Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4923 del 15/02/2022

Cassazione civile sez. II, 15/02/2022, (ud. 21/07/2021, dep. 15/02/2022), n.4923

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11287/2017 R.G. proposto da:

I.G., rappresentato e difeso dagli Avv.ti ANDREA PAOLO

PERRONE, e ROBERTO GEROSA, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Virgilio, n. 18;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, rappresentata e difesa dagli Avv.ti RAFFAELE

D’AMBROSIO, e GUIDO CRAPANZANO, dell’Avvocatura della Banca stessa,

con domicilio eletto presso i medesimi in Roma, via Nazionale, n.

91;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte di appello di Roma n. 8866/16

depositato il 26/10/2016.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21/07/2021

dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. I.G. propone ricorso, sulla scorta di quattro motivi, per la cassazione del decreto n. 8866/2016 della Corte d’appello di Roma che ha rigettato l’opposizione da lui proposta unitamente a B.L., F.E. e G.N. avverso il provvedimento del 23.09.14 con cui la Banca d’Italia gli aveva inflitto, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 144 (cd. Testo Unico Bancario, TUB), nella sua qualità di componente del Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio-Società Cooperativa (nel prosieguo, Banca Etruria), la sanzione pecuniaria di Euro 156.000,00. Le ragioni di tale sanzione erano state individuate: 1) nella violazione delle disposizioni sulla governance, 2) nelle carenze circa l’organizzazione e i controlli interni, 3) nelle carenze sulla gestione e sul controllo del credito, 4) nelle omesse e inesatte segnalazioni all’Organo di Vigilanza.

1.1. La corte d’appello ha in primo luogo disatteso il motivo di opposizione con cui i Dott. I. aveva dedotto l’illegittimità del procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia. Nell’impugnato decreto si esclude che il mancato coinvolgimento dell’incolpato nella fase decisoria svoltasi davanti al Direttorio e la mancata distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie all’interno della Banca d’Italia siano in contrasto con il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU e art. 47 CDFUE, essendo le garanzie del contraddittorio salvaguardate dalla possibilità del sanzionato di opporsi ai provvedimenti sanzionatori emessi da Banca d’Italia davanti ad un giudice munito di giurisdizione piena. La corte d’appello esclude altresì che l’ampliamento delle garanzie del contraddittorio introdotto nel procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia con le modifiche allo stesso recate dal Provvedimento del 3.5.15 offra argomento per sostenere l’illegittimità del previgente modello procedimentale (applicabile nella specie ratione temporis), osservando come tale rafforzamento del contraddittorio si inserisca nel nuovo quadro normativo introdotto dal D.Lgs. n. 72 del 2015, caratterizzato, si legge nel decreto impugnato, da una “maggiore afflittività del sistema sanzionatorio” (pag. 6, primo capoverso).

1.2. Il collegio capitolino ha altresì disatteso la censura del Dott. I. circa la genericità delle contestazioni a lui rivolte dalla Banca d’Italia, affermando che “le condotte ascritte agli incolpati appaiono puntualmente ed analiticamente descritte, consentendo loro di individuare con precisione i fatti ed i precetti normativi disattesi (…). E’ del resto evidente, alla luce delle stesse controdeduzioni formulate dagli opponenti nel procedimento, come gli incolpati abbiano avuto specifica conoscenza di ogni accusa, apprestando analitiche difese nel merito” (pag. 7, secondo e terzo capoverso del decreto impugnato). La Cortte d’appello ha altresì rilevato come gli opponenti – tra cui figura l’odierno ricorrente – non avessero mosso alcuna analitica e precisa censura avverso le violazioni contestate da Banca d’Italia (riassunte a pag. 8 del decreto), limitandosi invece ad indicare “alcuni dati positivi dell’azione dell’organo gestorio” (cfr. pag. 8-9 decreto impugnato), del tutto inidonei a smentire il quadro emergente degli accertamenti dell’Organo di vigilanza, che avrebbe dovuto invece essere inficiato – ai fini della fondatezza dell’opposizione – da “argomentazioni tecniche particolarmente puntuali, non potendo limitarsi a critiche generiche ed apodittiche, che si limitino a contrapporre una propria rappresentazione dei fatti a quella emersa in seguito agli accertamenti ispettivi” (pag. 9, penultimo capoverso, secondo periodo, del decreto).

1.3. Infine, la Corte d’appello di Roma ha reputato infondato il motivo di opposizione concernente la mancata personalizzazione della misura sanzionatoria. Il collegio di merito ha ritenuto privo di rilevanza, ai fini della determinazione della misura della sanzione, il fatto che gli opponenti, tra cui l’odierno ricorrente, fossero stati componenti del c.d.a. privi di poteri esecutivi, richiamando l’insegnamento di questa Corte sul pari dovere in capo a ciascun consigliere d’amministrazione di essere costantemente informato circa l’andamento della società al fine, da un lato, di controllare le scelte compiute dai consiglieri muniti di delega e, dall’altro, di attivarsi perché il consiglio di amministrazione eserciti i poteri di direttiva o avocazione nei confronti di tali consiglieri.

2. Al ricorso del Dott. I. la Banca d’Italia ha resistito depositando controricorso.

3. La causa è stata chiamata nella Camera di consiglio del 21 luglio 2021, per la quale entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

4. Col primo motivo di ricorso, articolato in tre distinte censure e riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 47, comma 2 CDFUE.

4.1. Con la prima censura si sostiene che, contrariamente a quanto affermato nel decreto impugnato, la possibilità di ottenere una tutela giurisdizionale piena contro i provvedimenti sanzionatori della Banca d’Italia non sarebbe un rimedio sufficiente a sanare il vizio di imparzialità che inficia il procedimento amministrativo che ha condotto all’irrogazione della sanzione.

4.2. Con la seconda censura si argomenta che la corte d’appello avrebbe abdicato al proprio potere decisorio, con conseguente negazione della cd. full jurisdiction, essendosi limitata a richiamare le violazioni riportate nella cd. tavola sinottica della proposta sanzionatoria (pag. 8 decreto) e a rilevare che gli accertamenti di Banca d’Italia sono “di regola caratterizzata da un grado elevato di attendibilità conoscitiva” (pag. 9 decreto).

4.3. Con la terza censura si lamenta che la corte territoriale, appiattendosi sulla posizione della Banca d’Italia, avrebbe di fatto invertito il riparto dell’onere probatorio tra sanzionato e sanzionante.

5. Tutte le suddette censure sono infondate.

5.1. La prima censura è infondata per una duplice ragione. Per un verso, posto che i principi fissati dall’art. 6 CEDU e art. 47 CDFUE riguardano le sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, secondo i criteri fissati dalla sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976 Engel e altri c. Paesi Bassi, risulta dirimente la considerazione che tali principi non possono essere invocati in relazione ai procedimenti relativi agli illeciti amministrativi previsti dal TUB, i quali, secondo la giurisprudenza assolutamente consolidata di questa Corte, non hanno carattere sostanzialmente penale (v. Cass. 17209/20, Cass. 16517/2020. Cass. 4/2019; Cass. pen. 12777/2018; Cass. 3656/2016; Cass. 24723/2018; Cass. 21553/2018; Cass. 16720/2018; Cass. 19219/2016; Cass. 3656/2016).

5.2. In secondo luogo, comunque, va ricordato che, come questa Corte ha già avuto modo di precisare (sent. n. 770/2017), anche in relazione alle sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa – nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria – ovvero mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio adottato in assenza di tali garanzie – ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l’effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacché la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale.

5.3. La seconda e la terza censura possono essere trattate congiuntamente, in ragione della loro stretta connessione, e vanno disattese. Non può affermarsi che la corte d’appello non abbia provveduto a prestare tutela giurisdizionale al ricorrente, né che essa abbia invertito il riparto degli oneri probatori ex art. 2697 c.c.. Al contrario, esercitando pienamente la propria potestas iudicandi, il collegio capitolino ha apprezzato il materiale istruttorio, concludendo nel senso che, da un lato, la Banca d’Italia aveva soddisfatto l’onere probatorio sulla stessa gravante; d’altro lato, gli opponenti – tra cui l’odierno ricorrente – non avevano espletato un’attività difensiva capace di smentire le risultanze probatorie.

5.4. Per quanto poi concerne l’affermazione della corte territoriale secondo cui gli accertamenti ispettivi sono “di regola caratterizzati da un grado elevato di attendibilità conoscitiva” (pag. 9, penultimo capoverso, del decreto), specificamente censurata dal ricorrente, essa non introduce alcuna inversione dell’onere probatorio ma – come fatto palese sia dall’uso dell’inciso “di regola”, sia dalla precisazione espressa che detti accertamenti ispettivi non sono “assistiti da una presunzione di assoluta incontrovertibilità” (ivi) – si risolve nel tipico giudizio di apprezzamento del materiale istruttorio che il giudice di merito ha il potere di compiere secondo il suo prudente apprezzamento. L’assunto del ricorrente secondo cui nel caso di specie non ci sarebbe stato un “giudizio vero” (pag. 8 del ricorso, sub lett. “c”) va poi giudicato del tutto assertivo e non veicolato attraverso alcuno dei mezzi di impugnazione per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c.. Sul piano astratto, infatti, è fuor di dubbio che il giudizio di opposizione ex art. 144 TUB garantisca la piena tutela giurisdizionale dei diritti, avendo il giudice il potere-dovere di esaminare l’intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa – nell’ambito delle deduzioni delle parti – all’esame completo nel merito della fondatezza dell’ingiunzione, ivi compresa la determinazione dell’entità della sanzione (Cass. 6778/2015). Sul piano concreto, per contro, la Corte d’appello di Roma, pronunciando il decreto gravato, ha esercitato appieno i propri poteri decisori: ha valutato sufficientemente provati i fatti costitutivi della sanzione amministrativa inflitta dedotti dalla Banca d’Italia ed ha ritenuto l’attività difensiva spesa dagli opponenti, tra i quali l’attuale ricorrente, inidonea a sovvertire tale valutazione.

6. Col secondo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 49, comma 1 CDFUE in cui la corte d’appello sarebbe incorsa non applicando alla fattispecie la disciplina introdotta con il D.Lgs. n. 72 del 2015, alla cui stregua “i soggetti che svolgono funzioni di gestione delle banche possono ricevere sanzioni amministrative soltanto in ipotesi eccezionali (…) pacificamente non ricorrenti nel caso in specie” (pag. 9 ricorso). Ad avviso del ricorrente, la sanzione prevista per l’illecito contestato al ricorrente avrebbe natura sostanzialmente penale alla stregua cd. “criteri Engel” e pertanto la disciplina sopravvenuta, risultando in concreto più favorevole per l’incolpato, sarebbe stata da applicare retroattivamente in base al principio del favor rei, disapplicando – per contrasto con l’art. 49, comma 1, CDFUE – D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 2 comma 3, che espressamente esclude tale retroattività.

6.1. Il motivo è infondato, perché si fonda su un presupposto – la natura sostanzialmente penale della sanzioni. amministrativa applicata al ricorrente – che, come già illustrato nel precedente paragrafo 5.1., non trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 17209/20; Cass. 8046/19, pagg. 3 ss.; Cass. 16517/20, pag. 13 ss.), la quale – proprio in ragione della natura non penale (nemmeno sostanzialmente) delle sanzioni amministrative si cui agli artt. 144 e 144 ter TUB – ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 2, comma 3, per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., nella parte in cui tale norma non prevede la retroattività del principio della lex mitior. (Cass. n. 17209/2020, cit.).

7. Col terzo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il decreto gravato viene censurato sotto tre distinti profili.

7.1. In primo luogo, il ricorrente lamenta che la corte di appello – a fronte del motivo di opposizione con cui egli aveva dedotto l’impossibilità di individuare le norme delle quali gli veniva addebitata la violazione – avrebbe omesso “qualsiasi verifica sull’effettiva possibilità di individuare le specifiche disposizioni” (pag. 11 ricorso). La censura è inammissibile, poiché non si confronta con la ratio decidendi del decreto, là dove si afferma (v. supra, p. 1.2) che i ricorrenti ben avevano avuto conoscenza delle specifiche norme violate, avendo ampiamente svolto attività difensiva all’interno del procedimento sanzionatorio.

7.2. In secondo luogo, il ricorrente deduce che la corte distrettuale si sarebbe limitata a rilevare la genericità e l’apoditticità delle argomentazioni da lui propugnate per censurare il provvedimento sanzionatorio, senza scendere nel merito delle stesse.

7.3. Infine, con la terza censura, si lamenta il silenzio della corte capitolina sul rilievo, anch’esso svolto in sede di opposizione, secondo cui il provvedimento sanzionatorio avrebbe formulato giudizi qualitativi sull’idoneità delle scelte imprenditoriali del consiglio di amministrazione, violando così il diritto alla libertà imprenditoriale ex art. 16 CDFUE, art. 41 Cost., comma 2 e art. 2380-bis c.c..

7.4. La seconda censura e la terza censura, che possono essere esaminate congiuntamente, sono anch’esse inammissibili, giacché in sostanza denunciano un vizio di insufficienza motivazionale dell’impugnato decreto. Va allora ribadito, per un verso, con riguardo all’art. 112 c.p.c., il risalente insegnamento di questa Corte alla cui stregua “il giudice, per adempiere all’obbligo della motivazione, non deve necessariamente confutare tutte le singole argomentazioni della parte, ma deve solo rendere conto del suo convincimento in modo logico e giuridicamente corretto. In tal caso le contrarie argomentazioni non esplicitamente confutate si intendono disattese per implicito” (così Cass. 2612/1971; nello stesso senso, in tempi successivi, Cass. 407/2006, Cass. 12652/2020). Per altro verso, con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 5, il principio che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con rnodif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (così Cass. n. 23940/17).

8. Col quarto motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2381 c.c., commi 3 e 6 c.c., dell’art. 2392 c.c., comma 1, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. La corte territoriale, infatti:

a) avrebbe violato le norme sopra richiamate equiparando illegittimamente, quoad poenam, la posizione del ricorrente, amministratore senza deleghe, con quella degli amministratori delegati;

b) avrebbe inoltre omesso di considerare “le censure svolte dall’odierno ricorrente sull’effettivo assetto dei poteri… e sul concreto andamento dei flussi informativi” all’interno del consiglio di amministrazione (pag. 14, righi 2-3, del ricorso); con conseguente violazione del principio di proporzionalità da parte della Banca d’Italia, erroneamente non rilevato dalla corte d’appello

8.1. Anche il quarto motivo deve essere disatteso. In via preliminare non è inopportuno ricordare l’insegnamento di questa Corte alla cui stregua “nel procedimento di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice, nel caso di contestazione della misure delle stesse, è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse; egli, inoltre, non è chiamato a controllare la motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, ma a determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto deii parametri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11” (così Cass. n. 11481/20).

8.2. Tanto premesso, in linea generale, sulla sindacabilità, in sede di legittimità, delle valutazioni operate dal giudice di merito in punto di entità delle sanzioni amministrative oggetto di opposizione, il Collegio osserva che la denuncia di violazione degli artt. 2381 e 2392 c.c., veicolata nella doglianza sopra riportata sub a) si palesa infondata alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo cui anche gli amministratori senza deleghe sono gravati di doveri particolarmente incisivi. In Cass. n. 19556/20 si è infatti chiarito che: “In tema di sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 144, l’obbligo imposto dall’art. 2381 c.c., u.c., agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza”. Tale principio è stato poi ripreso in Cass. n. 16517/2020 (p. 2) e, da ultimo, ribadito e precisato in Cass. n. 2620/2021, dove si è ribadito che “in tema di responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente”.

8.3. Quanto alla censura sopra riportata sub b), la stessa va giudicata inammissibile, giacché pur essa si concreta in una doglianza di insufficienza motivazionale (vedi pagina 13, ultimo rigo, del ricorso: “il decreto in epigrafe ha integralmente omesso di considerare le censure svolte dell’odierno ricorrente”), non deducibile, come sopra evidenziato (p. 7.4.), come mezzo di ricorso per cassazione. Va peraltro escluso che la motivazione dell’impugnato decreto possa ritenersi inferiore al “minimo costituzionale” avendo la corte territoriale dato adeguatamente conto di criteri che l’hanno guidata nella valutazione del trattamento sanzionatorio (v. p. 3 del decreto impugnato, pag. 10).

9. Il ricorso va quindi, conclusivamente, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

10. Deve darsi atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla Banca d’Italia le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 8.000, oltre Euro 200 per esborsi e altri accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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