Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4934 del 27/02/2017


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Cassazione civile, sez. II, 27/02/2017, (ud. 23/11/2016, dep.27/02/2017),  n. 4934

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16856/2012 proposto da:

C.A., C.F. (OMISSIS), C.L. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 6, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO D’AGOSTINO, rappresentati e difesi

dall’avvocato ALFONSO TORDO CAPRIOLI;

– ricorrenti –

contro

B.S.B., C.F. (OMISSIS), CA.LU. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO BRIGUGLIO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIANMARCO GORIETTI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 383/2011 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 02/08/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato Tordo Capriolo Alfonso difensore dei ricorrenti che

si riporta ai motivi richiamando le conclusioni già assunte in

atti;

udito l’Avv. Gorietti Gianmarco difensore dei controricorrenti che si

riporta anch’egli;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.S.B. e Ca.Lu. convennero in giudizio C.A. e C.L. al fine di far luogo al consenso mancante, ai sensi dell’art. 2932 c.c., essendosi resi promissari acquirenti di un appezzamento di terreno con casa rurale, preso atto dell’inadempimento dei promissari alienanti – i quali, oltre all’acconto in contanti, avevano ricevuto in consegna taluni stacchi di terreno, ceduti dai promissari acquirenti in permuta -, rimasti sordi alle diffide, offrendo di versare il residuo prezzo ancora dovuto. I convenuti, adducendo che la planimetria allegata al contratto preliminare non consentiva d’individuare con esattezza i confini, manifestarono il loro consenso all’invocata statuizione solo previa determinazione del confine e pagamento del prezzo. I medesimi, inoltre, avanzarono domanda di condanna risarcitoria.

Con sentenza parziale depositata il 31/1/2002 il Tribunale di Perugia pronunciò sulla domanda ex art. 2932 c.c.. Con la sentenza definitiva, depositata il 10/1/2008, rigettò entrambe le domande risarcitorie.

La Corte d’appello di Perugia, con sentenza depositata il 2/8/2011, disatteso l’appello proposto da C.A. e C.L. avverso la sentenza definitiva di primo grado, in accoglimento di quello incidentale avanzato da B.S.B. e Ca.Lu., condannò i primi due al risarcimento del danno per il radicale deterioramento dell’immobile promesso in vendita e per il mancato utilizzo fruttifero dello stesso.

Avverso quest’ultima decisione ricorrono per cassazione C.A. e C.L.. Resistono con controricorso B.S.B. e Ca.Lu.. I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo il primo motivo i ricorrenti allegano violazione degli artt. 112, 342 e 345 c.p.c., nonchè vizio motivazionale su un punto controverso e decisivo.

Nell’atto introduttivo del giudizio i primigenei attori avevano chiesto il risarcimento del danno “per effetto della ritardata stipula del contratto definitivo”; avevano, poi, rassegnato nel giudizio di primo grado le seguenti conclusioni. “Accertare e dichiarare la responsabilità e/o colpa dei convenuti C.A. e C.L. in solido tra loro, per la mancata stipula del contratto definitivo e quindi la loro responsabilità in solido per tutti i danni subiti dagli attori in conseguenza della mancata stipula del contratto definitivo (…)”. Nell’appello incidentale, avevano chiesto la condanna al risarcimento del danno derivante dalla ritardata stipula ed anche a motivo “(…) del mancato tempestivo, conseguimento (…) della proprietà e del godimento degli immobili promessi in vendita (…)”. A parere dei ricorrenti tra le conclusioni rassegnate in primo grado e quelle rassegnate in appello v’è una differenza sostanziale, tale da integrare la mutatio libelli, non consentita, specie in grado d’appello (art. 345 c.p.c.). Pur ammettendosi una “tendenziale unitarietà del diritto al risarcimento del danno” in materia di responsabilità contrattuale, da cui processualmente deriva la non frazionabilità del giudizio di liquidazione, nel caso di specie emergeva una evidente distonia tra il chiesto ed il pronunciato e una violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum. Al fine di meglio chiarire l’errore nel quale era incorsa la Corte di merito i ricorrenti riproducono quanto da loro eccepito all’udienza del 25/6/2009: “(…) L’appello incidentale proposto da controparte è inammissibile in quanto integra nuova domanda; infatti in primo grado si sono chiesti (…) danni per la ritardata stipula del definitivo, mentre oggi vengono chiesti danni per il mancato conseguimento della proprietà e del godimento degli immobili; viene anche richiesta la valutazione di eventuali costi di manutenzione dell’immobile (…)”.

La Corte non reputa sussistere l’allegata rilevante discrasia e, pertanto, il motivo va disatteso. Invero, la fonte del rivendicato danno resta sempre e soltanto il colpevole inadempimento dei promittenti alienanti. Pretendere di cogliere una sostanziale difformità tra il richiedere il ristoro dei danni “per la ritardata stipula del definitivo” o “per il mancato conseguimento della proprietà e del godimento degli immobili” soddisfa esclusivamente aneliti ad un formalismo esacerbato, ben distante dal doveroso rispetto delle forme, funzionale ad assicurare la garanzia del contraddittorio. La prima espressione, invero, racchiude in forma ellittica la seconda, la quale subisce una maggiore opera di specificazione (senza tuttavia che resti mutato il senso e il perimetro della domanda), anche tenuto conto dell’ulteriore incancrenirsi della situazione col passare del tempo, che trasforma il ritardo in un conclamato mancato conseguimento della proprietà.

Con il secondo motivo i ricorrenti allegano violazione degli artt. 2697 e 1385 c.c., nonchè vizio motivazionale su un punto controverso e decisivo.

La Corte perugina aveva affermato che il danno era da ritenersi in re ipsa, come si trattasse del pregiudizio patito dal proprietario ad opera dell’occupante senza titolo, ignorando che, nella fattispecie i promissari acquirenti avrebbero acquisito una tale qualifica solo con il passaggio in giudicato della sentenza emessa ex art. 2932 c.c.. Di conseguenza, spettava loro dare la prova dell’an, del quantum e dl nesso di causalità.

La doglianza non è fondata.

Correttamente la sentenza impugnata stima figurativamente il danno, trattandosi di pregiudizio che trova scaturigine nell’inadempimento: se il bene fosse stato consegnato come da contratto, avrebbe potuto essere sfruttato economicamente dai promissari acquirenti e da costoro adeguatamente manuntenuto.

Per contro sulla parte promittente grava l’obbligo di ben custodire il bene da consegnare (artt. 1177 e 1477 c.c.).

Costituisce principio consolidato l’affermazione che l’impedimento non iure al godimento di un immobile, bene normalmente fruttifero, secondo l’id quod plerumque accidit, costituisce fonte di danno in re ipsa, salvo prova contraria (Cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 16670 del 9/8/2016, Rv. 641485; Sez. 3, n. 9137 del 16/4/2013, Rv, 626051; Sez. 2, n. 20823 del 15/10/2015, Rv. 636674; contra si riscontra l’isolato precedente costituito da Sez. 3, n. 15111 del 15/6/013, Rv. 626875). Nè appare strumentale ad una effettiva esigenza di differenziazione distinguere, a tal fine, tra la condotta di colui che senza averne titolo occupa l’immobile altrui e colui il quale, del pari senza titolo, indugia nel consegnare l’immobile al legittimo avente diritto; il quale può ben essere legittimato sulla base di un diritto sorto per mezzo di un negozio ad effetti obbligatori, quale il preliminare.

Con il terzo motivo si deduce violazione degli artt. 1223, 1225, 1226 e 1465 c.c., nonchè artt. 345 e 112 c.p.c., oltre al vizio motivazionale su un punto controverso e decisivo.

La Corte di Perugia aveva riconosciuto un risarcimento, ammontante a 22.000 Euro per il deprezzamento dell’immobile rurale e il c.d. danno figurativo da mancato godimento, quantificato in 2.800 Euro l’anno. Plurime sono le osservazioni mosse dai ricorrenti: a) la sentenza aveva illegittimamente cumulato la tutela in forma specifica (reintegra) con quella per equivalente (risarcimento del danno); b) senza che fosse stato svolto specifico motivo d’appello la Corte di merito aveva riconnesso al ritardo anche il danno per il deperimento del bene, la cui custodia, peraltro, era stata erroneamente posta a carico dei promittenti alienanti; c) che si trattasse di un immobile fatiscente era noto sin dall’inizio alla stessa controparte, la quale lo aveva definito, all’udienza del 23/1/2002 innanzi al Tribunale “decrepito” e nonostante ciò i ricorrenti erano stati condannati per la sua mancata manutenzione; d) la statuizione era stata fondata sulla CTU, la quale non avrebbe potuto essere considerata mezzo di prova e che non era in condizioni di conoscere lo stato del manufatto al tempo della sottoscrizione del preliminare; e) non si era tenuto conto “del mancato incremento patrimoniale per effetto del mancato tempestivo trasferimento e, quindi, della differenza tra valore commerciale dell’immobile al momento della proposizione della domanda e prezzo nominale corrisposto”; nè del mancato versamento della parte preponderante del corrispettivo; f) “in ogni caso il prospettato deprezzamento avrebbe dovuto essere quantificato alla data prevista per la stipula dell’atto notarile o, in ipotesi, a quella della redazione del frazionamento (…), ma non certo alla “attualità” (anno 2009) come invece statuito dalla Corte territoriale”; g) si configura stridente contraddizione nell’aver, ad un tempo, considerato il valore locativo attuale pari a zero e, tuttavia, prevedere risarcimento per il mancato sfruttamento economico, oltre a non avere senso apprezzabile la locuzione che fissava il correlato risarcimento alla misura di 2.800 Euro l’anno, dal 17/6/1999 fino all’effettivo soddisfo; h) l’aver previsto, infine, la maggiorazione per interessi al tasso legale dalle singole scadenze al soddisfo aveva generato “un cumulo di frutti, sull’immobile e sull’importo riconosciuto, cumulo che non sarebbe seguito all’adempimento contrattuale”.

Trattasi di doglianza largamente eterogenea e, quindi, come tale inammissibile (cfr., Sez. 1, n. 19443 del 2379/2011, Rv. 619790).

Peraltro, tutte le mosse critiche non hanno fondamento.

Escluso ingiusto cumulo di tutela (la forma specifica non fa venir meno il diritto a recuperare il pregiudizio procurato alla cosa), apodittica e non autosufficiente appare l’affermazione secondo la quale gli odierni resistenti non avrebbero chiesto in appello il ristoro integrale del danno, per contro puntualmente smentita dal narrato della sentenza d’appello.

Come sopra si è chiarito la custodia del bene è stata correttamente posta a carico dei promittenti alienanti, i quali, quindi, giustamente sono chiamati a rispondere della mancata manutenzione di un immobile, certamente all’epoca già assai compromesso, ma non ridotto ad un cumulo calcinacci (punto, questo, insindacabilmente accertato in giudizio).

La consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perchè volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Sez. 3, n. 6155 del 13/3/2009, Rv. 607649).

La congerie, non connotata da apprezzabile nitore, di censure mosse al computo non è condivisibile: il maggior valore attuale dell’immobile, oltre a costituire una mera congettura, non tiene conto del fatto che il bene avrebbe dovuto, per contratto, essere trasferito ben prima ai promissari acquirenti, con la conseguenza che quell’eventuale implemento ad essi si sarebbe comunque appartenuto, Il valore del deprezzamento, poi, è stato correttamente indicato in valore attuale, poichè, nell’inadempienza dei promittenti alienanti, solo con il passaggio in giudicato della sentenza emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c., si procura, con efficacia ex nunc, il trasferimento di proprietà.

Nessuna contraddizione è dato constatare per il fatto che il bene allo stato attuale non è in grado di produrre frutto di sorta, in quanto i frutti sono stati determinati sul presupposto condivisibile che lo stesso, in mano agli acquirenti, regolarmente manuntenuto, avrebbe potuto essere sfruttato economicamente.

La sentenza, infine, non dà adito ad alcuna duplicazione, in quanto gli interessi, al tasso legale, sono stati computati sui frutti civili annualmente ricavabili.

Con il quarto motivo, erroneamente titolato terzo, i ricorrenti si dolgono per la violazione degli artt. 156, 194, 195 c.p.c., artt. 90 e 92 disp. att. c.p.c., nonchè di un vizio motivazionale su un punto controverso e decisivo.

Con l’ordinanza con la quale era stata disposta la CTU era stato imposto al consulente di comunicare alle parti la relazione conclusiva e di replicare alle eventuali osservazioni tecniche pervenute nei 15 giorni successivi. Invece, il CTU, pur avendo depositato nel termine assegnatogli la relazione, non aveva adempiuto all’incombente prescrittogli dal giudice, che il predetto, nonostante all’epoca non fosse ancora applicabile la novella apportata all’art. 195 c.p.c., dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, avrebbe, invece, dovuto rispettare. Nonostante fosse stata denunziata in corso di causa la irritualità della consulenza e chiesto termine per eventuali osservazioni, il processo era stato rinviato ad udienza di precisazione delle conclusioni. Sul punto la sentenza aveva omesso di rendere qualunque motivazione.

La doglianza è manifestamente destituita di giuridico fondamento per due concorrenti ed autosufficienti ragioni: al tempo, come ammesso dagli stessi deducenti, l’incombente procedurale non era previsto dalla legge; in ogni caso, la CTU venne consegnata entro il termine assegnato e alle parti non venne posta preclusione per poter interloquire sulla stessa, anche, se del caso, in sede di precisazione delle conclusioni.

S’impone, ciò premesso, il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, tenendo conto del valore e della natura delta causa, nonchè delle attività svolte, seguono la soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese legali in favore dei resistenti, che liquida nella complessiva somma di Euro 4.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2017

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