Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4930 del 28/02/2011

Cassazione civile sez. III, 28/02/2011, (ud. 26/01/2011, dep. 28/02/2011), n.4930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1546/2006 proposto da:

Z.S. (OMISSIS), in proprio e quale

rappresentante dell’impresa familiare coltivatrice, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA 2, presso lo studio dell’avvocato

ORLANDO PIETRO ROMANO, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Prof. CASAROTTO GIANGIORGIO giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

I.P.A.B. – PROTI – SALVI – TRENTO (OMISSIS);

– intimata –

sul ricorso 4688/2006 proposto da:

I.P.A.B. – PROTI – SALVI – TRENTO (già I.P.A.B. SERVIZI

ASSISTENZIALI VICENZA), in persona del legale rappresentante pro

tempore Sig. M.G., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DELL’AMBA ARADAM 22 INT. 1, presso lo studio dell’avvocato

MARZIONI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PESAVENTO ROBERTO giusta delega a margine del controricorso e ricorso

incidentale;

– ricorrente –

contro

Z.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 11/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA –

SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA, emessa il 6/7/2005, depositata il

28/09/2005, R.G.N. 13/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

26/01/2011 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato FABIO MASSIMO ORLANDO (per delega dell’Avv. Prof.

GIANGIORGIO CASAROTTO);

udito l’Avvocato ANTONIO SIGNORETTI (per delega dell’Avv. CARLO

MARZIONI);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso 1 agosto 2003 l’Ipab – Proti – Salvi Trento ha convenuto in giudizio dinanzi al tribunale di Vicenza, sezione specializzata agraria, la famiglia coltivatrice Z.S. per sentir accertare, da un lato, la scadenza del contratto di affitto inter partes, del 1999, dall’altro, la decadenza dell’affittuario della possibilità di esercitare la prelazione, con condanna dello stesso al rilascio del fondo ed al pagamento della penale contrattualmente prevista.

L’attore, premesso di essere proprietario di un fondo rustico di 21,5 campi vicentini, sito in (OMISSIS), ha esposto che in data 22 aprile 1999, aveva concluso – ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 45 – con la famiglia coltivatrice Z.S. un contratto d’affitto del fondo fino al 10 novembre 2002, con la previsione che per ogni giorno di ritardo nel rilascio, parte conduttrice avrebbe corrisposto L. 50 mila a titolo di penale.

Avvicinandosi la scadenza contrattuale pattuita – ha riferito ancora parte attrice – esso ricorrente aveva deliberato di stipulare un nuovo contratto della durata di cinque anni e, in ottemperanza alla legge, aveva bandito un’asta pubblica invitando gli interessati a partecipare alla gara – fissata per il 1 agosto 2002 – a far pervenire le loro offerte riguardanti il canone che erano disposti a versare come corrispettivo per la durata contrattuale di cinque anni.

All’asta – ha esposto, infine, parte attrice – aveva partecipato anche Z.S. che aveva offerto il canone annuo di Euro 180,00 per ogni campo vicentino ma tale offerta era stata ampiamente superata da quella proveniente da B.E.L. il quale aveva offerto Euro 313,00 per campo ed era, quindi, risultato aggiudicatario del fondo.

Invitato lo Z. – all’esito dell’asta – all’esercizio della prelazione di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 4 bis, lo stesso dopo aver comunicato la propria volontà di esercitare la prelazione, peraltro, invitato alla stipula del contratto L. n. 203 del 1982, ex art. 45, aveva opposto un incomprensibile rifiuto, più volte ribadito e, maturata la scadenza del contratto al 10 novembre 2002, aveva omesso il rilascio del fondo concessogli in affitto nel 1999, continuando ad inviare l’importo del canone previsto dal primo contratto, ormai scaduto.

Costituitasi in giudizio, la famiglia coltivatrice Z. S. sosteneva che per effetto della lettera 19 settembre 2002, regolarmente ricevuta dall’IPAB tra le parti era già intervenuta la stipula di un nuovo contratto di affitto, che restava assoggettato alla disciplina ordinaria di cui alla L. n. 203 del 1982 e che di conseguenza, aveva la durata di quindici anni a partire dall’11 novembre 2002 e comportava il diritto dello stesso Ente procedente di ricevere esclusivamente un canone da definirsi sulla scorta della sentenza n. 318 del 2002 della Corte Costituzionale.

Sulla base di tale assunto, la famiglia coltivatrice Z. S. ha chiesto il rigetto della domanda, evidenziandone l’inammissibilità, con riferimento agli argomenti trattati nel corso del tentativo di conciliazione e deducendo, altresì, che la penale richiesta meritava ampia riduzione e – in via riconvenzionale – ha chiesto fosse accertato l’intervenuta conclusione del nuovo contratto di affitto con durata fino al 10 novembre 2017.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adita sezione ha accertato che il contratto inter partes era scaduto il 10 novembre 2002, dichiarato la famiglia coltivatrice Z.S. decaduta dal diritto di prelazione, con condanna della stessa al rilascio del fondo, al pagamento della penale di Euro 25,82 per ciascun giorno di ritardo fino al rilascio ed alla rifusione delle spese di lite, rigettata la domanda riconvenzionale.

Gravata tale pronunzia dal soccombente Z.S. in proprio e quale rappresentante della impresa familiare coltivatrice, nel contraddittorio de l’Ipab – Proti – Salvi – Trento, già IPAB Servizi Assistenziali Vicenza, che, costituitosi in giudizio, ha chiesto il rigetto dell’avversa impugnazione, la Corte di appello di Venezia, sezione specializzata agraria, con sentenza 6 luglio – 28 settembre 2005 ha accolto, per quanto di ragione, il proposto gravame e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, conti fermata nel resto – e, in particolare, quanto al capo recante la condanna dell’appellante al rilascio del fondo – ha condannato l’appellante al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni, la somma di Euro 313,00 annui per campo vicentino a decorrere dall’11 novembre 2002 sino all’effettivo rilascio, detratte le somme eventualmente già corrisposte, integralmente compensate, tra le parti, le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio.

Per la cassazione di tale ultima sentenza, notificata il 3 novembre 2005 ha proposto ricorso, con atto 28 dicembre 2005 e date successive, Z.S. in proprio e quale rappresentante della impresa familiare coltivatrice affidato a un unico motivo e illustrato da memoria.

Resiste, con controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi e illustrato con memoria la Ipab Proti Salvi Trento.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I vari ricorsi, avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. Hanno osservato – per quanto rilevante al fine del decidere – i giudici di secondo grado:

– la L. n. 203 del 1982, art. 4 bis, inserito dal D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, art. 5, ha disposto che il locatore, che alla scadenza prevista dall’art. 1, ovvero a quella prevista dal comma 1, dell’art. 22 o alla diversa scadenza pattuita tra le parti, intende concedere in affitto il fondo a terzi, deve comunicare al conduttore le offerte ricevute, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento almeno novanta giorni prima della scadenza. Le offerte possono avere ad oggetto anche proposte d’affitto definite dal locatore e dai terzi ai sensi dell’art. 45, comma 1, della presente legge;

– dal tenore letterale e logico della nuova norma e dal compiuto collegamento con l’art. 45 citato si deduce che la procedura corretta preveda la preventiva definizione con il terzo, con le modalità concrete predette, del contenuto del contratto, definizione da raggiungersi sempre e comunque con l’ottemperanza del già citato art. 45;

– solo successivamente, il concedente deve comunicare al conduttore gli accordi raggiunti con il terzo al fine di consentirgli di esercitare il diritto di prelazione;

– in tal modo viene garantita l’osservanza delle finalità tutte volute dalla legge, atteso che il preventivo intervento delle associazioni di categorie nel raggiungimento, tra il concedente ed il terzo, dell’accordo, soddisfa le esigenze del controllo consapevole predetto, e fa sì che anche l’eventuale esercizio del diritto di prelazione avvenga sulla base di clausole vagliate dalle associazioni di categoria, con esclusione di una ripetizione di analoga procedura in caso d’esercizio del diritto di prelazione;

– siffatta interpretazione appare, oltre che conforme al dettato legislativo, anche logica, che diversamente argomentando si dovrebbe giungere a conclusioni inaccettabili ed irragionevoli, nel senso che il concedente potrebbe raggiungere con il terzo qualsiasi tipo d’accordo, pattuendo clausole assolutamente penalizzanti (ad es.

canoni eccessivi e non conformi alla produttività del fondo) ed in tal modo o impone al precedente conduttore obblighi estremamente gravosi ovvero indurlo inevitabilmente a non esercitare il proprio diritto di prelazione;

in definitiva il preventivo esperimento della procedura di cui all’art. 45 garantisce equilibrio al rapporto con il terzo e, quindi, a quello conseguente con il titolare del diritto di prelazione.

Ciò premesso, in punto di diritto – hanno ancora osservato i giudici di appello, deve osservarsi che, nel caso in esame, l’Ipab dopo aver espletato la procedura dell’asta pubblica ed aver così individuato, quale in maggior offerente del canone (Euro 313,00 per campo), il terzo disposto a prendere in affitto il fondo, nella persona di B.E.L. doveva attivare la procedura di cui all’art. 45 citato e raggiungere con lo stesso l’accordo definitivo sulla cui base poi invitare il conduttore Z.S., a manifestare la propria volontà di concludere il nuovo contratto in deroga alle stesse condizioni.

A tanto l’appellata non ha provveduto – hanno concluso la loro indagine sul punto quei giudici – per cui l’intera procedura risulta affetta da nullità per violazione dell’inderogabile predetta disposizione di legge.

Quindi:

– nessun valido contratto d’affitto si è stipulato con il predetto maggior offerente all’asta pubblica e sul punto deve ritenersi fondata la censura sollevata dall’appellante che si è, perciò, legittimamente rifiutato di stipulare il contratto in deroga, e non poteva essere dichiarato decaduto, come fatto dal Tribunale, dal diritto di prelazione;

– non può, però, condividersi la tesi dell’appellante (secondo profilo, in ordine logico, del primo motivo d’appello) che pretende di valorizzare la comunicazione del 19 settembre 2002 come proposta contrattuale da cui sarebbe immediatamente sorto il contratto di affitto, non già in deroga, ma di durata pari a quella minima di quindici anni previsti dalla legge.

In particolare:

– la denuntiatio, così come concepita anche dall’art. 4 bis predetto non costituisce proposta contrattuale in grado di dar luogo alla immediata conclusione del contratto;

– la denuntiatio riveste carattere formale di interpello vincolato nella forma e nel contenuto e fa solo sorgere, in conseguenza della comunicazione da parte dell’ affittuario della volontà di avvalersi del diritto di prelazione, un reciproco obbligo a concludere il contratto sulla base di quanto, così, prefissato;

– inoltre, argomento, questo, assolutamente concludente, se è vero che, come sostenuto dall’ appellante, in caso di pattuizioni contrarie a norme imperative e conseguente nullità di atti, deve ritenersi, a norma dell’art. 1339 c.c., automaticamente applicata, in sostituzione, se imperativa, la disciplina normativa ordinaria, è del pari innegabile che a tanto si giunge solo ove la legge predetermini rigorosamente tutti gli aspetti del contratto di talchè nulla sia lasciato all’autonomìa delle parti;

– ove fosse stata ancora in vigore la normativa inerente all’equo canone, certamente si sarebbe dovuto aderire alla conclusione prospettata dall’appellante, stante la totale regolamentazione normativa degli elementi fondamentali (durata minima, canone) del rapporto di affittanza;

– però, in conseguenza della nota sentenza n. 318 del 2002 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 203 del 1982, artt. 6 e 62 e per effetto della sentenza n. 315 del 2004 con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, secondo e terzo periodo stessa legge, il regime dell’ equo canone dei fondi rustici è venuto totalmente meno, senza che possa, peraltro, invocarsi la precedente L. 12 giugno 1962, n. 567 espressamente abrogata dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 58;

– solo, quindi, la volontà negoziale può, ora, colmare il vuoto legislativo inerente al canone, ed è evidente che a tanto si giunge se entrambe le parti manifestino nelle forme di legge il proprio consenso senza che possa essere obbligata l’una o l’altra ad accettare entità di canoni tra loro non concordati;

– nella nuova situazione non è, quindi, più possibile la sostituzione automatica del patto nullo con il disposto della legge.

In conclusione – hanno affermato i giudici di secondo grado – questa Corte, pur condividendo l’assunto in ordine alla nullità della procedura per la violazione dell’art. 45, deve disattendere le conseguenze che l’appellante ritiene derivino dalla violazione della legge e, quindi, in assenza di conclusione del nuovo contratto, Z.S. deve essere ritenuto occupante senza titolo del fondo come, correttamente deciso dal tribunale, che lo ha condannato al rilascio.

3. Il ricorrente principale censura le complesse argomentazioni sopra riferite, denunziando nell’ordine:

– da un lato, violazione e falsa applicazione di norme di diritto, art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 4 bis (unico motivo del ricorso principale, prima parte);

– dall’altro, nullità della sentenza e del procedimento, art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento all’art. 112 c.p.c. (ricorso principale seconda parte).

4. Premesso quanto sopra osserva la Corte che considerazioni di ordine logico impongono di esaminare con precedenza – rispetto alle rimanenti – la censura sviluppata, dal ricorrente principale nella seconda parte del suo motivo.

5. La deduzione è inammissibile.

Sotto molteplici, concorrenti, profili.

5.1. Come noto, giusta la testuale previsione di cui all’art. 112 c.p.c. – da cui totalmente e senza alcuna giustificazione totalmente prescinde la difesa del ricorrente principale – il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposto soltanto dalle parti.

E’ palese, pertanto, stante la tassatività dei motivi del ricorso per cassazione, che il ricorrente non può limitarsi a denunziare la violazione – da parte del giudice del merito – della regola contenuta nell’art. 112 c.p.c., ma deve, a pena di inammissibilità della censura stessa, specificare se – nel caso concreto – il giudice è a suo parere incorso in una omessa pronunzia (non ha pronunciato, cioè su tutta la domanda o su qualche eccezione sottoposta al suo esame) o, piuttosto, se è incorso in ultrapetizione (ha, cioè, pronunciato su una domanda o su una eccezione in senso proprio non proposta da alcuna delle parti).

Certo che nella specie manca qualsiasi precisazione al riguardo, nè questa è, in qualche modo, ricavabile dalla esposizione dei motivi a sostegno della censura, è evidente – già sotto tale profilo – la inammissibilità della deduzione, per non essere stata la stessa formulata nel rispetto del combinato disposto di cui agli artt. 360 e 366 c.p.c..

5. 2. Anche a prescindere da quanto precede si osserva che in ricorso si afferma che l’odierno ricorrente mai aveva prospettato questioni in ordine al canone, espressamente anzi dichiarando di riservarsi di far valere diritti al riguardo in separato giudizio, ciò si specifica anche in ordine alla denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c..

Una tale deduzione è palesemente inammissibile.

Oltre che per le considerazioni svolte sopra, almeno sotto due, concorrenti, profili:

– in primis si osserva che la difesa del ricorrente, pur indicando in quale punto della comparsa di costituzione in primo grado capoverso immediatamente precedente la formulazione delle conclusioni, aveva svolto una tale deduzione, non ha trascritto, in ricorso, quale fosse il contenuto di tali dichiarazioni. E’ evidente, pertanto, che dalla sola lettura del ricorso questa Corte non è in grado di apprezzare la censura (cfr. Cass. 19 ottobre 2006, n. 22385; Cass. 18 maggio 2006, n. 11653, nonchè – tra le tantissime – nel senso che dal contesto del ricorso, ossia, solo dalla lettura di tale atto ed escluso l’esame di ogni altro documento, compresa la stessa sentenza impugnata – sia possibile desumere una conoscenza del fatto, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo, Cass. 3 febbraio 2004, n. 1959);

– anche a prescindere da quanto precede si osserva che allorchè si denunzia – sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la non corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato con conseguente nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., è onere del ricorrente precisare, in termini non equivoci, nello stesso ricorso, non solo la statuizione resa dal giudice del merito censurata nella specie: l’affermazione che per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle norme sull’equo canone di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9, e segg., è rimessa unicamente alle parti la determinazione del corrispettivo dovuto per l’affitto di fondi rustici e che in tanto – come prevede l’art. 1325, c.c., n. 1 – un contratto può dirsi concluso in quanto sussiste l’accordo delle parti sul contenuto del contratto stesso, accordo non raggiunto nel caso di specie ma anche quale sia stata la domanda o eccezione introdotta in causa nel rispetto delle regole del contraddittorio e sulla quale il giudice del merito non ha pronunziato o, alternativamente, le ragioni per cui quel giudice ha pronunziato su domanda o eccezione mai ritualmente introdotta in causa (cfr., tra le tantissime, Cass. 14 ottobre 2010, n. 21226;

Cass. 30 aprile 2010, n. 10605; Cass. 19 marzo 2007, n. 6361);

– certo, per contro, come già evidenziato sopra, che su tale specifica – e essenziale – questione il ricorso è totalmente carente (non specificando neppure, come si è osservato sopra, quale sia il vizio posto in essere dalla sentenza impugnata) è evidente anche sotto tale ulteriore profilo la inammissibilità della censura.

6. Con la prima parte della sua censura il ricorrente principale denunzia la sentenza impugnata:

– da un lato, per avere la stessa escluso che attraverso l’esercizio della prelazione esso Z. avesse già perfezionato la fattispecie perfezionativa di un nuovo contratto agrario senza che rimanga spazio o necessità per un nuovo contratto, ossia per avere escluso che la denuntiatio integri una proposta contrattuale destinata a direttamente e immediatamente perfezionare, attraverso l’esercizio del diritto di prelazione, il nuovo contratto di affitto, qualificando, invece, la stessa una mera interpellatio dalla quale discende unicamente un obbligo a contrarre;

– dall’altro, per avere affermato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme sull’equo canone possa impedire la configurabilità della formazione, attraverso l’esercizio della prelazione, di un contratto il cui contenuto sìa determinato anche attraverso l’integrazione sostitutiva dell’art. 1339 c.c., atteso che la ricordata pronunzia di illegittimità costituzionale comporta unicamente la mancanza di una disciplina legale cogente in ordine alla determinazione del canone, così che varrà esclusivamente – anche per chi esercita la prelazione – quello contrattualmente determinato tra locatore e terzo.

7. Il motivo non coglie nel segno.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

7.1. Non è stata in alcun modo censurata, nè da parte del ricorrente principale, nè di quello incidentale il quale si duole – peraltro, formulando un motivo inammissibile, come si vedrà a suo luogo – della motivazione della sentenza impugnata esclusivamente per giungere alla cassazione del capo relativo alla disposta compensazione delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio di merito e non per una diversa statuizione sul merito della controversia, la interpretazione data dalla sentenza impugnata della L. 3 maggio 1982, n. 283, art. 4 bis, nella parte in cui tale disposizione prevede che le offerte possono avere ad oggetto anche proposte di affitto definite dal locatore o dai terzi ai sensi della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 23, comma 3, come sostituito dall’articolo 45 della presente legge.

E’ palese – per l’effetto – che detta interpretazione (ancorchè, per ipotesi, incongrua e non conforme a una corretta lettura della previsione) non può essere sindacata da questa Corte regolatrice, essendosi sul punto formato il giudicato.

7.2. Contemporaneamente, come accennato sopra, il ricorrente principale censura esclusivamente il capo della sentenza impugnata nella parte in cui questa ha affermato che l’art. 4 bis configura l’esistenza non già di un obbligo a formulare una denuntiatio intesa quale proposta contrattuale, destinata a direttamente ed immediatamente perfezionare, attraverso l’esercizio del diritto di prelazione, il nuovo contratto di affitto, bensì quello di una mera interpellatio, dalla quale discenderebbe unicamente un obbligo a contrarre.

Precisa, al riguardo, il ricorrente principale è questo invero il nucleo centrale del rigetto della pretesa del sig. Z., di vedersi riconosciuto un nuovo contratto di affitto come conseguenza immediata dell’esercitato diritto di prelazione.

7.3. La deduzione è inammissibile, per carenza di interesse (art. 100 c.p.c.).

Come noto l’interesse ad impugnare va apprezzato in relazione all’utilità concreta che deriva alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione stessa, non potendo esaurirsi in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, priva di riflessi pratici sulla decisione adottata (Cass. 25 giugno 2010, n. 15353; Cass. 23 maggio 2008, n. 13373; Cass., sez. un., 19 maggio 2008, n. 12637, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede osserva il Collegio che anche nella eventualità questa Corte dovesse dissentire dalla qualificazione giuridica data dalla sentenza impugnata alla comunicazione da parte del concedente al conduttore delle offerte ricevute per la conclusione di un nuovo contratto di affitto, e fare proprio l’assunto invocato dalla difesa del ricorrente, non per questo la domanda attrice potrebbe trovare accoglimento.

7.4. Come puntualmente evidenziato dalla sentenza impugnata e, del resto, assolutamente pacifico presso una più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde la difesa del ricorrente a seguito delle sentenze n. 318 del 2002 e 315 del 2004 sono divenute prive di effetti sia le tabelle per il canone di equo affitto come disciplinate dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9, e dalle norme da questo richiamate, sia, ai fini della quantificazione del canone stesso, i redditi dominicali stabiliti – ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 62 – a norma del R.D.L. 4 aprile 1939, n. 589.

Di conseguenza il canone dovuto per l’affitto di fondi rustici è unicamente quello fissato, in forza di accordi liberamente intervenuti tra le parti, anche senza l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole (cfr. Cass. 19 novembre 2007, n. 23931; Cass. 14 novembre 2008, n. 27264; Cass. 19 aprile 2010, n. 9266, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede si osserva – ancora – sempre in termini opposti rispetto a quanto invoca la difesa del ricorrente principale che tra i requisiti del contratto l’art. 1325 c.c., n. 1, prevede l’accordo delle parti.

Il contratto – precisa altresì – il successivo art. 1326 c.c., è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (comma 1) e un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta (comma 5).

Pacifico quanto precede si osserva che nella specie lo Z.:

– non solo ha rifiutato di sottoscrivere un contratto secondo lo schema proposto dall’ente concedente (cioè – tra l’altro – per un canone pari a quello offerto dall’aggiudicatario in esito all’asta pubblica B.E.L., cioè di Euro 313,00 per campo) e sotto tale profilo, quindi, correttamente i giudici del merito, sulla base della interpretazione da loro data dalla L. n. 203 del 1982, art. 4 bis, hanno rigettato ogni domanda dello Z.;

– ma, pur dichiarando di volere esercitare la prelazione ha preteso come accertato in linea di fatto dalla sentenza impugnata e in alcun modo contestato dal ricorrente principale che – tra l’altro – sempre in ispregio dell’art. 366 c.p.c., e del principio di autosufficienza del ricorso, non ha trascritto in ricorso il contenuto della propria adesione alla denuntiatio dell’Ipab, al fine di dimostrare che si era realizzata la fattispecie normativa delineata dal più volte della L. n. 203 del 1982, art. 4 bis, come interpretato da P esso concludente e cioè la propria adesione a tutte le condizioni indicate nella denuntiatio di corrispondere un canone inferiore a quello offerto dal B.).

Non controverso quanto è palese che anche nella eventualità si ritenga – come invoca il ricorrente principale – che la comunicazione prevista dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 4 bis, integra una proposta contrattuale si che il contratto di affitto tra il concedente e il prelazionante si perfeziona per effetto dell’accettazione della proposta, non per questo potrebbe mai pervenirsi all’accoglimento della domanda.

L’accettazione non conforme alla proposta, infatti, come osservato sopra, equivale a nuova proposta e impedisce – di conseguenza – la conclusione del contratto.

Non controverso quanto sopra, certo che l’odierno ricorrente non ha mai dichiarato di volere corrispondere il canone indicato nella denuntiatio pretendendo di corrispondere il canone pagato in forza del precedente contratto stipulato con l’Ipab senza ombra di dubbio cessato alla data del 10 novembre 2002 è evidente che il contratto – alle condizioni indicate nella denuntiatio non si è prefezionato, con conseguente manifesta infondatezza della domanda attrice.

Alla luce delle considerazioni che precedono e della dimostrata infondatezza degli assunti del ricorrente sia aderendo alla interpretazione della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 4 bis data dalla sentenza impugnata, sia seguendo la ricostruzione della norma offerta dal ricorrente, è evidente l’inammissibilità – come anticipato – del ricorso nella parte de qua, con conseguente assorbimento di tutte le altre considerazioni sviluppate nel motivo.

8. Quanto al ricorso incidentale, il ricorrente principale lamenta – nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c. – la invalidità del mandato conferito agli avvocati avversari da M.G. personalmente e non per l’Ipab, mancando nel mandato (e nella sottoscrizione che lo conclude) una tale precisazione.

9. L’eccezione è manifestamente infondata.

Nella specie il mandato agli avvocati Pesavento e Marziani è stato rilasciato – come assolutamente pacifico – a margine del controricorso dell’ipab.

Lai procura ai detti difensori, pertanto, forma materialmente corpo con il controricorso al quale essa inerisce con la conseguenza che è del tutto arbitrario pretendere di leggere la stessa – come invoca la difesa del ricorrente principale – prescindendo dal contenuto dello stesso controricorso e dalla sua intestazione.

In questa ultima si precisa – in termini non equivoci – che con tale atto l’Ipab – Proti – Salvi – Trento, già Ipab Servizi assistenziali Vicenza si costituisce in persona di M.G., legale rappresentante pro tempore .. in base a procura speciale a margine del presente atto con ..gli avvocati…

Pacifico, in linea di fatto, quanto sopra, è di palmare evidenza che è assolutamente irrilevante – e non pertinente – al fine di ritenere che il M. abbia inteso dare mandato in proprio e non nella descritta qualità, ai nominati difensori, nella causa promossa con ricorso alla Corte Suprema di Cassazione di Roma avverso la sentenza n. 11/05 della Corte di appello di Venezia Sezione Agraria, depositata il 6 luglio – 28 settembre 2005 e notificata il 3 novembre 2005 come precisato nel mandato a margine, causa nella quale egli era certamente parte quale legale rappresentante dell’Ipab e non in proprio, la circostanza che nel mandato non si faccia mai menzione della ricordata qualità, in capo al M., di legale rappresentante pro tempore dell’ente intimato (cfr., ad esempio, Cass. 3 luglio 2009, n. 15692; Cass. 21 maggio 2007, n. 11741; Cass. 19 maggio 2007, n. 10539).

10. Precisato quanto sopra osserva la Corte che il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata, nella parte in cui questa ha disposto – tra le parti – la compensazione delle spese di entrambi i giudizi di merito lamentando:

– da un lato, violazione e falsa applicazione di norma di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 203 del 1982, art. 4 bis, (primo motivo);

– dall’altro, violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per contraddittorietà della motivazione circa il punto decisivo della controversia relativa alla domanda di rifusione delle spese (secondo motivo).

11. Entrambi i motivi sono inammissibili.

Si osserva – in particolare – che come assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – che nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralità di ragioni, tra di loro distinte e tutte autonomamente sufficienti a sorreggerla sul piano logico-giuridico, è necessario, affinchè si giunga alla cassazione della pronuncia, che il ricorso si rivolga contro ciascuna di queste, in quanto, in caso contrario, le ragioni non censurate sortirebbero l’effetto di mantenere ferma la decisione basata su di esse (Cass. 20 novembre 2009, n. 24540; Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640; Cass. 7 luglio 2008, n. 18589).

Pacifico quanto sopra si evidenzia che i giudici del merito hanno disposto la totale compensazione delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio tenuta presente:

– la particolarità della controversia;

– la novità normativa;

– la spiegata condotta dell’appellato.

Certo quanto sopra è palese che entrambi i motivi fanno riferimento esclusivamente in tesi al primo degli argomenti invocati a fondamento della decisione adottata, ma nulla oppongono nè in ordine al secondo (novità normativa, e, del resto, sulla questione specifica non risultano precedenti di questa Corte regolatrice) nè quanto al terzo (e, in particolare, alla circostanza – assolutamente pacifica – che l’Ipab in esito al giudizio di appello è rimasta pressochè totalmente soccombente quanto alla domanda di danni, essendo stati questi accertati, dal giudice di secondo grado, in misura di gran lunga inferiore rispetto a quella reclamata dall’Ipab e liquidata dal primo giudice).

12. In conclusione mentre il ricorso principale è rigettato, quello incidentale è dichiarato inammissibile, con compensazione – atteso l’esito di questo giudizio di legittimità – delle spese di questo grado del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi;

rigetta il ricorso principale;

dichiara inammissibile quello incidentale;

compensa le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 26 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2011

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