Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4872 del 01/03/2018


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Cassazione civile, sez. II, 01/03/2018, (ud. 19/12/2017, dep.01/03/2018),  n. 4872

Fatto

1. Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. (RFI) con atto di citazione notificato in data 31 dicembre 1993 conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma C.M., esponendo che i suoi dipendenti oltre che gli occupanti la Casa Cantoniera posta al km. 44.172 della linea ferroviaria (OMISSIS), avevano esercitato nel tempo ed in maniera continuativa la servitù di passaggio sulla strada di proprietà della convenuta, la quale aveva acquisito il suo fondo con atto pubblico del Ministero dei Trasporti del 9 settembre 1961.

Lamentava che la convenuta illegittimamente impediva il perdurare del passaggio e concludeva affinchè la C. fosse condannata a non frapporre ostacoli al libero esercizio della servitù di passaggio, oltre al risarcimento dei danni, da liquidare anche in via equitativa.

Nella resistenza della convenuta, il Tribunale adito con la sentenza n. 36443 del 15/11/2003 rigettava la domanda, negando l’esistenza dell’invocata servitù.

RFI proponeva appello avverso tale decisione, e la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 4468 del 19 settembre 2012, in riforma della pronuncia di prime cure, dichiarava la sussistenza del diritto invocato dall’attrice, con la condanna della convenuta al rimborso delle spese del doppio grado.

In tal senso rilevava la sentenza di appello che già con la convenzione del 16 maggio 1936, con la quale il Ministero delle Comunicazioni – Ferrovie dello Stato aveva concesso ad A.E. ed a C.M., che all’epoca conduceva in affitto un terreno delle Ferrovie, soggetto a servitù di passaggio, di chiudere la strada in esame, con un cancello di ferro, allo scopo di evitare l’introduzione di estranei, si era specificato che restava in facoltà della concedente rimuovere ad libitum il cancello, assicurando in tal modo il permanere della servitù di transito sulla strada come da titolo precedente. Successivamente con l’atto di compravendita del 9 settembre 1961, la C. aveva acquistato il fondo su cui grava la pretesa servitù, e nel contratto si prevedeva lo specifico vincolo di mantenimento perpetuo a sedime stradale, con tutte le relative servitù di passaggio che vi gravavano, con l’obbligo dell’acquirente di non poter nulla pretendere al riguardo dalla alienante Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato.

Si trattava di una servitù di passaggio costituita in favore dell’alienante, che non risulta essere venuta meno, come peraltro confermato dalle stesse missive versate in atti dalla convenuta, che attestano come il passaggio si sia protratto negli anni, sebbene la C. avesse preteso dal casellante il compimento di alcune attività di conservazione della strada, onde poter continuare ad attraversare il suo fondo.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione V.A., G., L., S., F., M. e P. nonchè O.A., tutti quali eredi della defunta convenuta sulla base di un motivo.

RFI ha resistito con controricorso.

2. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1027,1362,1363,1364 e 1368 c.c., l’omessa valutazione del fatto decisivo costituito dall’inesistenza di qualsivoglia servitù a favore dell’attrice nonchè l’omessa, insufficiente e contradditoria motivazione.

Si deduce che erroneamente la sentenza d’appello ha ritenuto che in epoca anteriore all’atto di alienazione del fondo del 1961 già esistesse un diritto di servitù in favore dell’alienante, omettendo di considerare, come peraltro confermato dall’atto concessorio del 1936, che sia il fondo dominante che il preteso fondo servente appartenevano allo stesso soggetto, il che esclude ex art. 1027 c.c., la giuridica configurabilità di un diritto di servitù.

Il richiamo alla salvezza delle preesistenti servitù, compiuto nell’atto con il quale la dante causa dei ricorrenti ha acquistato, non poteva quindi estendersi alla servitù oggetto di causa, essendo invece necessario che fosse manifestata in maniera univoca la volontà di costituire con tale atto un nuovo diritto di servitù a favore della venditrice.

La sentenza impugnata risulta quindi avere anche erroneamente applicato le norme in tema di interpretazione del contratto.

Orbene, evidenziata l’inammissibilità del motivo nella parte in cui, nell’enunciare il vizio di motivazione della sentenza gravata, fa rinvio alla ormai abrogata e non applicabile alla fattispecie formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (trattasi di ricorso avverso sentenza pubblicata in data successiva all’11 settembre 2012, per la quale è invocabile la novella di cui alla L. n. 134 del 2012), il motivo è in ogni caso infondato, e deve essere rigettato, pur apparendo necessario apportare delle correzioni all’impianto motivazionale della sentenza gravata.

Ed, invero, effettivamente risulta pacifico che inizialmente sia il preteso fondo dominante (e cioè la proprietà ferroviaria, ove sono ubicate la rete ferroviaria, la stazione e la casa cantoniera) che quello servente (acquistato nel 1961 dalla C.) appartenevano al medesimo soggetto, e cioè all’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato, sicchè alla data del 1936, allorchè venne concesso alla C. ed alla A., che conducevano in affitto il bene poi acquistato, di poter apporre un cancello lungo la strada che permetteva di raggiungere dalla stazione e dalla casa cantoniera la pubblica via, non poteva giuridicamente configurarsi una servitù di passaggio sul fondo detenuto dalla convenuta, alla luce del disposto dell’art. 1027 c.c., richiamato da parte ricorrente.

Appare quindi effettivamente erronea l’affermazione dei giudici di appello secondo cui già nel 1936 il fondo oggetto di causa fosse gravato di servitù di passaggio.

Emerge, piuttosto, che dall’atto più risalente nel tempo sia dato evincere la ricorrenza di una situazione di fatto che già vedeva l’esistenza di segni ed opere visibili (quale appunto la sede stradale lungo la quale la convenuta era autorizzata ad apporre un cancello) indici non equivoci ed obiettivi del peso imposto su di uno dei due fondi, allorquando erano di proprietà di un unico soggetto, palesandosi quindi in maniera evidente gli estremi per la insorgenza del diritto di servitù ex art. 1062 c.c. nel momento della alienazione di uno dei due fondi (essendo indubbiamente comprovato dallo stesso tenore dell’atto di acquisto della C. che tale situazione permanesse alla data del 1961).

In ogni caso la sentenza di appello ha poi richiamato il contenuto dell’atto di acquisto del 1961, facendo menzione della parte in cui si prevedeva che la stradella, lungo la quale l’attrice pretende di esercitare la servitù, era alienata con lo specifico vincolo di mantenimento perpetuo a sedime stradale, con tutte le servitù di passaggio che vi gravano, come appunto ribadito all’art. 1 del contratto.

Assumono i ricorrenti che in tal modo la sentenza avrebbe erroneamente ravvisato nell’atto de quo la fonte della servitù, senza che però sia dato ravvisare un’effettiva volontà costitutiva dello ius in re aliena.

Orbene, a tal fine va richiamato il pur risalente, ma tuttora condivisibile orientamento di questa Corte per il quale (cfr. Cass. n. 2433/1966) quando – nell’alienare i fondi, tra i quali sussiste una situazione di asservimento corrispondente ad una determinata servitù (attiva o passiva) – l’unico proprietario dichiara di vendere i fondi stessi mantenendo ferma quella medesima condizione di asservimento, occorre interpretare la volontà dei contraenti, per accertare se, con quella dichiarazione, si sia inteso soltanto riconfermare la permanenza della situazione di fatto, atta a determinare, con la separazione dei fondi, il sorgere della servitù per destinazione del padre di famiglia o se invece si sia inteso, indipendentemente da ciò, stabilire una nuova servitù, sulla base della convenzione intervenuta tra le parti, essendo devoluto al giudice del merito, siccome inerente all’interpretazione della volontà contrattuale, il compito di accertare, in concreto, se la clausola in cui è menzionato lo stato di asservimento dei fondi costituisca titolo autonomo per il sorgere della servitù oppure costituisca semplicemente una manifestazione di accertamento ricognitivo dello stato di fatto preesistente.

Nel caso in esame, ove si reputi che la sentenza gravata abbia inteso rinvenire nel titolo de quo la volontà delle parti di dare vita ad una nuova servitù, stante l’assoluta genericità della denuncia di violazione delle norme di ermeneutica contrattuale, semplicemente richiamate, ma in assenza di una puntuale indicazione degli errori interpretativi ascrivibili al giudice di merito, l’affermazione secondo cui l’atto in esame non sarebbe idoneo a dare vita ad una servitù di passaggio per contratto, si risolve in una mera censura di fatto, come tale non suscettibile di poter esser esaminata da questa Corte (dovendosi a tal fine richiamare anche il principio secondo cui – cfr. ex multis Cass. n. 8802/2000 – l’esigenza che nell’atto costitutivo di una servitù siano specificamente indicati tutti gli elementi di questa non implica la necessità della espressa indicazione ed analitica descrizione del fondo servente e di quello dominante essendo sufficiente che i predetti elementi siano comunque desumibili dal contenuto dell’atto, ben potendosi quindi ritenere soddisfatto il requisito di specificità del contenuto dell’atto con il riferimento alla stradella pacificamente preesistente in loco). La soluzione della controversia peraltro non sarebbe diversa anche nel caso in cui si ritenga di accedere alla diversa soluzione per la quale la servitù in realtà avrebbe la sua fonte non nel negozio di alienazione, ma nella previsione di cui all’art. 1062 c.c., della cui ricorrenza le parti contraenti si sarebbero limitate a prendere atto, non potendosi in tal senso addurre una pretesa diversità della domanda proposta (cfr. a tal fine, Cass. n. 26973/2005, secondo cui con riferimento alla categoria dei diritti “autodeterminati”, ai fini della precisazione della “causa petendi” non è necessaria la corretta indicazione delle norme applicabili al caso e dei relativi istituti giuridici, essendo invece sufficiente la chiara indicazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, sicchè sussiste “mutatio libelli” vietata in appello solo quando all’iniziale domanda si sostituisca una pretesa intrinsecamente diversa, sulla quale sia del tutto mancato, in primo grado, il contraddittorio. In particolare, per quanto riguarda la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la “causa petendi” si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte, essendosi quindi ritenuta corretta la decisione che a fronte dell’accoglimento in primo grado della domanda di declaratoria della acquisizione di una servitù di passaggio sulla base di titolo contrattuale, in secondo grado aveva accolto la domanda ritenendo la servitù costituita per destinazione del padre di famiglia, poichè gli elementi di fatto e le vicende giuridiche esposti dall’attore nella domanda inizialmente formulata erano sufficienti a delineare, anche in mancanza di una espressa menzione dell’art. 1062 c.c., la destinazione del padre di famiglia quale fatto costitutivo del diritto di transito oggetto della controversia).

In tal senso la decisione impugnata non afferma esplicitamente che la servitù sia stata costituita per contratto, ma sembra dare per sussistente la servitù già da prima, affermazione questa che va di per sè ritenuta erronea, ma che comunque denota la ferma convinzione del giudice di merito che, proprio alla luce del combinato tenore dell’atto concessorio del 1936 e del richiamo alla permanenza del vincolo nell’atto del 1961, il fondo alienato fosse stato gravato di un peso con modalità tali da favorire l’insorgenza del diritto di servitù rivendicato dall’attrice, una volta intervenuta la separata alienazione del fondo onerato.

Va infatti ricordato che (cfr. ex multis Cass. n. 6520/2008) a norma dell’art. 1062 c.c., la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia è impedita solo dalla contraria manifestazione di volontà del proprietario dei due fondi al momento della loro separazione, e tale contraria manifestazione di volontà non può desumersi per “facta concludentia”, ma deve rinvenirsi in una clausola contrattuale con la quale si convenga esplicitamente di volere escludere il sorgere della servitù corrispondente alla situazione di fatto esistente fra i due fondi e determinata dal comportamento del comune proprietario, ovvero in una qualsiasi clausola il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra ed immutata la situazione di fatto che, in forza della legge, determinerebbe la nascita della servitù (conf. Cass. n. 13534/2011, nonchè non di recente Cass. n. 2746/1966, che appunto esprime la regola per la quale la servitù per destinazione del padre di famiglia è costituita ope legis ed a titolo originario, per il solo fatto che all’atto della separazione dei fondi lo stato dei luoghi esprima in modo non equivoco una situazione di subordinazione o di servizio di un fondo rispetto all’altro, tale da integrare, di fatto, il contenuto proprio di una servitù, dovendo prescindersi da ogni volontà dell’alienante tranne che essa non sia manifestata in senso contrario alla costituzione della servitù al momento della separazione dei fondi).

Anche in tale diversa prospettiva, le censure di parte ricorrente non paiono suscettibili di trovare accoglimento, avendo la sentenza gravata evidenziato, come detto, la ricorrenza in epoca anteriore alla vendita della situazione idonea a dare vita ad una servitù ex art. 1062 c.c., ed avendo poi ricordato come, lungi dal configurarsi una volontà di segno contrario, vi era un espresso riferimento al vincolo gravante sul fondo alienato, che anzi si intendeva anche far permanere nel futuro, una volta avvenuta la separazione dei due fondi.

3. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, come liquidate in dispositivo.

7. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2018

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