulteriore irragionevole durata (a suo dire 6 anni, 9 mesi e 7 giorni), ancora non risarcito, di un procedimento – instaurato prima davanti al TAR e conclusosi con declinatoria di giurisdizione nel 2009 (per il quale aveva già ottenuto il risarcimento) – riassunto dinanzi al Tribunale di Bari e qui concluso ex art. 307 c.p.c. per mancata riassunzione dopo la dichiarazione di incompetenza del Giudice adito, con provvedimento del 29.9.2016 che dichiarava l’estinzione del giudizio.

Con decreto n. 1887/2017 del 18.4.2017, il Giudice Designato della Corte d’Appello di Bari rigettava la domanda. Avverso tale decreto proponeva opposizione la ricorrente.

Il MINISTERO della GIUSTIZIA non si costituiva.

Con decreto n. 4732/2017, depositato in data 19.12.2017, la Corte d’Appello di Bari rigettava l’opposizione condannando la L.S. al pagamento di Euro 3.000,00 alla Cassa delle Ammende, a titolo di sanzione processuale.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione L.S.A.M.L. sulla base di motivi; resiste il Ministero con controricorso.

1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – Omessa motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5)”, giacchè la Corte territoriale non avrebbe trattato i motivi di opposizione. In particolare, nel primo motivo, la ricorrente aveva dedotto che la sua decisione di non proseguire la causa dopo la declinatoria di competenza era stata determinata dal fatto che i suoi colleghi, che avevano fatto con lei il ricorso di lavoro e avevano avuto una declinatoria di incompetenza, si erano visti rigettare la domanda nel merito nel 2016, per cui, considerato l’ottenimento del livello C3 in sede amministrativa, aveva deciso di non andare incontro a soccombenza per il livello C4. Ed aveva rilevato che il danno indennizzabile si fosse già verificato, prima della declinatoria di competenza, dal 2009 al 2016, considerato che la durata ragionevole di 3 anni era stata già calcolata nel precedente procedimento di equo indennizzo. Ove la Corte di merito si fosse pronunciata, la decisione sarebbe stata diversa, perchè l’estinzione del giudizio, avvenuta dopo il superamento del limite della durata ragionevole, non escludeva un danno che si era già verificato, che era presunto secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. SS.UU. n. 1338 del 2004; Cass. n. 1562 del 2106; Cass. n. 1479 2012). Osserva la ricorrente, inoltre, anche sulla questione dell’irretroattività della L. n. 208 del 2015, la Corte non aveva motivato; così come sul terzo motivo di opposizione riguardante il contrasto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c) sia con il diritto convenzionale che con il diritto interno, i quali evidenziavano come, ai fini dell’art. 6 CEDU, conta solo la durata del giudizio e non il suo esito, con irrilevanza della consapevolezza della scarsa possibilità di successo, salvo il caso di lite temeraria, che nella fattispecie sarebbe esclusa dal riconoscimento in sede amministrativa del livello C3).

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte di merito ha correttamente sottolineato che la L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 999, ha sancito, a decorrere dall’1.1.2016, l’entrata in vigore delle modifiche della Legge Pinto, tra cui il comma 2-sexies, aggiunto all’art. 2 (applicabile ratione temporis nel giudizio in esame), che ha introdotto la presunzione fino a prova contraria dell’insussistenza del danno, con inversione dell’onere della prova (v. decreto impugnato, pagina 2).

La Corte ha, peraltro, rilevato che, anche nel vigore della precedente disciplina, la chiusura del giudizio presupposto per inattività delle parti rendeva necessarie le allegazioni e prove in ordine alla sussistenza di un effettivo danno (Cass. n. 2843 del 2013); ma che tuttavia tali allegazioni e prove, nella fattispecie, non erano state mai offerte. Sicchè il legislatore del 2016 ha posto unicamente una presunzione semplice che riguarda soltanto la sua evenienza nel processo.

Sul punto, la Corte distrettuale ha dunque considerato che tutte le norme che disciplinano la prova sono norme strumentali-processuali, a prescindere dalla loro collocazione nel codice civile o di procedura, valendo ciò anche per le presunzioni semplici, come quella in esame; ed ha aggiunto che l’assenza di danno risultava evidente già dall’esame degli atti, dal momento che la ricorrente pretendeva di essere indennizzata per il ritardo di un giudizio presupposto che non avrebbe dovuto instaurare per mancanza di interesse (laddove già nel 2006, cioè tre anni prima della conclusione del giudizio dinanzi al TAR, la L.S. aveva perso interesse alla pronuncia, atteso che l’INPS le aveva già concesso l’inquadramento nella categoria C3 a cui era interessata; ciononostante, nel 2009, ella aveva riassunto il giudizio dinanzi al Tribunale del lavoro di Bari, reiterando la stessa domanda di annullamento a cui aveva ormai perso interesse) (decreto impugnato, pagina 4).

1.3. – Nel decreto impugnato, la Corte d’Appello ha tratto il proprio convincimento di insussistenza del danno per disinteresse della parte a coltivare il processo dalla dichiarazione di estinzione dello stesso per tardiva riassunzione.

Vero che questa Corte (Cass. n. 25542 del 2019) con decisione che il Collegio condivide e fa propria, ha rilevato che si tratta di deduzione la cui correttezza, nella disciplina antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, era stata più volte smentita dal giudice di legittimità, essendosi affermato che la dichiarazione di estinzione del giudizio per rinuncia o inattività delle parti non escludesse automaticamente la sussistenza del danno non patrimoniale in quanto, diversamente, sarebbe stata attribuita rilevanza ad una circostanza sopravvenuta, quale l’estinzione, sorta successivamente al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Ed è vero che questa Corte ha, del resto, costantemente affermato pure che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 già nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dapprima dalla L. n. 134 del 2012 e poi dalla L. n. 208 del 2015, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicchè, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale, a meno che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dall’interessato (cfr. ad esempio, Cass. n. 24269 del 2008; Cass. n. 25519 del 2010).

Altrettanto vero è, però, che si rivela tuttavia decisiva, nel ragionamento adottato nel decreto impugnato, l’incidenza dell’applicabilità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c, nel testo introdotto dalla L. n. 208 del 2015, il quale dispone che si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: “(…) estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c.”.

1.4. – Le ipotesi considerate nell’elenco di presunzioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonchè quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione.

L’accertamento dell’esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2-sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito.

1.5. – Al riguardo, peraltro, questa Corte ha messo in evidenza come la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 777, non contemplasse, per le modifiche introdotte dalla sua lett. d, ovvero appunto per l’art. 2-sexies, alcun regime transitorio, come invece stabilito dalla lett. m), intervenendo sulla L. n. 89 del 2001, art. 6 (cfr. in tal senso Cass. n. 2026 del 2017). La norma in esame è dunque entrata in vigore il 1 gennaio 2016 (L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 999).

Secondo consolidati principi giurisprudenziali (a far tempo quanto meno da Cass. sez. un. 2926 del 1967) il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio implica, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore.

Dunque, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), ha inciso, in particolare, sulla disciplina del riparto dell’onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, nel senso di contemplare una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il giudizio in caso di estinzione verificatasi ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c. E’ stata così posta, in favore dell’Amministrazione, in vista della statuizione giudiziale, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro legislativo previgente, che non può trovare applicazione unicamente nei processi di equa riparazione già iniziati al momento dell’entrata in vigore della nuova regolamentazione. Le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introdotte dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, sono, invero, idonee ad influire sul diritto della parte a dimostrare l’effettività del patema d’animo da riparare.

L’applicazione di tali disposizioni a domande di equa riparazione proposte prima del 10 gennaio 2016, e cioè prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, avrebbe ripercussioni in ordine al regime delle prove richieste nel procedimento di cui alla L. n. 89 del 2001, destando sospetti di irrazionalità e di illegittimità costituzionale sotto il profilo del principio di difesa ex art. 24 Cost. Si osserva in dottrina come ogni disposizione legislativa sopravvenuta, che introduca nuovi oneri probatori, oppure ripartisca diversamente tali oneri tra le parti del rapporto sostanziale, non può operare nell’ambito dei processi in corso, in quanto chiama l’uno o l’altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa, la quale implica anche la garanzia di poter fornire la prova e di “difendersi provando”. L’illegittimità dell’applicazione retroattiva dalla norma che introduca una presunzione discende, in definitiva, dalla considerazione dall’effetto sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento del promovimento della lite, non costituivano oggetto dell’onere della parte.

1.6. – Contenendo la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), introdotto dalla L. n. 208 del 2015, una presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, esso pone, dunque, una nuova disciplina della formazione e della valutazione della prova nel processo. In assenza di norme che diversamente dispongano, e perciò proprio in forza dell’art. 11 preleggi, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), senza che rilevi la natura sostanziale o processuale della disposizione, dando luogo a ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (e, quindi, anche nella fattispecie in esame, essendo stata la domanda presentata in data 8.3.2017).

2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Motivazione illogica e, quindi, inesistente (art. 360 c.p.c., n. 5). Violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione del D.L. n. 83 del 2012, art. 55 convertito in L. n. 134 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, poichè per la Corte territoriale la sanzione della L. n. 89 del 2001, art. 5-quater si giustifica con la manifesta infondatezza della domanda. Osserva la ricorrente che la motivazione sarebbe illogica in quanto la domanda non può considerarsi manifestamente infondata, considerato che l’INPS aveva riconosciuto il livello C3 rivendicato. In ogni caso, la Corte non decideva il quarto motivo di opposizione con cui si deduceva che andava rilevato l’elemento della colpa per irrogare la sanzione, come previsto dalla sentenza n. 23302 del 2014 del Supremo Collegio e che, comunque, la sanzione di Euro 3.000,00 era sproporzionata all’indennizzo richiesto e che l’art. 5-quater appariva incostituzionale per violazione dell’art. 24 Cost., in quanto la misura da Euro 1.000,00 ad Euro 10.000,00, svincolata da ogni criterio e affidata alla discrezionalità del Giudice, rendeva gravoso l’accesso alla giustizia.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Come detto, la Corte d’Appello ha esplicitamente rilevato che l’assenza di danno risultava evidente, dal momento che la ricorrente pretendeva di essere indennizzata per il ritardo di un giudizio presupposto che non avrebbe dovuto instaurare per mancanza di interesse (poichè, già nel 2006, cioè tre anni prima della conclusione del giudizio dinanzi al TAR, l’INPS le aveva già concesso l’inquadramento nella categoria C3 a cui era interessata; e ciononostante, nel 2009, ella aveva riassunto il giudizio dinanzi al Tribunale del lavoro di Bari, reiterando la stessa domanda di annullamento).

Ed ha ritenuto che, per tali motivi, il ricorso in esame risulti senz’altro manifestamente infondato, perchè il giudizio presupposto era stato riassunto in consapevole assenza di interesse; irrogando alla ricorrente la sanzione di Euro 3.000,00 in applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 5-quater (decreto impugnato, pagina 5) adottata nel rispetto dei limiti di legge.

Il giudice a quo si è, quindi, attenuto al principio secondo cui, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, l’abuso del processo posto in essere dalla parte comporta la condanna della stessa al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende.

Trattasi, all’evidenza, di una valutazione di merito coerente e congrua, come tale sottratta al sindacato di legittimità, in cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione un fatto, la cui esistenza sia soggetta alla rilevata sussistenza o meno di prove a sostegno, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

2.3. – Orbene, questa Corte (Cass. n. 23302 del 2014) ha precisato che, tra le modifiche introdotte al testo della L. n. 89 del 2001 dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. f), convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2012, vi è l’introduzione dell’art. 5-quater, che attribuisce al giudice il potere di condannare il ricorrente al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma di denaro non inferiore ad Euro 1.000 e non superiore ad Euro 10.000 allorquando la domanda di equa riparazione debba esser dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

Il giudice a quo si è, quindi, attenuto al principio secondo cui, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, l’abuso del processo posto in essere dalla parte comporta la condanna della stessa al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende.

2.3. – Non valgono ad indurre a conclusioni differenti le argomentazioni svolte dalla difesa della ricorrente.

Nella citata decisione di questa Corte (Cass. n. 23302 del 2014), pur condividendosi l’assunto secondo cui tale meccanismo sanzionatorio potrebbe risultare potenzialmente limitativo del diritto di accesso alla giustizia, deve tuttavia rilevarsi che la formulazione della disposizione è di per sè sufficientemente chiara; che dal tenore letterale della norma, infatti, emerge con evidenza che ciò a cui il legislatore ha attribuito rilievo decisivo è la repressione dell’uso abusivo e distorto del processo, prevedendo l’assoggettabilità a sanzione sia di coloro che azionano processi pur non avendo ab origine diritto all’equo indennizzo, sia di coloro che propongono ricorsi viziati da irregolarità non sanabili e ascrivibili a colpa della parte; che non può neanche dubitarsi della legittimità costituzionale della disposizione in esame, dal momento che la norma in questione non determina irragionevoli disparità di trattamento, nè lesione alcuna dei principi del giusto processo e del diritto di difesa.

Appare, pertanto, manifestamente infondata la questione sollevata in questa sede con riferimento all’art. 24 Cost., atteso che il criterio di discrimine nella applicazione del meccanismo sanzionatorio va individuato nella colpa del ricorrente, desunta dall’apprezzamento della causa di inammissibilità o di rigetto della domanda riparatoria. E, del pari, si rileva che non è certamente questa previsione normativa a determinare il diniego di accesso alla tutela indennitaria, trattandosi di norma del tutto coerente con la finalità di disincentivare, senza alcun automatismo, pretese avanzate dalle parti benchè temerarie o inosservanti, sul piano processuale, del dettato normativo; laddove, invero, l’introduzione di detto meccanismo potrebbe, all’opposto, ridurre il carico delle Corti territoriali consentendo una più sollecita e celere definizione delle controversie nelle quali venga fondatamente fatto valere il diritto al riconoscimento della violazione del termine di ragionevole durata del processo.

3. – Il ricorso va, dunque, rigettato. In considerazione della particolarità della fattispecie, derivante dalla assoluta novità delle questioni, si configura una eccezionale ragione per compensare integralmente tra le parti le spese del presente gudizio, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2. Non va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020

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