Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4969 del 27/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 27/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.27/02/2017),  n. 4969

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8380/2015 proposto da:

M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAMERINO

15, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA VICINANZA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BORRI, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati EMANUELE DE

ROSE, LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI e CARLA D’ALOISIO, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 734/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 10/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato EMANUELE DE ROSE, che si riporta.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 1.12.2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“La Corte di appello di Firenze, con la impugnata decisione, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la originaria domanda proposta da M.R. intesa alla declaratoria di insussistenza dell’obbligo contributivo nella gestione commercianti in sede di opposizione a cartella esattoriale con la quale era ingiunto alla predetta il pagamento di Euro 5.239, 42 per contribuiti omessi, domanda accolta, invece, dal primo giudice, sul rilievo del carattere hobbistico dell’attività svolta dall’appellata.

Rilevava la Corte che l’attività svolta era riconducibile ad attività commerciale secondo la nozione dettata dal D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 4, comma 1 e che doveva ritenersi acclarata la sussistenza del requisito della professionalità, posto che per tale definizione non era prevista l’esclusività, essendone solo richiesta la sistematicità ed abitualità nello svolgimento dell’impresa economica. Osservava altresì che nella specie la natura professionale dell’attività commerciale svolta non poteva essere esclusa dal fatto che la stessa fosse limitata a brevi periodi nel corso dell’anno e che siffatta natura trovava conferma nella documentata iscrizione alla CCIA come ditta individuale.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la M., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, l’INPS.

Con il primo motivo, viene denunziata violazione dell’art. 2083 c.c., del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, dell’art. 2697 c.c., della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevandosi che la Corte del merito aveva ritenuto la sussistenza dell’obbligo contributivo sulla base dell’iscrizione alla Camera di Commercio della M. come ditta, trascurando di considerare come il nomen iuris di piccolo imprenditore commerciale, desumibile dalla suddetta iscrizione, pur potendo costituire un utile elemento di giudizio, doveva concorrere con ulteriori elementi, quali lo svolgimento di un’attività organizzata in maniera abituale, non saltuaria e occasionale, ma regolare e costante, con capitale destinato all’accrescimento della produttività dell’impresa necessaria per determinare utili ed incrementi. Si osserva che il lavoro aziendale ai fini della richiesta abitualità e prevalenza della partecipazione al lavoro doveva presentare il carattere della continuatività e non occasionalità e che l’INPS non aveva nè allegato nè fornito prova che le prestazioni della M. erano state svolte in forma di impresa e che i ricavi fossero idonei a generare incrementi e utili.

Con il secondo motivo, viene dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, sul rilievo che l’iscrizione alla gestione in oggetto era obbligatoria in presenza congiuntamente di tutti le condizioni di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, laddove nella specie non era stato valutato il tipo di attività svolta in maniera occasionale alla fiera antiquaria di (OMISSIS), pervenendosi, in contrasto con il dettato legislativo, all’affermazione che fosse sufficiente anche una sola delle condizioni previste della norma, e nello specifico quella di cui alla lett. d).

Il ricorso è infondato.

Ed invero, l’attività imprenditoriale svolta dalla M. è stata ritenuta, con accertamento di fatto, insindacabile nella presente sede, di natura professionale, anche in relazione alla iscrizione della ditta alla CCIA come impresa individuale, non potendo desumersi la violazione delle norme richiamate in forza di una dedotta saltuaria partecipazione a fiere di antiquariato, essendo stato l’ acquisto dei beni e l’organizzazione dei fattori produttivi ritenuti dalla Corte territoriale riconducibili, alla stregua di una valutazione complessiva del tipo di attività svolta – non sindacabile nella presente sede – a prevalente e abituale lavoro della titolare, idoneo a connotare in termini di professionalità l’attività svolta.

Quest’ultima ha pertanto evidenziato come, in coerenza con i dati normativi richiamati, non possa richiedersi ai fini considerati l’esclusività dell’attività e, rispetto al contenuto di tale affermazione, le censure svolte nella presente sede, che mirano a confutare la natura imprenditoriale dell’attività espletata dalla M. sul rilievo che la stessa era limitata a saltuarie partecipazioni a fiere dell’antiquariato, sono inidonee a scalfire l’iter argomentativo della pronunzia che attribuisce rilievo alla prevalenza del lavoro personale rispetto agli altri fattori della produzione e alla piena responsabilità dell’impresa, in conformità al principio che queste costituiscono altrettanti elementi previsti per l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, non potendo escludersi l’abitualità dell’attività imprenditoriale in relazione al carattere episodico della partecipazione a fiere.

Sicchè deve ritenersi che la Corte abbia fatto corretta applicazione della norma da ultima indicata e della interpretazione giurisprudenziale consolidata fornita della stessa, ogni altra censura dovendo ritenersi connotata da inammissibilità.

Ed invero, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115, 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. I poichè, in realtà, nessuna di queste tre situazioni è rappresentata nei motivi anzidetti, le relative doglianze sono mal poste.

E’ pur vero che la ricorrente si duole della attribuita rilevanza alla iscrizione della M. alla CCIA, assumendo che la stessa non avrebbe potuto avere la valenza probatoria che la Corte territoriale le ha attribuito. Tuttavia, mancano elementi giuridicamente rilevanti per escludere l’utilizzo ragionevole da parte dei giudici di merito del potere discrezionale attribuito dagli artt. 115 e 116 c.p.c., stante la indiscutibile valenza probatoria della documentazione in oggetto e la sua utilizzabilità nella complessiva valutazione degli elementi utili all’accertamento della sussistenza dell’obbligo contributivo.

Va, in ogni caso, aggiunto, (pianto ai suddetti profili di violazione di legge, che è costante l’insegnamento di questa Corte per cui il vizio di violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena di inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare i fondamento della denunziata violazione (così e per tutte, Cass. n. 16038/13).

E’ di tutta evidenza che, tanto con riguardo alle sopra indicate violazioni di legge, quanto con riguardo al preteso malgoverno delle risultanze istruttorie, pur sotto un’intitolazione evocativa dei casi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, parte ricorrente non ha formulato altro che pure questioni di merito, il cui esame è per definizione escluso in questa sede di legittimità.

Ugualmente deve essere disatteso il secondo motivo di impugnazione posto che ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, alla luce della interpretazione fornitane dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 8053 del 07/04/2014) il vizio denunziabile deve sostanziarsi nell’omesso esame di un fitto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Le Sezioni unite hanno specificato che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369c.p.c., comma 2, n. 4 – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

E’ evidente, quindi, che il motivo all’esame non presenti alcuno dei requisiti di ammissibilità richiesti dall’art. 360, comma 1, n. 5, così come novellato nella interpretazione fornitane dalle Sezioni unite di questa Corte. Ed infatti non lamenta l’omesso esame di un fatto storico, ma si risolve nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti e per l’erronea valutazione del significato di abitualità dell’attività imprenditoriale, che, come rilevato, non può escludersi unicamente per l’episodicità e saltuarietà degli eventi fieristici cui partecipava la M..

Si propone pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso”. Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Osserva il Collegio come il contenuto della sopra riportata relazione sia pienamente condivisibile siccome coerente alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ciò comporta la reiezione del ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

Attesa la proposizione del ricorso in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, vigente il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, deve rilevarsi, in ragione della declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’indicata normativa, posto a carico della ricorrente (cfr. Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).

PQM

Li Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condann4la M. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 2500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborsi delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2017

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