Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4946 del 24/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 24/02/2021, (ud. 07/10/2020, dep. 24/02/2021), n.4946

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7169/2013 R.G. proposto da:

DUEMILAUNO S.R.L., (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.

Gioacchino Barbera, con domicilio eletto in Roma, via Laura

Mantegazza n. 24, presso il Dott. Marco Gardin;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, in via dei Portoghesi

12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/10/12 della Commissione tributaria

regionale della Puglia depositata il 17 luglio 2012 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 7 ottobre 2020

dal Consigliere Dott.ssa Laura Mancini.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il 1 ottobre 2010 l’Agenzia delle entrate notificò alla Duemilauno s.r.l. l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale, in relazione all’anno di imposta 2007, aveva rideterminato il reddito di impresa ai fini IRES e il valore della produzione netta ai fini dell’IRAP ai sensi della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30 sul presupposto che la predetta società non aveva presentato istanza di disapplicazione della disciplina antielusiva, nè aveva superato il test di operatività di cui alla disposizione citata.

Avverso l’atto di accertamento la contribuente propose impugnazione davanti alla Commissione tributaria provinciale di Bari, assumendo che la disciplina sulle società di comodo non poteva, nella specie, trovare applicazione in ragione del fatto che nell’anno in contestazione l’attività di impresa non era stata ancora avviata.

La Commissione tributaria provinciale con sentenza n. 156/21/11 del 9 giugno 2011 accolse il ricorso.

2. Avverso tale pronuncia l’Agenzia delle entrate propose appello davanti alla Commissione tributaria regionale della Puglia, la quale, con la sentenza n. 53/10/12 depositata il 17 luglio 2012, in riforma della decisione di primo grado, accolse il gravame proposto dall’Amministrazione finanziaria.

I giudici d’appello sostennero che la società contribuente non aveva esperito l’interpello disapplicativo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, da considerarsi “quale unica modalità per affrancarsi dall’applicazione delle norme sul reddito minimo presunto, nonchè dalle penalizzazioni in materia di IVA”, trattandosi di “adempimento ineludibile e non di facoltà”.

Inoltre, a giudizio della commissione regionale, al contribuente non era consentito di fornire in corso di accertamento la prova contraria alla presunzione legale di “non operatività”, posto che la L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 109, lett. a), applicabile nel caso di specie, aveva eliminato il riferimento alla “prova contraria”, originariamente contenuto nella L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1.

3. Contro tale pronuncia propone ricorso la società Duemilauno s.r.l. affidato a due motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si denuncia la violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, e del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, commi 15 e 16, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, anche in relazione all’art. 24 Cost..

Assume, in particolare, la società ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici d’appello, il contribuente può impugnare l’avviso di accertamento al fine di far accertare l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione della disciplina antielusiva sulle società “di comodo”, anche senza aver previamente presentato istanza di interpello disapplicativo, non costituendo l’esercizio di tale ultima prerogativa una condizione indefettibile per accedere alla tutela giurisdizionale, ma soltanto il presupposto per l’avvio del procedimento di verifica nell’ambito del quale l’interessato è ammesso a dimostrare, in via preventiva, l’inesistenza di una finalità elusiva, pur ricorrendo gli indici indicati nella L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1.

1.1. Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 109, lett. a), e della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, anche in riferimento all’art. 24 Cost..

Secondo la ricorrente, la Commissione tributaria regionale, affermando che la soppressione, ad opera della L. n. 296 del 2006, cit. art. 1, comma 109, lett. a), dell’inciso “salva prova contraria” contenuto nella L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, accede ad una ricostruzione interpretativa che, impedendo al contribuente di dimostrare in giudizio le situazioni oggettive di carattere straordinario di cui all’art. 30, comma 4-bis, legge cit., idonee a vincere la presunzione legale di non operatività, si pone in contrasto con il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost..

2. I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della stretta connessione che li avvince, sono fondati.

2.1. Come più volte precisato da questa Corte, la disciplina delineata dalla L. n. 724 del 1994, art. 30 mira a disincentivare la costituzione di società “di comodo”, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale) (ex multis, Cass. Sez. 5, 13/5/2015, n. 21358; Cass. Sez. 6-5, ord. 28/9/2017, n. 26728).

Il disfavore dell’ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario – ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria – trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato.

La finalità di deterrenza è perseguita attraverso la fissazione di standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali, il cui mancato raggiungimento costituisce indice sintomatico del carattere non operativo della società (v., ex multis, Cass. Sez. 5, 24/2/2020, n. 4850, non massimata).

La presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza per la quale non vi è, di norma, effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass. Sez. 5, 10/3/2017, n. 6195, in motivazione) ed ha carattere relativo.

In particolare, secondo la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1 una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato, attraverso il c.d. test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.

Tale presunzione può, tuttavia, essere vinta mediante la dimostrazione, il cui onere grava sul contribuente, di situazioni oggettive – ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore – che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma che abbia reso impossibile il conseguimento del volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri.

2.2. Il carattere relativo della presunzione era espressamente sancito nella versione dell’art. 30 risultante dall’intervento modificativo operato dal D.L. 11 marzo 1997, n. 50, art. 4 convertito, con modifiche, dalla L. 9 maggio 1997, n. 122, il quale ha, appunto, disposto che, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, prima parte, le società ivi indicate “si considerano, salva la prova contraria, non operative se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano (…)”.

Tale formulazione, compreso il riferimento alla prova contraria, non è variata all’esito della modifica apportata dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 15, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, il quale ha, tuttavia, inserito, nell’art. 30 in esame, il comma 4-bis, che disciplina l’interpello disapplicativo, prevedendo che “(…) in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonchè del reddito determinati ai sensi del detto articolo”, “la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8” (lo stesso art. 37-bis è stato invero successivamente abrogato dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, comma 2, ma le disposizioni che lo richiamano devono intendersi comunque riferite all’interpello di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis).

Successivamente, con la L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 109, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla L. n. 724 del 1994, art. 30 sopprimendo, nella prima parte del comma 1, il riferimento alla prova contraria ed eliminando, nel comma 4-bis, la specificazione del “carattere straordinario” originariamente riferita alle “oggettive situazioni” che abbiano reso impossibile il conseguimento dei ricavi e degli ulteriori indicatori previsti dalla norma.

2.3. La riformulazione operata dai richiamati interventi normativi – dalla quale è scaturito il testo dell’art. 30 nella specie applicabile ratione temporis – e, in particolare, la soppressione del riferimento alla prova contraria interessa esclusivamente il c.d. test di operatività disciplinato dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, il quale, giova ribadirlo, si fonda su una correlazione tra il valore di alcuni dei beni risultanti dall’attivo patrimoniale (immobilizzazioni, titoli e crediti) e l’ammontare di ricavi, variazioni delle rimanenze e proventi non straordinari del conto economico.

Il mancato superamento della “soglia di operatività” indotta da tali parametri costituisce presunzione legale della natura non operativa della società contribuente e comporta l’applicazione della disciplina antielusiva.

Alla presunzione legale di non operatività sancita dall’art. 30, comma 1 il legislatore correla una seconda presunzione di reddito minimo (art. 30, commi 3 e 3-bis), in ossequio al principio economico dell’inerenza dei costi (Cass., Sez. 5, 20/4/2018, n. 9852; Cass., Sez. 5, 28/5/2020, n. 10102).

Orbene, il contenuto precettino dell’art. 30 nella versione anteriore alla soppressione, ad opera della L. n. 296 del 2006, dell’inciso “salvo prova contraria”” comportava un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale era ammesso a fornire, oltre alla prova positiva del superamento delle soglie, la prova dell’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, a sè non imputabili, che avessero impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto (Cass. Sez. 5, 28/5/2020, n. 10102; Cass. Sez. 5, 10/3/2017, n. 6195; Cass. Sez. 5, 21/10/2015, n. 21358).

Si era, dunque, al cospetto di una triplice presunzione legale relativa, la prima delle quali faceva derivare dall’accertamento dell’esistenza degli elementi patrimoniali indicati nel comma 1 dell’art. 30 il fatto ignoto dell’inoperatività della società; la seconda, correlava all’inoperatività l’impiego elusivo dello schema societario per la gestione di patrimoni e la terza faceva scaturire dall’inoperatività la percezione di un reddito minimo.

La prima di tali presunzioni era superabile attraverso la dimostrazione dell’insussistenza degli elementi patrimoniali valorizzati dall’Amministrazione finanziaria ai fini del test di operatività o la sussistenza di un’effettiva attività imprenditoriale, la seconda mediante la prova di una situazione oggettiva e non imputabile all’interessato che giustificasse la scarsità dei ricavi e del reddito.

2.4. Il Collegio osserva che, trattandosi di snodi di un unico procedimento inferenziale congegnato dal legislatore al fine di agevolare l’accertamento del reddito in presenza di indici di elusione, è da escludersi che l’eliminazione dell’espressa previsione della facoltà di prova contraria nell’ambito del cd. test di operatività abbia mutato la natura della presunzione legale.

Infatti, alla soppressione dell’inciso “salvo prova contraria” non si è accompagnata l’esplicita previsione dell’inammissibilità della prova contraria, con la conseguenza, che, in linea con l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 200 del 15 luglio 1976) – secondo il quale, a fronte del diritto del legislatore, volto a salvaguardare un interesse effettivamente meritevole di tutela, di formulare “previsioni logicamente valide ed attendibili, non è peraltro consentito trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite, senza la possibilità che si ammetta la prova del contrario e si salvaguardi, quindi, accanto all’esigenza indiscutibile di garantire l’interesse della pubblica finanza alla riscossione delle imposte, il ricordato ed altrettanto indiscutibile diritto del contribuente alla prova dell’effettività del reddito soggetto ad imposizione” -, deve ritenersi che la predetta soppressione non abbia avuto alcuna effettiva incidenza sulla portata del meccanismo presuntivo delineato dalla norma.

Deve, in definitiva, ritenersi che ie modifiche apportate dalla L. n. 296 del 2006 non hanno eliminato la possibilità per il contribuente di vincere la presunzione legale della finalità elusiva delle società non operative attraverso la prova contraria qualificata – contenutisticamente tipizzata alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, – della ricorrenza di una situazione oggettiva a sè non imputabile che ha reso impossibile il conseguimento di ricavi e la produzione di reddito entro la soglia minima stabilita ex lege.

3. Alla stregua di tale esegesi, non può riconoscersi validità neanche all’assunto, sostenuto dall’Amministrazione finanziaria e condiviso dai giudici d’appello, secondo il quale, in seguito alla modifica apportata all’art. 30 dalla legge finanziaria per il 2007, il contribuente è ammesso alla prova contraria solo a condizione del preventivo esperimento del rimedio precontenzioso dell’interpello disapplicativo.

Osserva, per contro, il Collegio che la riformulazione operata dai richiamati interventi normativi – d’alla quale è scaturito il testo dell’art. 30 applicabile ratione temporis al caso di specie – non ha fatto assurgere l’interpello disapplicativo a condizione di procedibilità e di limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente, nè ha comportato l’elisione della facoltà, per quest’ultimo, di superare la presunzione legale di “non operatività” (sancita dal comma 1 della disposizione in esame) mediante la dimostrazione in giudizio di circostanze oggettive e non imputabili che abbiano reso impossibile il conseguimento di ricavi.

Pertanto, conserva validità il principio, più volte enunciato da questa Corte, secondo il quale, “in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), sia che la presentazione dell’interpello e la conseguente risposta negativa dell’Amministrazione ha natura di parere, al quale il contribuente può non adeguarsi, senza doverlo necessariamente impugnare, per evitarne la cristallizzazione, potendo comunque impugnare gli atti successivi di applicazione delle disposizioni antielusive (Cass. 28/07/2017 n. 18807; Cass. 27/03/2015, n. 6200) non impediscono al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico impositivo che gli venga successivamente notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva; sia che egualmente, in caso in cui l’interpello non sia stato proposto, il contribuente potrà comunque richiedere in sede giurisdizionale l’accertamento dei presupposti per la disapplicazione della disciplina antielusiva” (Cass. Sez. 5, ord. 28/5/2020, n. 10158; v. anche Cass. Sez. 5, ord. 15/03/2019, n. 7402; Cass. Sez. 5, 12/05/2012, n. 17010; Cass. Sez. 5, 28/7/2017, n. 18807, in materia di IVA, ivi citate).

4. La sentenza impugnata, non essendosi attenuta ai suesposti principi, va, dunque, cassata e la causa va rinviata per nuovo esame alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021

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