Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4964 del 25/02/2020

Cassazione civile sez. II, 25/02/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 25/02/2020), n.4964

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2356/2017 proposto da:

R.R., C.D., elettivamente domiciliati in ROMA

VIALE ANICIO GALLO 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCO CAPONI,

che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

CO.RO., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA TARO 56, presso lo studio dell’avvocato PAOLA RAZZANO, che

li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

T.A., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4429/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 8/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/09/2019 dal Consigliere GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Caponi Franco, difensore dei ricorrenti, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso e della memoria;

udito l’Avvocato Razzano Paola, difensore dei resistenti, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pronunciata al termine della discussione orale dell’udienza del giorno 8 luglio 2016, ai sensi dell’art. 351 c.p.c., comma 4, e art. 281 sexies c.p.c., la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’impugnazione proposta da R.R. e da C.D., nei confronti di Co.Te., + ALTRI OMESSI, avverso la decisione di primo grado che: a) aveva respinto la domanda di accertamento della legittimità del recesso operato dai primi, con riguardo al contratto preliminare del 25 maggio 2006, in tal modo modificata l’originaria domanda intesa ad ottenere la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.; b) aveva accolto la domanda riconvenzionale con la quale era stato chiesto dichiararsi la legittimità della ritenzione della caparra per l’inadempimento dei promissari acquirenti.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che il primo motivo di appello era inammissibile, in quanto insisteva nell’illustrare le ragioni per le quali gli appellanti avevano modificato l’originaria domanda, a seguito della difesa di Co.El. e di altri convenuti di non avere sottoscritto l’originario contratto preliminare, senza tener conto del fatto che il Tribunale aveva, in realtà, esaminato la domanda modificata; b) che, in realtà, con missiva del 7 giugno 2011, gli eredi di Co.Pi. che non avevano partecipato alla conclusione del contratto preliminare, avevano espresso per iscritto la volontà di vendere l’immobile alle medesime condizioni indicate nel contratto stesso, con la conseguenza che, da parte dei promittenti venditori, non sussisteva alcun inadempimento; c) che, contrariamente a quanto ritenuto dagli appellanti, il Tribunale aveva esaminato la domanda avente ad oggetto la legittimità del recesso, ritenendola infondata, dal momento che l’inserimento del lotto nel piano regolatore era avvenuto e che era stato rilasciato il certificato di destinazione urbanistica, con la conseguenza che era stato accertato l’adempimento dei promittenti venditori; d) che questi ultimi non avevano assunto l’obbligazione di garantire che la cubatura prevista dal nuovo strumento urbanistico sarebbe stata la stessa di quella prevista alla data del contratto preliminare.

3. Avverso tale sentenza il R. e il C. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resistono con controricorso Teresa Co., Iolanda Co., + ALTRI OMESSI, cui il ricorso è stato notificato in quanto antistatari.

I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 2932,1362 e 1372 c.c. nonchè vizi motivazionali, osservando: a) che, costituendosi in giudizio, Co.El. aveva contestato di avere mai sottoscritto il contratto preliminare e di avervi aderito successivamente; b) che, pertanto, il comportamento processuale dimostrava la volontà della Co. di non partecipare all’operazione; c) che il giudice di primo grado, una volta accertato che gli attori avevano modificato l’originaria domanda di adempimento nella domanda di accertamento della legittimità del recesso, avrebbe dovuto esaminare solo quest’ultima, fondata nel merito (e illustrata nella comparsa conclusionale trasmessa per via telematica in primo grado e non letta dalla Corte d’appello), e non anche la domanda riconvenzionale proposta da alcuni dei promittenti venditori, fondata sull’assunto inadempimento della promessa di acquisto, da ritenersi inefficace ab initio per carenza della parte plurisoggettiva; d) che la mancata sottoscrizione del contratto preliminare era determinante ai fini della decisione, dal momento che le controparti avevano promesso la vendita dell’intero fondo e non solo delle loro quote; e) che il vizio originario appena indicato, non sanato successivamente, non consentiva l’esame della domanda riconvenzionale proposta solo da taluni dei promittenti.

Le doglianze sono infondate.

Va, innanzi tutto, escluso che la Corte d’appello non abbia esaminato la domanda di recesso, con la conseguenza che del tutto irrilevanti, oltre che assertivamente prospettate, sono le critiche relative all’omessa considerazione dei rilievi svolti nella comparsa conclusionale e riproposti in ricorso.

La sentenza impugnata analizza, come detto e come si illustrerà infra, la pretesa, anche se affrontando i motivi successivi al primo.

Quanto alla doglianza che sembra investire la declaratoria di inammissibilità appunto del primo motivo di appello e che, in realtà, pare prospettare un omesso esame delle censure effettivamente articolate, si osserva, con carattere assorbente, che, secondo i ricorrenti, per effetto degli argomenti sviluppati, “il primo giudice avrebbe dovuto procedere a valutare la domanda di recesso” che “era determinante e preclusiva sia all’esame della domanda originale sia all’esame della domanda riconvenzionale”.

Sotto il primo profilo, è però sufficiente osservare che la Corte territoriale, la cui decisione assume rilievo in questa sede, ha esaminato la domanda di recesso; sotto il secondo profilo, i ricorrenti non riescono a individuare alcun fondamento normativo della conclusione nella quale insistono, ossia per quale ragione la ammissibile mutatio libelli dell’attore dovrebbe precludere l’ammissibilità dell’originaria domanda riconvenzionale.

Peraltro, nello stesso motivo di ricorso si individua successivamente altra questione: il vizio originario del consenso, derivante dalla mancata sottoscrizione del contratto preliminare da parte di tutti i comproprietari e non sanato successivamente, non avrebbe consentito l’esame della domanda riconvenzionale proposta solo da taluni dei promittenti venditori.

La prospettiva muta, perchè i ricorrenti, in tal modo opinando, individuano una causa di infondatezza – e non di inammisibilità – della riconvenzionale, discendente dalla inefficacia ab initio della promessa di vendita, non sanato da ratifica successiva.

La doglianza, tuttavia, non merita accoglimento.

Questa Corte ha chiarito che, in materia di proprietà, il principio generale che regola il regime giuridico della comunione pro indiviso è quello della libera disponibilità della quota ideale, sicchè è ben possibile che ciascun comunista autonomamente venda o prometta di vendere la sua quota, valido essendo il contratto, anche nell’ipotesi in cui il bene sia dalle parti considerato un unicum inscindibile, risultando in tal caso l’alienazione meramente inopponibile al comproprietario che non ha preso parte alla stipula dell’atto (v., in particolare, Cass. 11 marzo 2004, n. 4965, la quale, nel fare applicazione del suindicato principio, ha rigettato la doglianza della ricorrente concernente la mancata declaratoria da parte del giudice del merito della nullità del negozio e ha ritenuto corretta la qualificazione da quest’ultimo operata, in termini di preliminare di vendita di cosa parzialmente altrui a formazione progressiva, del contratto originariamente sottoscritto da una sola delle comproprietarie e recante la dichiarazione, inserita in epoca successiva, di consenso anche dell’altra comproprietaria; v. anche Cass. 30 gennaio 2019, n. 2701).

In questa cornice si è appunto mossa la sentenza impugnata che ha ritenuto valido il negozio, per poi cogliere nella disponibilità a concludere il contratto definitivo – manifestata da coloro che non avevano sottoscritto il contratto preliminare – l’adempimento dell’obbligo dei promittenti venditori di acquisirne il consenso.

Se, invece, i ricorrenti intendono contestare la possibilità del giudice di esaminare la domanda avente ad oggetto la legittimità della ritenzione della caparra confirmatoria, proposta da alcune soltanto delle parti del negozio, si osserva che l’unica esigenza che scaturisce dall’esame della disciplina positiva è quella del litisconsorzio.

Infatti, il recesso di cui all’art. 1385 c.c., comma 2, costituisce uno speciale strumento di risoluzione di diritto del contratto, collegato alla pattuizione di una caparra confirmatoria, analogo a quelli previsti dagli artt. 1454,1456 e 1457 c.c., che ha in comune con la risoluzione giudiziale non solo i presupposti (l’inadempimento di non scarsa importanza della controparte), ma anche le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto). Ne consegue che l’azione finalizzata all’accertamento della legittimità del suddetto recesso da un contratto con più parti deve essere esperita, similmente a quella di risoluzione giudiziale, nei confronti di tutti i contraenti, quali litisconsorti necessari, poichè un contratto unico non può divenire inefficace per alcuni dei soggetti che vi hanno partecipato e rimanere in vita per altri (v., ad es., Cass. 31 gennaio 2019, n. 2969).

Le ulteriori considerazioni dedicate alla rilevanza del successivo comportamento processuale di Co.El. saranno esaminate infra, con riguardo al secondo e al terzo motivo.

2. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 1399 c.c., prospettando anche, attraverso il richiamo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo.

Si osserva che, pur attribuendo, per mera ipotesi, valore di adesione postuma o di ratifica alla sottoscrizione della lettera del 7 giugno 2011, non v’era dubbio che il successivo disconoscimento della sottoscrizione del preliminare operato con la costituzione in giudizio della Co. e l’opposizione alla domanda di adempimento specifico avrebbero dovuto essere considerate come cause sopravvenute aventi l’effetto e la finalità di caducare la precedente manifestazione di volontà negoziale. La contraria conclusione della Corte territoriale comportava, tra l’altro, anche la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Con distinta articolazione si aggiunge che la violazione dell’art. 112 c.p.c. doveva essere apprezzata anche per il fatto che, a fronte di un unico atto plurisoggettivo, la volontà dei promittenti venditori di far valere l’inadempimento delle controparti non poteva che esprimersi unitariamente.

3. Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1478 e 148 c.c., nonchè vizi motivazionali, con riferimento alla ritenuta acquisizione del consenso da parte di coloro che non avevano sottoscritto il contratto preliminare, perchè non accompagnata da alcun cenno alla esplicita dissociazione operata dalla Co. nella comparsa di costituzione e risposta.

Osservano i ricorrenti che, se quest’ultima fosse stata considerata, i giudici di merito avrebbero dovuto prendere atto del mancato adempimento dei promittenti venditori all’obbligo di conseguire il consenso di quanti non avevano sottoscritto il contratto preliminare. Inoltre, nessun criterio logico giuridico consentirebbe di riconoscere valore cogente alla missiva del 2011, a fronte della negazione della volontà di trasferire il bene espressa con la comparsa di costituzione.

4. Il secondo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, per la loro stretta connessione logica.

Essi sono infondati.

Secondo la Corte territoriale, la missiva del 7 giugno 2011 ha espresso l’adesione degli eredi del comproprietario non firmatario del contratto preliminare all’impegno di vendere.

Ad avviso dei ricorrenti, i giudici di merito avrebbero dovuto prendere atto della volontà di Co.El. di non aderire al contratto in virtù del suo successivo comportamento processuale.

E’, tuttavia, appena il caso di evidenziare che l’interpretazione delle manifestazioni di volontà va apprezzata nel suo significato oggettivamente espressivo dell’intento negoziale.

Ora, per quanto concerne il profilo, appena accennato, relativo alla diversità tra il contenuto della volontà manifestata con l’adesione e il regolamento negoziale – con specifico riguardo alla cubatura che sarebbe stata promessa -, è appena il caso di rilevare che la sua infondatezza riposa sulle considerazioni che verranno svolte nell’esame del quarto motivo avente ad oggetto proprio la lettura fornita dalla sentenza impugnata, quanto all’oggetto dell’accordo e all’inesistenza di alcuna obbligazione di trasferire un bene con l’auspicata potenzialità edificatoria.

Quanto al rilievo della condotta processuale successiva – tradottasi, peraltro, non nella contestazione, alla stregua di quanto riportato in ricorso, di avere manifestato la volontà di trasferire il bene, ma nella affermazione che la promessa di vendita era stata sottoscritta solo da alcuni proprietari -, si osserva che la contraria soluzione espressa dalla Corte d’appello non si accompagna ad alcuna argomentata e specifica denuncia di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (tale non essendo la mera menzione dell’art. 1362 c.c., nella rubrica del primo motivo).

D’altra parte, il consenso contrattuale non può essere revocato unilateralmente.

Peraltro, la violazione dell’art. 112 c.p.c., prospettata dal momento che la domanda riconvenzionale non è stata proposta da tutti i convenuti è infondata, per le ragioni ricordate nell’esame del primo motivo: l’unitarietà del bene promesso in vendita richiede l’integrità del contraddittorio nel giudizio destinato a far venire meno gli effetti del contratto, ma non anche una unitaria iniziativa dei singoli componenti la parte soggettivamente complessa.

5. Con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, artt. 1368,1371,1427 e 1428 c.c., art. 1429 c.c., n. 2, e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio di discussione, rilevando: a) che le obbligazioni previste dal contratto preliminare non si esaurivano nell’inserimento del lotto nel piano regolatore generale e nell’ottenimento del certificato di destinazione urbanistica (peraltro mai conseguito), ma includevano anche il trasferimento della potenzialità edificatoria indicata nel contratto preliminare, in funzione della quale era stato determinato il prezzo convenuto; b) che, al contrario, le scelte urbanistiche successive avevano condotto ad attribuire una potenzialità edificatoria molto inferiore, come risultava dallo stesso certificato di destinazione urbanistica prodotto dai promittenti venditori; c) che l’errore sulla potenzialità edificatoria del terreno configurava un errore sulla qualità dell’oggetto della prestazione, che avrebbe dovuto condurre al rigetto della domanda riconvenzionale.

La doglianza è inammissibile, nella parte in cui denuncia un vizio motivazionale che, a dispetto del cenno all’omessa esame di un fatto decisivo, si traduce in una critica all’apparato motivazionale che sorregge la lettura operata dalla Corte del contenuto del regolamento contrattuale.

Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come novellato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

D’altra parte, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, dal quale non vi è ragione di discostarsi, quello secondo cui: a) l’interpretazione del contratto e, in genere, degli atti di autonomia privata, costituisce attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione; b) il motivo di ricorso con il quale si sostenga il malgoverno delle regole interpretative deve contenere non solo l’astratto riferimento agli articoli del codice che le sanciscono, ma altresì la specificazione dei canoni in concreto violati; c) va altresì, in ogni caso, precisato il modo in cui il giudice se ne è discostato e, quindi, le distorsioni che in concreto ha prodotto la denunciata violazione (v., di recente, Cass. 21 maggio 2019, n. 13603) Nella specie, i ricorrenti reiterano la propria interpretazione del contenuto del contatto, senza rispettare i criteri sopra ricordati.

D’altra parte, il cenno finale alla rilevanza dell’errore essenziale, costituisce tema assolutamente nuovo, prospettato per la prima volta in sede di legittimità.

6. Va, infine, osservato che erroneamente il ricorso è stato notificato in proprio ai difensori antistatari.

Per consolidato orientamento di questa Corte, il procuratore antistatario, in cui favore siano state distratte le spese di lite, non assume, nel successivo giudizio di impugnazione, la qualità di parte, salvo che si controverta proprio sulla concessione della distrazione. (v., ad es., Cass. 27 aprile 2016, n. 8428).

7. In conclusione, in ricorso va rigettato e i ricorrenti condannati, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, alla luce del valore e della natura della causa nonchè delle questioni trattate.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento, in favore di Co.Te., Co.Io., P.E., Co.Ro., Co.Ba., Co.Pi., Co.El., F.G., T.G., nonchè anche gli avvocati Silvia Steffano, Tommaso Carboni, Patrizia Vespaziani, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020

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