Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4885 del 24/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/02/2020, (ud. 17/12/2019, dep. 24/02/2020), n.4885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26923/2014 proposto da:

BADEN S.R.L. UNIPERSONALE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 12, presso

lo studio dell’avvocato FABRIZIO BADO’, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FRANCESCO DEL CIONDOLO;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione

dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO

MARITATO, CARLA D’ALOISIO;

– controricorrenti –

e contro

EQUITALIA GERIT S.P.A., AGENTE DELLA RISCOSSIONE PER LA PROVINCIA DI

SIENA già Equtalia Gerit S.p.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 591/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 05/08/2014 R.G.N. 767/2013.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 591 del 2014, la Corte d’appello di Firenze, rigettando il gravame proposto dalla Baden s.r.l. unipersonale nei confronti dell’Inps, ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto dell’opposizione a tre cartelle esattoriali emesse per il recupero dei benefici contributivi previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 8, commi 4 e 4 bis, in favore delle imprese che assumono personale licenziato a seguito di procedura di mobilità, indebitamente fruiti, ad avviso dell’ente previdenziale a seguito di specifico accertamento, in difetto di un effettivo incremento occupazionale, con l’assunzione di tre lavoratori posti in mobilità dalla Medea Hotels s.r.l. ed in presenza di un incontestato trasferimento d’ azienda da Medea Hotels s.r.l. a Baden S.r.l. Unipersonale;

la Corte di merito, dopo aver richiamato il precedente di questa Corte di cassazione n. 14247 del 2012 (secondo il quale l’obbligo di assunzione del lavoratore in mobilità, che esclude il diritto allo sgravio, sarebbe riferito al solo ex datore di lavoro che proceda a nuove assunzioni della L. n. 223 del 1991, medesimo art. 8, ex comma 1 e non all’obbligo della genuina impresa cessionaria d’azienda di far transitare i lavoratori dipendenti dalla cedente), invocato dall’appellante, ha ritenuto che nella ipotesi di cessione d’azienda non si instaura, tra la cessionaria ed i lavoratori dipendenti dalla cedente un nuovo rapporto di lavoro, ma si realizza una continuità dei precedenti rapporti di lavoro con il nuovo datore di lavoro, cosicchè deve preferirsi l’orientamento tradizionalmente espresso dalla Corte di legittimità (Cass. n. 17071 del 2007, n. 5304 del 2007) che aveva attribuito rilevanza essenziale, al fine di riconoscere il diritto agli sgravi di cui si parla, alla necessità di appurare che l’assunzione del personale in mobilità da parte di una nuova impresa risponda a reali esigenze economiche e tali esigenze vanno escluse nei casi in cui si realizza un trasferimento d’azienda che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., importa la continuazione dei rapporti di lavoro e senza che su tale affermazione incida il disposto della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5, che, nell’escludere l’applicabilità dell’art. 2112 c.c., in caso di cessione di impresa in crisi, non introduce alcuna diversa disciplina della materia contributiva;

avverso tale sentenza, ricorre Baden s.r.l. con ricorso, affidato a sette motivi;

resiste l’INPS, anche quale mandataria di S.C.C.I. s.p.a., con controricorso; Equitalia Gerit s.p.a., è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 8, commi da 1 a 4; con il secondo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., in relazione alla L. n. 223 del 1992, art. 8; con il terzo, la violazione e falsa applicazione della L. n. 264 del 1949, art. 14; con il quarto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 116 c.p.c. e la violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c.; con il sesto, la mancata valutazione di prova o, comunque, la motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria in ordine alla lettura del materiale probatorio ed ai fatti decisivi per il giudizio; con il settimo, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio;

con considerazioni formulate in modo complessivo, la ricorrente ha sostanzialmente dedotto che l’errore imputato alla Corte distrettuale è quello di aver male interpretato il disposto della L. n. 223 del 1991, art. 8 e di aver negato la sussistenza del diritto agli sgravi contributivi, con ciò non dando applicazione ai principi espressi da Cass. n. 14247 del 2012, pur essendo stata accertata la genuinità del trasferimento d’azienda e, quindi, esclusa la sussistenza di intenti elusivi;

il ricorso non può essere accolto;

i diversi motivi vanno trattati congiuntamente in quanto connessi;

sono inammissibili quelli che denunciano vizi di motivazione in quanto non conformi al parametro fissato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, che questa Corte di legittimità (sin da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014) ha interpretato affermando che tale articolo, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

nel caso di specie, il ricorrente non evidenzia l’omesso esame di un fatto del genere di quelli indicati, ma si duole che la Corte territoriale abbia interpretato il materiale probatorio acquisito agli atti come idoneo a dimostrare una sorta di condotta elusiva rispetto agli obblighi contributivi derivanti dall’assunzione dei lavoratori posti in mobilità dalla cedente, senza, invece, valorizzare le emergenze istruttorie che dimostravano la genuinità dell’operazione;

i motivi non colgono, peraltro, pienamente la ratio sottesa alla sentenza impugnata che è ispirata alla interpretazione della L. n. 223 del 1991, art. 8, di cui si dirà più avanti, preferibile e che anche in relazione ad ipotesi di legittima cessione d’azienda richiede che il nuovo datore di lavoro dia prova dell’effettivo incremento occupazionale;

inoltre, l’esame di tali doglianze, come è evidente, non porterebbe alla individuazione del vizio invocato ma ad una, non consentita in sede di legittimità, rivisitazione del materiale istruttorio già vagliato dalla Corte territoriale;

gli altri motivi sono infondati; essi ruotano tutti intorno alla interpretazione della L. n. 233 del 1991, art. 8, fatta propria da Corte di cassazione n. 14247 del 2012 ed alla rilevanza che, all’interno di tale interpretazione, riveste la circostanza della pacifica sussistenza di una genuina cessione d’azienda;

la questione così proposta impone una ricognizione degli sviluppi degli orientamenti espressi da questa Corte che possono dirsi consolidati non nel senso fatto proprio dalla citata Cass. n. 14247 del 2012;

tale pronuncia, infatti, privilegiando una interpretazione testuale della L. n. 223 del 1991, art. 8, ha limitato il divieto di fruizione del beneficio della decontribuzione, oltre che al caso di frode tesa a far apparire una alterità insussistente tra ex datore di lavoro e nuovo datore di lavoro, alla sola ipotesi in cui ad assumere i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità sia stato lo stesso datore di lavoro che li aveva licenziati; in altri termini, l’impresa genuinamente cessionaria non potrebbe ritenersi destinataria dell’obbligo di assumere con precedenza il lavoratore in mobilità e, quindi, soggetta al divieto di fruizione dello sgravio;

l’art. 8, comma 1, richiamato dal comma 4, riguarda le ipotesi in cui il lavoratore sia titolare di un diritto di precedenza all’assunzione, come previsto dalla L. n. 264 del 1949, art. 15, quando ad assumere sia la stessa azienda che li aveva licenziati;

a fronte di tale opzione interpretativa, può dirsi invece ormai acquisito, nell’interpretazione del disposto della L. n. 223 del 1991, art. 8, il diverso convincimento che reputa rilevanti due condizioni al fine della legittima fruizione dello sgravio: a) che la fruizione dello stesso non sia il frutto di una condotta fraudolenta; b) che, comunque, si realizzi oggettivamente un incremento occupazionale attraverso l’assunzione del lavoratore iscritto nelle liste di mobilità;

già Cass. n. 8800 del 2001 osservò che l’esigenza di evitare condotte fraudolente, funzionalizzate unicamente all’ottenimento di contributi pur in assenza di condizioni economiche e di mercato capaci di giustificarli, ha indotto il legislatore con il D.L. 16 maggio 1994, n. 229, art. 2 (convertito con modificazioni nella L. 19 luglio 1994, n. 451) ad aggiungere della L. n. 223 del 1991, citato art. 8, il comma 4 bis, che dispone testualmente che il diritto del datore di lavoro ai benefici di cui ai commi precedenti “è escluso con riferimento a quei lavoratori che siano stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o di diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell’impresa che assume ovvero risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento e controllo”;

pertanto – al fine di assicurare una gestione trasparente di benefici contributivi concessi dall’INPS – la legge impone una indagine sui concreti assetti proprietari e sull’esistenza di rapporti di collegamento o di controllo tra impresa che pone in mobilità propri dipendenti ed impresa che assume ex novo detti dipendenti, venendosi così a consentire, proprio in ragione della natura degli interessi tutelati, l’accertamento di negozi fraudolenti anche in presenza di società dotate di propria autonoma e distinta soggettività;

inoltre, si è formulato il criterio operativo secondo cui, ai fini di ottenere l’applicazione dei benefici previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 8 (poi abrogato ad opera dalla L. n. 92 del 2012, art. 2, comma 71, lett. b), è necessario che si dia prova da parte di chi tali benefici invoca, che sia stata effettivamente raggiunto, nel complesso aziendale oggetto della vicenda circolatoria, oggettivamente considerato ed al cui interno si colloca la prestazione dei nuovi assunti, un livello occupazionale superiore a quello precedente;

perchè ciò si realizzi, dunque, nell’ipotesi di cessione d’azienda, è onere del nuovo datore di lavoro (cessionario) fornire la dimostrazione innanzi tutto della effettiva alterità tra le parti della vicenda traslativa e degli elementi di novità intervenuti nella struttura societaria e delle significative integrazioni apportate al complesso originario per consentire a quello ceduto di svolgere autonomamente la propria funzione produttiva;

inoltre, si è affermato che è necessario accertare che la situazione di esubero sia effettivamente sussistente e che l’assunzione del personale, in ordine al quale si pretendono gli sgravi, da parte di una nuova impresa risponda a reali esigenze economiche e non concreti condotte elusive finalizzate al solo godimento degli incentivi, sicchè il diritto ai benefici va escluso ove tra le due imprese sia intervenuto un contratto di affitto del complesso dei beni aziendali, idoneo a configurare un trasferimento di azienda che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., importa la continuazione dei rapporti di lavoro con l’acquirente (ex multis vd. Cass. 10428 del 2017; Cass. 18402 del 2016; Cass. n. 8800 del 2001 cit.);

in particolare, Cass. n. 18402 del 2016 ha avuto modo di affermare che i benefici de quo non spettino quando tra l’impresa che ha collocato i lavoratori in mobilità e quella che li assume siano configurabili gli elementi oggettivi della cessione d’azienda e ciò in continuità con orientamento più volte ribadito da questa Corte (Cass. 09/09/2015 n. 17838, 14/12/2011, n. 26873; 08/04/2011, n. 8069);

si è osservato che la finalità delle agevolazioni è quella di favorire l’occupazione dei lavoratori effettivamente espulsi dal mercato del lavoro e poichè, a norma dell’art. 2112 c.c., comma 1, in caso di trasferimento di un’azienda (o di un suo ramo), il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il trasferimento non costituisce di per sè motivo di licenziamento, questi è tenuto all’assunzione dei lavoratori;

la sussistenza di un obbligo di assunzione ostativo alla percezione dei benefici viene dunque riferita al medesimo complesso produttivo che ha collocato i lavoratori in mobilità, senza che ne rilevi la diversa titolarità; qualunque negozio traslativo che rivesta i caratteri oggettivi della cessione d’azienda non può quindi comunque determinare elusione della normativa previdenziale, non disponibile dalle parti per effetto delle sue ripercussioni sulla finanza pubblica;

tale orientamento, in sostanza, individua l’effettivo incremento occupazionale quale criterio operativo essenziale e significativo della legittimità della fruizione del beneficio contributivo;

tali benefici contributivi, legati ad assunzioni di talune categorie di lavoratori, devono essere giustificati dal necessario incremento occupazionale, principio affermato anche dalla normativa Europea (vd. l’abrogato Reg. (CE) n. 2204/2002, il Reg. (UE) n. 651/2014, attualmente in vigore, in base al quale gli Stati membri sono stati autorizzati a prevedere, nei rispettivi ordinamenti interni, incentivi per favorire l’occupazione di determinati soggetti svantaggiati, in deroga al divieto di aiuti di Stato disposto dall’art. 107 TFUE, purchè si realizzi un “incremento occupazionale netto” di tali categorie di lavoratori;

per il diritto interno, a livello nazionale, tutti i benefici relativi alle assunzioni emanati sulla scorta dei richiamati Regolamenti Europei, presupponevano in maniera implicita, ai fini del loro godimento, la realizzazione da parte del datore di lavoro dell’incremento occupazionale netto;

in linea evolutiva, peraltro, va ricordato che il D.Lgs. n. 150 del 2015, art. 31, lett. f), ha espressamente menzionato l’incremento occupazionale netto della forza lavoro, tra i principi generali di fruizione degli incentivi, specificando altresì che il calcolo deve essere effettuato mensilmente, confrontando il numero di lavoratori dipendenti equivalente a tempo pieno del mese di riferimento con quello medio dei dodici mesi precedenti, avuto riguardo alla nozione di “impresa unica” di cui all’art. 2, par. 2, Reg. (UE) n. 1408/2013;

si è così anche normativamente confermato che gli incentivi all’occupazione possono essere fruiti dai datori di lavoro solo ove l’assunzione per cui si chiede il beneficio faccia registrare all’interno dell’impresa richiedente un incremento dell’occupazione;

da tali premesse interpretative emerge evidente la correttezza della sentenza impugnata;

le spese di lite seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo in favore dell’Inps contro ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2020

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