Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4911 del 24/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 24/02/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 24/02/2020), n.4911

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22448-2017 proposto da:

V.G., V.M., V.A.,

VI.AS., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE PARIOLI 63,

presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO TERRIGNO, rappresentati

e difesi dall’avvocato BIAGIO RICCIO giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

INTEK GROUP SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE A. DA

BRESCIA 9-10, presso lo studio dell’avvocato ANDREA FIORETTI,

rappresentata e difesa dagli avvocati CARLO DE GIORGIO, ELIO

VIRGILIO giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2994/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 28/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2019 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Intek S.p.A., subentrata alla FIME S.p.A., conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli il donante V.M., ed i donatari, Vi.As., V.A. e V.G., per sentir dichiarare l’inefficacia della donazione effettuata in data 26/7/2006, avente ad oggetto la quota di 1/3 vantata dal donante sulla successione del coniuge M.L.. Deduceva che era creditrice della somma di oltre duecentomila Euro in ragione del decreto ingiuntivo emesso nei confronti della de cuius in data 3/12/199, divenuto esecutivo a seguito del rigetto dell’opposizione proposta dalla M. con sentenza n. 32962/2002 del Tribunale di Roma, e che l’atto impugnato era gravemente pregiudizievole della proprie ragioni ereditarie.

I convenuti eccepivano la tardività della richiesta di adempimento da parte della società attrice, che aveva loro impedito di valutare se provvedere o meno all’accettazione dell’eredità.

Il Tribunale rigettava la domanda, ma la Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 2994 del 28 giugno 2017 accoglieva l’appello e dichiarava l’inefficacia dell’atto di donazione.

Rilevava che a monte le ragioni creditorie della società scaturivano dalla circostanza che la Fime aveva acquisito una partecipazione nella Intomalte S.p.A., a fronte dell’emissione da parte di quest’ultima di 200 azioni privilegiate del valore nominale di un milione cadauna e che i soci dalla Intomalte, G.F. e M.L. avevano chiesto alla Fime di acquisire tali azioni dietro il corrispettivo di Lire 343.985.274.

Tale prezzo non era stato versato e quindi la società cedente aveva ottenuto il decreto ingiuntivo, posto poi a fondamento della pretesa creditoria della società appellante.

La M. era poi deceduta già nel corso del giudizio all’esito del quale la sua opposizione era stata rigettata, ma senza che tale evento fosse stato dichiarato dal suo procuratore.

Solo a seguito di successive visure, la Intek, subentrata alla Fime, si era avveduta dell’atto di donazione del 25 luglio 2006, con il quale V.M., coniuge della debitrice, aveva trasferito a titolo gratuito ai figli la quota pervenutagli per successione, compiendo pertanto un atto che vale come accettazione tacita dell’eredità, dovendo quindi rispondere illimitatamente dei debiti della moglie.

Quanto alla scientia damni, i giudici di appello osservavano che il debito della de cuius era sorto ben prima della stessa emissione del decreto ingiuntivo e che la sua conoscenza da parte del convenuto doveva ritenersi provata in base a vari elementi.

In primo luogo la notevole entità della somma ingiunta non poteva essere passata inosservata in ambito familiare.

Ancora la compravendita delle partecipazioni della Intomalte doveva reputarsi nota a V.M., che era stato originario socio fondatore di tale società, avendo poi trasferito alla moglie le azioni ordinarie delle quali era titolare, e ciò poco prima che la Fime entrasse nella compagine societaria. Inoltre non doveva trascurarsi che, poichè il difensore ha l’obbligo di informare gli eredi dell’esito della causa intrapresa dalla parte defunta, atteso che il difensore della M. era l’attuale difensore degli appellati, poteva ragionevolmente presumersi che questi avesse informato i successibili della sua vecchia cliente delle sorti del giudizio di opposizione.

Poteva quindi affermarsi che i convenuti fossero a conoscenza anche prima della donazione dell’esistenza del debito della congiunta.

Inoltre non poteva spiegare alcuna efficacia la circostanza che il titolo esecutivo fosse stato notificato agli eredi ex art. 477 c.p.c. solo nel 2011, atteso che diviene fondamentale accertare piuttosto se anche prima di tale notifica gli eredi potessero o meno sapere dell’esistenza del debito.

Inoltre la notifica del titolo esecutivo agli eredi presuppone che i destinatari della notifica abbiano già acquisito tale qualità, sicchè tale situazione poteva farsi risalire come nota alla controparte solo alla data della donazione (2006), non potendosi invece far retroagire tale accettazione alla diversa data di presentazione della denuncia di successione, atto invece avente efficacia solo fiscale.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso V.M., V.A., Vi.As. e V.G. sulla base di due motivi, cui resiste la società intimata con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 477 c.p.c. attesa la notifica del titolo esecutivo agli eredi dopo oltre undici anni dall’accettazione dell’eredità.

Infatti, l’accettazione deve farsi risalire alla data di presentazione della denuncia di successione avvenuta nel 2000, laddove il titolo esecutivo è stato notificato solo nel 2011.

Tale ritardo ha impedito agli eredi di essere resi edotti dell’esistenza del credito vantato dalla società, non potendosi ammettere che gli eredi possano essere chiamati a rispondere di un debito del de cuius dopo che siano decorsi dieci anni dall’accettazione dell’eredità.

Il motivo è infondato.

In primo luogo, la deduzione dei ricorrenti non si confronta con la puntuale e condivisibile affermazione dei giudici di appello secondo cui l’atto di accettazione dell’eredità deve farsi risalire alla data della stessa donazione di cui si chiede l’inefficacia, non potendosi attribuire rilievo ai fini dell’art. 476 c.c. alla presentazione della denuncia di successione.

Trattasi di affermazione che oltre a non essere stata oggetto di adeguata critica ad opera dei ricorrenti, trova il conforto della costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4783/2007; Cass. n. 10796/2009), che ha appunto limitato al solo profilo fiscale la rilevanza della presentazione della denuncia di successione, trattandosi di adempimento imposto dalla normativa fiscale ma che non implica anche l’acquisto della qualità di erede.

Inoltre, se già tale considerazione priva di fondamento gran parte del ragionamento dei ricorrenti, in quanto non vi sarebbe un’inerzia ultradecennale della società creditrice nel far valere la sua pretesa nei confronti egli eredi, è la stessa lettura che i ricorrenti offrono della previsione di cui all’art. 477 c.p.c. ad essere erronea.

Invero, come giustamente ricordato anche dalla Corte distrettuale, la notifica del titolo esecutivo ai sensi della norma in esame presuppone che i destinatari della notifica abbiano già in precedenza accettato l’eredità (Cass. n. 2849/1992) esulando dalla funzione della norma quella invece di rendere edotti i chiamati dell’esistenza di crediti ereditari, al fine di allertarli circa l’opportunità di procedere ad un’accettazione beneficiata.

Il carattere ereditaro del debito, come appunto evidenziato dalla stessa dottrina richiamata nel motivo di ricorso, è costituito dal fatto che si tratti di obbligazione as. dal defunto prima dell’apertura della successione e che non si sia estinta a tale data, senza che necessiti anche la notifica formale del titolo esecutivo, essendo invece onere del chiamato che intenda limitare la propria responsabilità provvedere all’accettazione beneficiata, e ciò anche laddove ignori l’esistenza del debito (si veda a conferma della irrilevanza della scoperta di passività sopravvenute ai fini della limitazione della responsabilità dell’erede, la disciplina eccezionale dettata per i soli legati dall’art. 483 c.c., comma 2).

L’eventuale inerzia nel curare le proprie ragioni da parte del creditore potrebbe al più chiamare in causa il diverso istituto della prescrizione, nella fattispecie non eccepita e nemmeno configurabile atteso che il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo a seguito del rigetto dell’opposizione operato solo con sentenza del 2002.

Il motivo deve quindi essere rigettato.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 2901 c.c., lamentandosi l’erroneo ricorso alle presunzioni da parte del giudice di merito.

Infatti, emergerebbe che V.M. aveva perso già nel 1989 la qualità di socio della Intomalte e che era coniugato con la M. in regime di separazione dei beni, così come non è giustificabile applicare il regime della prova presuntiva ad una circostanza di per sè priva di significatività come il fatto che il difensore della de cuius fosse lo stesso dei ricorrenti.

Anche tale motivo deve essere disatteso in quanto mira a sottoporre alla valutazione della Corte questioni esclusivamente devolute al giudizio ed all’apprezzamento del giudice di merito.

In tal senso deve ricordarsi che secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza – come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 31/10/2011, Rv. 619955); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Sez. L, Sentenza n. 2632 del 05/02/2014, Rv. 629841).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge;

trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Sez. 3, Sentenza n. 8023 del 02/04/2009, Rv. 607382; Sez.L, Sentenza n. 15737 del 21/10/2003, Rv. 567551; Sez. L, Sentenza n. 11906 del 06/08/2003, Rv. 565726; da ultimo, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 101 del 08/01/2015, Rv. 634118).

Nella specie, la critica si fonda su di una valutazione atomistica dei vari elementi presuntivi dei quali si è avvalso il giudice di merito, che viceversa, in una lettura combinata degli stessi, ha valorizzato il rapporto familiare che legava i ricorrenti alla de cuius e che rendeva ragionevole che l’esistenza di una pretesa creditoria aliena di consistente entità fosse messa a conoscenza dei congiunti o quanto meno del marito, trattandosi di debito che era ricollegato all’attività svolta in passato dal marito, il quale poco prima aveva ceduto la sua partecipazione alla moglie (trattandosi di debito scaturente proprio dalle vicende della società), corroborando il tutto con il richiamo alla verosimiglianza dell’adempimento degli obblighi informativi da parte del precedente difensore della M., che peraltro è anche il difensore dei ricorrenti.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso principale a norma degli stessi artt. 1-bis e 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2020

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