Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4971 del 25/02/2020

Cassazione civile sez. II, 25/02/2020, (ud. 24/09/2019, dep. 25/02/2020), n.4971

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27008-2016 proposto da:

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, in

Roma, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE dello STATO,

presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12, è legalmente

domiciliato;

– ricorrente –

contro

M.L., e M.V., rappresentati e difesi

dall’Avvocato BRUNO MANTOVANI, ed elettivamente domiciliate presso

il suo studio in ROMA, PIAZZALE CLODIO 14;

– controricorrenti –

e contro

M.A., M.A., M.C., M.F.,

M.O., M.R. e M.S.;

– intimati –

avverso il decreto n. 3376/2016 della CORTE d’APPELLO di ROMA,

pubblicato il 29/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/09/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con ricorso L. n. 89 del 2001, ex artt. 2 e 3 depositato in data 7.6.2011, M.A., + ALTRI OMESSI1 adivano la Corte di Appello di Roma al fine di vedersi riconoscere l’equo indennizzo per la non ragionevole durata di un procedimento civile, avente a oggetto lo scioglimento di comunione ereditaria, introdotto con atto di citazione notificato in data 31.12.1990 e definito con sentenza del Tribunale di Napoli, depositata in data 27.11.2009.

Si costituiva in giudizio il MINISTERO della GIUSTIZIA eccependo la tardività del ricorso L. n. 89 del 2001, ex art. 4 dovendosi far decorrere il dies a quo del termine decadenziale-semestrale dalla data di deposito della sentenza dichiarativa dello scioglimento della comunione ereditaria, con contestuale attribuzione congiunta delle quote ex art. 720 c.p.c., in quanto intervenuta su richiesta delle parti costituite e, quindi, non a carattere contenzioso.

Con il decreto n. 3376/2016, depositato in data 29.4.2016, la Corte di Appello di Roma, ritenuta l’infondatezza dell’eccezione di tardività sollevata dalla resistente, essendo il ricorso stato depositato il 7.6.2011 (entro i 6 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del procedimento presupposto, a seguito del decorso del termine c.d. lungo); ritenuto inoltre che (pretermesse le frazioni di semestre) il processo presupposto aveva avuto una durata complessiva di anni 19 e che, detratti anni 3 di durata ragionevole, il ritardo riparabile sarebbe stato pari ad anni 16; ritenuto altresì che l’indennizzo liquidabile sarebbe stato pari ad Euro 8.000,00 (Euro 500,00 per ogni anno di ritardo), in accoglimento del ricorso, condannava il Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo pari ad Euro 8.000,00 in favore di ciascun ricorrente, oltre alle spese di lite.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione il Ministero della Giustizia sulla base di due motivi; resistono L. e M.V. con controricorso; gli intimati M.A., + ALTRI OMESSI non hanno svolto difese.

1. – In via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per carenza dei requisiti di autosufficienza e specificità, poichè il ricorrente si è limitato ad inserire nel corpo dell’atto l’integrale trascrizione dei precedenti gradi di giudizio, avvalendosi di mere proposizioni di collegamento per dare conseguenzialità all’atto.

1.1. – L’eccezione non può trovare accoglimento.

1.2. – In effetti, l’atto risulta in gran parte formulato mediante l’assemblaggio di una pluralità di atti processuali (secondo la tecnica di redazione dei cosiddetti ricorsi “farciti” o “sandwich”), senza alcuno sforzo di selezione o rielaborazione sintetica dei loro contenuti. Tale eccesso di documentazione non soddisfa la richiesta alle parti di una concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione; a sua volta, viola il principio di sinteticità che deve informare l’intero processo (anche in ragione del principio costituzionale della ragionevole durata di questo); impedisce di cogliere le problematiche della vicenda; e comporta non già la completezza dell’informazione, ma il sostanziale mascheramento dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi, paradossalmente, in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso. La Corte di cassazione, infatti, non può avere l’onere di provvedere all’indagine ed alla selezione di quanto è necessario per la discussione del ricorso (sulla inammissibilità dei ricorsi formulati in tal modo è sufficiente qui rinviare alle considerazioni espresse da questa Corte nelle pronunce n. 784 del 2014; n. 22792 e n. 10244 del 2013; n. 17447 del 2012; n. 5698 del 2012, sezioni unite; n. 1380 del 2011; e n. 15180 del 2010).

Nella specie, tuttavia, può ritenersi che, nonostante il materiale inserimento nel ricorso, detta documentazione – in quanto facilmente individuabile ed isolabile – possa agevolmente espungersi dal ricorso stesso, riconducendolo perciò a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità configurato nel modello legislativo del giudizio per cassazione (Cass. n. 30473 del 2018). La menzionata riproduzione integrale e cumulativa di documentazione risulta, quindi, facilmente separabile dal resto e può considerarsi estranea rispetto all’esposizione dei fatti ed al ricorso. Diversamente, l’esposizione dei fatti non sarebbe “sommaria” come richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 che, al riguardo, pone un preciso obbligo al ricorrente, sanzionabile, come visto, con l’inammissibilità del ricorso. Pertanto, una volta escluso che la suddetta riproduzione integrale di documentazione faccia parte dell’esposizione dei fatti, l’ammissibilità del ricorso dovrà semmai essere valutata, in base agli ordinari criteri, motivo per motivo (Cass. n. 18363 del 2015; Cass. n. 12641 del 2017).

2. – Con il primo motivo, il Ministero lamenta la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 720 c.c., art. 789 c.p.c., comma 3, nonchè L. n. 89 del 2001, art. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, sottolineando che all’udienza del 13.6.2008 gli attori formulavano istanza congiunta, ai sensi dell’art. 720 c.c., di assegnazione dell’immobile caduto in successione, avendo evidentemente aderito al progetto divisionale. Trattandosi di assegnazione su base non contenziosa, si ritiene che, a fronte della non impugnabilità della decisione conclusiva di attribuzione delle quote, il termine decadenziale-semestrale L. n. 89 del 2001, ex art. 4 doveva decorrere dalla data di deposito della sentenza (27.11.2009).

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, il termine semestrale di decadenza per la proposizione della relativa domanda, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4 decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione che conclude il processo della cui durata si discute (Cass. n. 14970 del 2012; conf. Cass. n. 552 del 2017), interpretata in relazione alla specificità dei singoli procedimenti (Cass. n. 24412 del 2017).

Orbene, correttamente la Corte di merito, nel decreto impugnato, ha rilevato che i ricorrenti M. avevano formulato in data 7.6.2011 domanda di equa riparazione, in relazione al giudizio presupposto di divisione ereditaria svoltosi innanzi al Tribunale di Napoli, iniziato con citazione notificata il 31.12.1990 e definito con sentenza depositata il 27.11.2009; sicchè andava respinta l’eccezione del Ministero in ordine alla inammissibilità del ricorso perchè tardivamente proposto, essendo stato il ricorso proposto il 7.6.2011 entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza a seguito del decorso del termine lungo (di un anno e 46 giorni).

3. – Con il secondo motivo, il Ministero ricorrente lamenta la “Motivazione assente in relazione al parametro costituzionale ex art. 111 Cost., comma 2 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”.

3.1. – Il motivo è fondato.

3.2. – Va, in primo luogo, sottolineato come correttamente la difesa erariale abbia formulato la propria censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, atteso che questa Corte, a Sezioni Unite, ha avuto modo di affermare che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Che, pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. E che tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., S.U., n. 8053 del 2014).

Nello specifico giudizio di equa riparazione è altrettanto fermo il principio (Cass. n. 10100 del 2016) secondo cui si configura il vizio di assenza di motivazione nell’ipotesi in cui il provvedimento impugnato si sia limitato – a fronte di giudizio svoltosi in un arco temporale pluridecennale – a detrarre dalla durata complessiva del giudizio la durata ritenuta ragionevole, senza svolgere alcuna valutazione in ordine al comportamento delle parti e del Giudice e, più in generale, allo svolgimento del giudizio presupposto; risultando così integrato (anche nella specie) il vizio denunciato, non essendo desumibili dal provvedimento impugnato le ragioni in base alle quali la Corte di appello riteneva che l’intero lasso di tempo superiore alla durata ragionevole fosse addebitabile all’Amministrazione giudiziaria.

3.3. – Alla luce di siffatte affermazioni, il decreto impugnato risulta motivato solo in apparenza, non andando al di là di alcune considerazioni estrinseche circa la durata complessiva del giudizio presupposto (19 anni), nonchè circa la durata ragionevole di 3 anni (con riferimento a cause di media complessità). Inoltre, del tutto apodittico e immotivato si appalesa l’addebito di 16 anni di ritardo non ragionevole, anche se temperato dalla liquidazione in misura ridotta dell’indennizzo sulla base di Euro 500,00 per ogni anno di ritardo, giacchè non ogni ritardo avrebbe potuto fare carico alla resistente Amministrazione, essendo richiesta la valutazione circa la rilevanza del comportamento delle parti (nella fattispecie si trattava di procedimento con una pluralità di parti – per di più – litisconsorti necessarie). Infine, nella valutazione della complessità, la Corte di merito non ha tenuto (e dato) conto della natura del giudizio, vertente in materia successoria e delle difficoltà insorte in concreto e nulla ha riferito circa la peculiarità dell’iter processuale.

4. – Alla stregua delle considerazioni esposte, va rigettato il primo motivo e accolto il secondo. Il decreto impugnato deve essere cassato e la causa va rinviata, per nuovo esame, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che si uniformerà ai principi enunciati e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo. Accoglie il secondo motivo: cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020

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