Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 486 del 11/01/2017

Cassazione civile, sez. lav., 11/01/2017, (ud. 12/10/2016, dep.11/01/2017),  n. 486

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Enrica – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10730-2011 proposto da:

FINEDIT FINANZIARIA EDITORIALE S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE XXI APRILE 11, presso lo studio dell’avvocato LUCIO

CORRADO MORRONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ORESTE VIA,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.F., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FEDERICO CESI 21, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE

TORRISI, rappresentato e difeso dagli avvocati PIETRO BRUNO, ALFONSO

MARIA COSENTINO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 430/2010 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 12/04/2010 R.G.N. 1873/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato MORRONE LUCIO CORRADO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza depositata in data 12 aprile 2010, rigettava gli appelli proposti da Finedit Finanziaria Editoriale s.r.l. e da G.F., avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza del 27 aprile 2007 con la quale era stata accertata l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato avente ad oggetto l’attività di redattore del “(OMISSIS)” svolta dal G., per il periodo 1/6/2000-8/12/2005 e condannata la società al pagamento della somma di Euro 30.988,84 a titolo di differenze retributive spettanti in relazione al rapporto de quo.

Osservava la Corte distrettuale, a fondamento del decisum, per quel che in questa sede rileva, che:a) la transazione intervenuta il 29/4/2009 fra le parti – invocata dalla Finedit s.r.l. per contrastare il diritto ex adverso azionato – aveva ad oggetto il rapporto di lavoro giornalistico intercorso nel periodo 1/3/2003-31/3/2004, ne disciplinava esclusivamente il profilo economico, e non aveva alcuna attinenza con le domande formulate nel giudizio, che concernevano, invece, il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato fra le parti, con decorrenza 1/6/2000, ed il connesso risarcimento del danno; b) l’attività prestata dal G. sin dal primo dei contratti a termine stipulati con la società era stata di natura subordinata.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la società Finedit affidato a quattro motivi resistiti con controricorso dalla parte intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve respingersi la pregiudiziale eccezione relativa alla inammissibilità del ricorso per mancata indicazione nell’atto e nella procura rilasciata a margine dello stesso, del nominativo del soggetto che ha sottoscritto la procura stessa, ritenuta illeggibile.

E’ stato infatti affermato che non produce nullità della procura la mancata indicazione del nominativo della persona che l’ha sottoscritta, ove non ne sia controverso il potere di rappresentanza, nè l’illeggibilità della firma, se questa possieda una precisa individualità propria e sia stata autenticata, così come nella specie, dal difensore (vedi Cass. 18/3/2013 n. 6712).

2. Va respinta, altresì, l’eccezione di tardività del ricorso.

In tema di notificazione, il momento di perfezionamento per il notificante, ai fini della tempestività dell’impugnazione è costituito galla consegna dell’atto da notificarsi all’ufficiale giudiziario, la cui prova può essere ricavata dal timbro, ancorchè privo di sottoscrizione, da questo apposto sull’atto, recante il numero cronologico, la data e la specifica delle spese, salvo che sia in contestazione la conformità al vero di quanto da esso desumibile, atteso che le risultanze del registro cronologico, che egli deve tenere ai sensi del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 116, comma 1, n. 1, fanno fede fino a querela di falso (cfr. Cass. 25/2/2015 n. 3755).

Orbene, dagli atti emerge che il ricorso è stato consegnato all’ufficiale giudiziario il 7 aprile 2011, entro il termine per l’impugnazione fissato dall’art. 327 c.p.c., essendo stata la sentenza d’appello depositata in data 12/4/2010. Il ricorso deve, pertanto, ritenersi ammissibile.

3. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si critica la sentenza impugnata per aver proceduto ad una erronea lettura dell’accordo transattivo inter partes. Si deduce che detta transazione, come specificato al punto 5, si riferiva al rapporto di lavoro intercorrente fra il G. e la Finedit, dal 1/6/2000 sino al 31/3/2004 comprendendo anche la relativa domanda risarcitoria, di guisa che ogni pretesa avanzata dal lavoratore in relazione a detto periodo, doveva ritenersi illegittima perchè superata dal sopravvenuto accordo, ai sensi dell’art. 2113 c.c..

4. Con il secondo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si rimarca l’erroneità degli approdi ai quali è pervenuto il giudice dell’impugnazione laddove ha accertato l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro qualificato dal vincolo della subordinazione che risultava, per contro chiaramente escluso dalle parti con il contratto di collaborazione stipulato in data 1/6/2000 – i cui contenuti erano stati anticipati dalla missiva 31/5/2000 di provenienza della società – e con il successivo accordo conciliativo. Si lamenta che in presenza di una non equivoca manifestazione di volontà delle parti, sia mancata una valutazione del materiale probatorio raccolto al fine di stabilire se il comportamento delle parti contemporaneo o successivo al contratto, potesse ragionevolmente far ritenere che il rapporto di fatto si fosse svolto nelle forme della subordinazione.

5. I motivi, per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, possono essere congiuntamente trattati.

Facendo riferimento, direttamente o indirettamente, ad una determinata interpretazione dell’accordo transattivo inter partes che si assume corretta, contrastante con l’interpretazione, ritenuta errata, data dal giudice di merito, essi si palesano inammissibili a norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 5.

6. Invero questa Corte ha ritenuto (Cass. S.U. 2/12/2008 n.28547, Cass. S.U. 3/11/2011 n.22726, Cass. 3/7/2015 n.13677) che il requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, il quale sancisce che il ricorso deve contenere a pena d’inammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, per essere assolto, “postula che sia specificato in quale sede processuale il documento è stato prodotto, poichè indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, allegare dove nel processo è rintracciabile”. La causa di inammissibilità prevista dal nuovo art. 366 c.p.c., n. 6, ha chiarito inoltre questa Corte, è direttamente ricollegata al contenuto del ricorso, come requisito che si deve esprimere in una indicazione contenutistica dello stesso.

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, in quanto quest’ultimo sia un atto prodotto in giudizio, richiede che si individui dove è stato prodotto nelle fasi di merito e, quindi, anche in funzione di quanto dispone l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, prevedente un ulteriore requisito di procedibilità del ricorso, che esso sia prodotto in sede di legittimità. Applicando tali principi al caso di specie, emerge che non risulta specificata in quale sede processuale è rinvenibile l’accordo sul quale la censura si fonda.

7. Nè l’eventuale presenza dei documenti in parola nei fascicoli di parte o di quelli d’ufficio del giudizio del merito potrebbe sanare l’inosservanza della prescrizione di cui al richiamato art. 366 c.p.c., n. 6 atteso che siffatta prescrizione (Cass. S.U. 25/3/2010 n. 7161 cit. come riaffermato anche da Cass. S.U. 23/10/2010 n.20075), è bene ribadire, va correlata a quella ulteriore, sancita a pena d’improcedibilità, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che deve ritenersi soddisfatta “qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile”. Specificazioni, queste, come sottolineato, del tutto carenti nel caso in esame.

Del resto neanche risulta trascritto nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, il testo del negozio transattivo di cui si denuncia la violazione ed il contenuto delle risultanze istruttorie di cui si deduce la mancata valutazione.

8. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ribadisce che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici del merito, non è stata raggiunta la prova atta a dimostrare la qualificazione in termini di locatio operarum, del rapporto di lavoro intercorrente fra le parti.

9. Con il quarto motivo si denuncia omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si deduce che l’iter motivazionale percorso dai giudici del gravame sia insufficiente, giacchè non fornisce una prova adeguata circa l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra le parti. In particolare si osserva che il contesto probatorio definito in prime cure era incerto, sicchè la Corte territoriale avrebbe dovuto fare applicazione della regola dell’onere probatorio piuttosto che del principio di non contestazione dei fatti da parte convenuta.

10. I motivi, la cui trattazione congiunta è consentita dalla connessione che li connota, sono privi di fondamento.

Va infatti rimarcato che in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Questo può rilevare solo nei limiti in cui l’apprezzamento delle prove – liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto – si sia tradotto in un iter formativo di convincimento affetto da vizi logici o giuridici, restando altrimenti insindacabile.

L’art. 116 c.p.c., comma 1, consacra il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento – salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale – è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonchè l’iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata; e tale apprezzamento è insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e giuridici (vedi fra le altre, in motivazione, Cass. 15/1/14 n.687).

11. Orbene, nello specifico, deve rilevarsi che la Corte di appello ha dato conto delle fonti del proprio convincimento ed ha argomentato in modo logicamente congruo. In particolare ha affermato che con la memoria di costituzione di primo grado la società non aveva mai contestato il contenuto delle mansioni svolte dal G. e la natura subordinata delle stesse, ma solo la durata dei contratti. Gli approdi ai quali era pervenuta si fondavano sia sullo specifico contenuto dei contratti medesimi, sia sul tenore delle prove testimoniali dedotte, con le quali la società mirava a dimostrare non il regime autonomo della attività lavorativa prestata dal lavoratore, bensì unicamente il rispetto degli accordi collettivi aziendali.

Nell’ottica descritta la censura formulata non appare idonea ad inficiare l’iter motivazionale seguito dal giudice del gravame, per la violazione del principio di autosufficienza, che impone non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. Cass. 11/1/2007 n.324). La doglianza non risulta, infatti, supportata da una ricostruzione delle precipue deduzioni formulate in relazione alla posizione avversaria, con la riproduzione delle difese articolate nel giudizio di merito recanti i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano e per le quali si propone una valutazione giuridica diversa da quella, asseritamente erronea, compiuta dalla Corte di merito (cfr. Cass. 29/9/2015 n.19218).

In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2017

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