Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4887 del 19/02/2019

Cassazione civile sez. un., 19/02/2019, (ud. 29/01/2019, dep. 19/02/2019), n.4887

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di sez. –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Albero – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29193-2018 proposto da:

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DE’ CESTARI

34, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE VALENTINO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 115/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata l’1/08/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/01/2019 dal Consigliere FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Giuseppe Valentino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Ministro della giustizia promosse l’azione disciplinare nei confronti del dott. D.G., Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo, contestandogli, in relazione a due diverse fattispecie, l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. a) e g).

In particolare, al predetto Magistrato fu contestato, nell’ambito del procedimento penale n. 7762 del 2012 R.G. P.M. a carico di S.L., di non essersi attivato tempestivamente, una volta scaduti i termini massimi di custodia cautelare per l’imputato agli arresti domiciliari in data 20 dicembre 2013, per disporre la scarcerazione del medesimo; il quale era stato poi rimesso in libertà, con provvedimento del G.I.P., soltanto in data 20 febbraio 2014, con conseguente indebita privazione della libertà personale per 62 giorni. Analoga contestazione fu elevata nei confronti del dott. D. nel procedimento penale n. 5929 R.G. P.M. a carico di L.C., fattispecie per la quale l’imputato era stato indebitamente privato della libertà personale per 167 giorni.

2. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 1 agosto 2018, ha ritenuto il dott. D. responsabile in relazione al solo episodio riguardante l’imputato S. e gli ha irrogato la sanzione della censura, mentre l’ha assolto dalla medesima incolpazione in relazione all’imputato L. per essere rimasto escluso l’addebito.

2.1. Ha osservato il Giudice disciplinare, per quanto di interesse in questa sede, che doveva innanzitutto essere respinta l’eccezione, sollevata dalla difesa dell’incolpato, secondo cui erano nulle le note depositate dal Procuratore generale della Corte di cassazione all’esito della sua requisitoria, siccome non trasmesse in via preventiva al difensore. Ed infatti non c’era alcuna modificazione del capo di incolpazione e, di conseguenza, del principio del contraddittorio. Risultava da tale documentazione che il dott. D. aveva depositato una richiesta di rinvio a giudizio da considerare nulla in quanto emessa in data 28 ottobre 2013, due giorni prima che venisse emesso l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p.; tale nullità, causata dallo stesso incolpato, non avrebbe consentito al G.I.P., secondo l’accusa, di emettere il decreto di citazione a giudizio prima della scadenza dei termini di fase. La Sezione disciplinare ha osservato, in proposito, che l’accusa disciplinare era rimasta la medesima ed il riferimento alla nullità della richiesta di rinvio a giudizio era ininfluente ai fini della contestazione, posto che l’accusa aveva utilizzato quell’argomento al solo scopo di dimostrare che il fascicolo riguardante l’imputato S. era ancora nella disponibilità del dott. D.. E comunque, la consapevolezza della suindicata nullità avrebbe dovuto indurre il Magistrato a vigilare con maggiore attenzione sull’operato del G.I.P., affinchè i termini di fase non scadessero invano. Ha aggiunto la Sezione disciplinare che la permanenza del fascicolo nella disponibilità del dott. D. risultava anche dal fatto che egli aveva presentato in data 11 marzo 2014 una richiesta di archiviazione parziale a favore dello stesso imputato S..

2.2. Tanto premesso, la sentenza ha confermato, secondo quanto sostenuto dalla difesa, che la segretaria del Magistrato si era distinta per la sua inefficienza della quale il dott. D. si era più volte lamentato, al punto da ottenerne la sostituzione; a tal fine dovevano essere tenute in considerazione le deposizioni testimoniali del Procuratore della Repubblica, del Procuratore Aggiunto e della Dirigente amministrativa della Procura. E tuttavia il giudice disciplinare ha affermato che la situazione di grave inefficienza della segreteria non aveva efficacia scriminante rispetto al comportamento omissivo contestato al Magistrato, perchè “proprio la disastrata situazione organizzativa della sua segreteria avrebbe dovuto suggerire al dott. D. una vigilanza, se possibile, ancora più accorta in ordine ai termini di carcerazione preventiva, trattandosi di tema attinente alla libertà personale dell’individuo”. La Sezione disciplinare, infine, ha escluso di poter applicare, nella specie, la previsione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis tenendo presente che l’indebita restrizione della libertà si era protratta per 62 giorni.

3. Contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura propone ricorso il dott. D.G. con atto affidato a quattro motivi ed affiancato da memoria.

Il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Ritiene la Corte che ragioni di ordine logico impongano di esaminare il ricorso cominciando dal terzo motivo, nel quale si lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), con inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità e decadenza, violazione dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 521 c.p.p. in relazione alla disposta acquisizione e utilizzazione delle note depositate dal Procuratore generale.

Sostiene il ricorrente che l’acquisizione della suindicata nota del P.G. – con la quale si contestava di aver emesso il decreto di cui all’art. 415-bis c.p.p. due giorni dopo la data della richiesta di rinvio a giudizio – avrebbe determinato una modifica dell’accusa. Mentre infatti il capo di incolpazione contesta una colpa per omissione, la nota in questione ipotizza una responsabilità commissiva. Si tratta, secondo il ricorrente, di una contestazione del tutto nuova; aver ammesso tale diversa contestazione costituirebbe violazione dell’art. 521 c.p.p., perchè sulla nuova contestazione l’incolpato non avrebbe avuto, in sostanza, alcuna possibilità di difendersi.

1.1. Il motivo non è fondato.

1.2. Giova premettere che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare, proprio in relazione alla questione giuridica in esame, che nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati si ha modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione tra l’addebito contestato e la sentenza, soltanto quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito, ma non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restino immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno, ovvero quando ai primi si aggiungano altri elementi sui quali l’incolpato abbia comunque avuto modo di difendersi nel procedimento (sentenze 28 settembre 2009, n. 20730, e 27 aprile 2017, n. 10415, nonchè, da ultimo, la sentenza 23 novembre 2018, n. 30424). Analogamente, è stato affermato che nel procedimento in questione il principio di correlazione tra fatto addebitato e fatto ritenuto in sentenza risulta violato se in questi non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono tra di loro non in rapporto di continenza, bensì di eterogeneità (sentenza 6 dicembre 2011, n. 26138); e che il rispetto del principio della necessaria correlazione tra fatto addebitato e fatto ritenuto in sentenza va valutato non in senso rigorosamente formale, bensì avendo di mira l’obiettivo al quale esso è diretto, che è costituito dalla necessità di salvaguardare il principio del contraddittorio e il diritto di difesa (sentenza 27 novembre 2013, n. 26548).

1.3. Nel caso in esame, non c’è stata alcuna modificazione del capo di incolpazione nè una modifica sulla quale l’indagato non abbia potuto esercitare il diritto di difesa. Ed infatti, come correttamente ha rilevato la Sezione disciplinare del C.S.M., la contestazione elevata a carico del dott. D. era (ed è rimasta) quella di non essersi tempestivamente attivato affinchè l’imputato S. fosse scarcerato a causa della decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare.

La censura della difesa, già esaminata nella sentenza disciplinare e qui riproposta come motivo di ricorso, muove dal convincimento secondo cui all’incolpato sarebbe stato contestato un comportamento commissivo a fronte dell’addebito disciplinare che aveva ad oggetto un comportamento omissivo, così determinandosi la suindicata violazione di legge; comportamento commissivo costituito dall’aver richiesto il rinvio a giudizio dell’imputato S. due giorni prima di aver depositato l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., dando luogo così ad una richiesta nulla.

Tale censura, tuttavia, ad avviso del Collegio non trova riscontro negli atti. Come la Sezione disciplinare ha rilevato, infatti, l’argomento della nullità della richiesta di rinvio a giudizio è stato utilizzato soltanto per contrastare la tesi della difesa che tendeva a dimostrare che il dott. D. non avesse più nella sua disponibilità il fascicolo in questione. La questione della nullità richiamata dalla sentenza impugnata, quindi, non costituisce un mutamento dell’accusa, quanto piuttosto un argomento ulteriore a sostegno del fatto che il Magistrato avrebbe dovuto osservare una diligenza ancora maggiore; egli, infatti, non poteva ignorare che la nullità della richiesta di rinvio a giudizio avrebbe reso pressochè impossibile al G.I.P. disporre la citazione a giudizio dell’imputato – dando inizio, in tal modo, alla nuova fase processuale, con nuovi termini di custodia cautelare – prima della scadenza dei termini di custodia cautelare della fase precedente.

Non può essere taciuto, inoltre, che la censura si fonda sulla circostanza per cui il rappresentante della Procura generale della Corte di cassazione ebbe a depositare, all’esito della sua requisitoria, alcune note non trasmesse alla difesa in precedenza, che riguardavano, appunto, la questione della nullità della richiesta di rinvio a giudizio; il che avrebbe determinato la modifica del capo di incolpazione e la violazione del principio del contraddittorio. Ma è appena il caso di aggiungere, come ha ricordato il P.G. nel corso della discussione pubblica, che la giurisprudenza penale di questa Corte ha affermato che è in facoltà del P.M., in quanto parte, di interloquire, presentando memorie o richieste scritte e, quindi, anche proponendo osservazioni e contestazioni agli argomenti addotti dall’imputato, in conformità al dettato dell’art. 121 c.p.p. (Sezioni Unite penali, ordinanza 28 gennaio 2003, n. 13687, Berlusconi e altri). Principio, questo, che ulteriormente conferma l’infondatezza del terzo motivo di ricorso, perchè il fatto puro e semplice del deposito della memoria non ha leso il diritto della difesa.

2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, let. e), contraddittorietà della motivazione per travisamento delle prove, avendo la sentenza impugnata erroneamente sostenuto che il ricorrente non si era spogliato del fascicolo subito dopo la richiesta di rinvio a giudizio.

Ad avviso del ricorrente, dopo la richiesta di rinvio a giudizio del 28 ottobre 2013 nei confronti dell’imputato S., egli si era spogliato del fascicolo affidandolo alla propria segretaria. Non esistendo, presso la Procura di Bergamo, registri che attestassero il passaggio del fascicolo dal magistrato alla collaboratrice, il Giudice disciplinare “avrebbe dovuto valutare con particolare attenzione tutte le evidenze di prova”. L’espletata istruttoria aveva confermato la situazione di gravissima difficoltà nella quale il ricorrente si era trovato a causa dell’inefficienza della sua segretaria la quale, a sua volta, era stata sottoposta a procedimento disciplinare. Per cui, ad avviso del ricorrente, la sentenza avrebbe dovuto valutare il colpevole ritardo con cui la richiesta di rinvio a giudizio era stata trasmessa, mentre il Magistrato era convinto che l’adempimento fosse stato regolarmente espletato.

3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), contraddittorietà della motivazione per travisamento delle prove, avendo la sentenza impugnata erroneamente sostenuto che il ricorrente era consapevole della disastrosa situazione della sua segreteria prima dei fatti oggetto del procedimento.

Ad avviso del ricorrente, l’istruttoria avrebbe dimostrato che egli, pur avendo più volte segnalato le carenze della sua collaboratrice, soltanto con le comunicazioni del 20 novembre e 17 dicembre 2014 aveva dato atto della assoluta inadeguatezza della medesima. Pertanto, richiamando alcune pronunce relative all’impossibilità di procedere ad una tempestiva scarcerazione per insostenibilità dell’assetto organizzativo, il dott. D. rileva che il suo comportamento avrebbe dovuto essere scusato, per essere stato egli indotto in errore dalle gravi inefficienze altrui.

4. Il primo ed il secondo motivo, benchè diversi, devono essere esaminati insieme, poichè tra loro evidentemente connessi; entrambi, infatti, si imperniano sulla medesima argomentazione di fondo, e cioè che il dott. D. non dovrebbe essere ritenuto responsabile dell’illecito in questione, perchè la mancata scarcerazione dell’imputato fu una conseguenza della disastrosa situazione della sua segreteria da ricondurre all’inefficienza della segretaria, assoggettata a sua volta a procedimento disciplinare; e in tal senso vi sarebbero anche le deposizioni testimoniali assunte in sede disciplinare.

4.1. I due motivi non sono fondati.

La giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha più volte ribadito che grava sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, anche durante lo svolgimento del dibattimento (sentenza 12 gennaio 2011, n. 507, e, da ultimo, la sentenza 3 ottobre 2018, n. 24135); ed ha aggiunto che l’inosservanza, da parte del giudice, dei termini massimi di durata della custodia cautelare, siccome lesiva del diritto fondamentale alla libertà personale garantito dalla Costituzione, costituisce grave violazione di legge sanzionabile come illecito disciplinare (sentenza 29 luglio 2013, n. 18191). La responsabilità che consegue alla ritardata scarcerazione non viene meno per il fatto che vi siano carenze organizzative nell’ufficio giudiziario di appartenenza (sentenza 4 maggio 2017, n. 10794); per cui l’incolpato può andare esente da responsabilità solo in presenza di impedimenti gravissimi, che gli abbiano precluso di assolvere il dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale dei soggetti sottoposti a custodia cautelare, non bastando, in tale prospettiva, la laboriosità o la capacità del magistrato incolpato, nè particolari condizioni lavorative gravose ovvero l’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza (sentenza 6 aprile 2017, n. 8896).

Sulla scia di tali precedenti, va ribadito che anche il fatto di essersi materialmente spogliato della disponibilità di un fascicolo per averlo affidato, come sostiene oggi il ricorrente, alla propria segretaria, non esime il Magistrato dall’obbligo di continuare a controllare che i termini di custodia cautelare non vengano a scadere senza che l’indagato sia stato tempestivamente rimesso in libertà.

Nel caso in esame si può dare per pacifico – come la stessa sentenza disciplinare ha rilevato – che la segreteria del dott. D. fosse, all’epoca dei fatti, in una situazione di grave difficoltà determinata dall’inefficienza della sua segretaria. Ciò, tuttavia, non è sufficiente per accogliere i motivi di ricorso qui in discussione. Rileva al riguardo il Collegio che, se non è possibile, da un lato, chiedere al Magistrato uno sforzo che superi la soglia di quanto si può umanamente pretendere, è altrettanto chiaro, da un altro lato, che la disorganizzazione della segreteria esige dal Magistrato uno sforzo ancora maggiore; e in questo senso merita condivisione l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata.

La difesa ha lungamente insistito, sia nel ricorso che nella discussione pubblica, sul fatto che non vi sarebbe la prova della conoscenza della “disastrosa” situazione della segreteria, da parte dell’incolpato, se non con le due lettere del 20 novembre 2014 e 17 dicembre 2014, entrambe successive al momento in cui si svolsero i fatti che hanno dato origine al procedimento disciplinare (la richiesta di rinvio a giudizio di cui sopra è del 28 ottobre 2013). Ma, senza volere con questo entrare nel merito di una ricostruzione dei fatti che la Sezione disciplinare ha compiuto e che non può essere messa in discussione in questa sede, è il caso di osservare che è la stessa difesa ad ammettere che una prima segnalazione di “comportamenti di disattenzione, di imprecisione, di disordine, di lentezza nell’esecuzione” dei suoi provvedimenti fu compiuta dal Magistrato già in data 12 giugno 2013. Il che vuol dire che a quella data il dott. D. era – o comunque avrebbe dovuto essere – consapevole dell’esistenza di una criticità che lo obbligava alla massima attenzione.

Non può poi essere taciuto che la sentenza impugnata ha ulteriormente rilevato, a dimostrazione della fondatezza dell’incolpazione, che proprio il dott. D. aveva chiesto, in data 11 marzo 2014, che la posizione dell’imputato S. fosse definita con un provvedimento di archiviazione parziale, in tal modo confermando la perdurante disponibilità del relativo fascicolo processuale a quella data.

Osserva infine il Collegio che l’obbligo di vigilanza sul rispetto dei termini di custodia cautelare continua a gravare sul Magistrato del Pubblico Ministero anche dopo che questi ha presentato la richiesta di rinvio a giudizio, poichè questa, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., comma 3, investe il giudice del potere-dovere di provvedere alla revoca anche di ufficio, ma non esclude il concorrente potere-dovere di istanza del P.M. (così la sentenza 14 luglio 2015, n. 14688, alla quale va data continuità nella pronuncia odierna; e si veda, sul punto, anche la sentenza 20 settembre 2016, n. 18397).

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per mancanza di motivazione in ordine all’esimente speciale di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis.

Ad avviso del ricorrente, la motivazione sul punto sarebbe gravemente carente, perchè non avrebbe considerato che l’imputato S. era agli arresti domiciliari e non in carcere, che il fatto non aveva destato l’attenzione dei mass-media e che non vi era stata alcuna richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione. L’insieme di tali elementi avrebbe dovuto essere valutato in sede di decisione, riconoscendo al ricorrente il diritto all’applicazione dell’art. 3-bis già citato.

5.1. Il motivo non è fondato.

Osserva innanzitutto il Collegio che la Sezione disciplinare ha fornito, anche su questo punto, una chiara motivazione, rilevando che la privazione della libertà personale per sessantadue giorni non consentiva, comunque, di considerare il fatto di scarsa rilevanza. Tale affermazione è stata supportata attraverso il corretto richiamo alla sentenza 6 aprile 2017, n. 8896, di queste Sezioni Unite.

L’orientamento di cui alla sentenza ora citata è stato ancora ribadito dalla più recente sentenza n. 24135 del 2018, alla quale va data in questa sede ulteriore continuità, la quale ha osservato che “la privazione della libertà personale costituisce di per sè un fatto così grave che è ben difficile ipotizzare che la negligenza del magistrato che tale conseguenza ha determinato possa dare luogo ad un illecito disciplinare di scarsa rilevanza” (nella stessa linea si veda anche la sentenza 21 gennaio 2019, n. 1544).

E’ priva di fondamento, d’altra parte, la considerazione della difesa secondo cui si sarebbe dovuto tenere conto del fatto che l’imputato si trovava agli arresti domiciliari, posto che tale misura costituisce comunque una privazione della libertà personale in tutto equivalente alla custodia cautelare in carcere (art. 284 c.p.p., comma 5), sicchè nessuna motivazione il giudice disciplinare era tenuto a formulare su questo punto. Del tutto ininfluenti, infine, in ordine alla sanzione disciplinare sono la mancata richiesta, da parte dell’imputato, di una riparazione per l’ingiusta detenzione così come la circostanza, di mero fatto, che l’episodio non avesse avuto alcuna risonanza pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese, non essendovi stata costituzione in giudizio di alcuna controparte.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 29 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019

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