Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4854 del 28/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 4854 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 18471-2010 proposto da:
MINISTERO AFFARI ESTERI C.F. 80213330584, in persona
del Ministro

up

tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui
Uffici domicilia

ope

legis, in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI n. 12;
– ricorrente –

2013
contro

3599

SACRIPANTI MARCO GIUSEPPE C.F. SCRMCG52CO2H501M;
– intimato –

Nonché da:

Data pubblicazione: 28/02/2014

SACRIPANTI MARCO GIUSEPPE C.F. SCRMCG52CO2H501M,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUDOVISI 16,
presso lo studio dell’avvocato ZAPPALA’ PIER LUIGI,
che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato
ZAPPALA’ ANDREA, giusta delega in atti;

contro

MINISTERO AFFARI ESTERI C.F. 80213330584;
– intimato –

avverso la sentenza n. 1116/2010 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/03/2010 R.G.N.
11010/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 10/12/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA l che ha concluso per il
rigetto di entrambi i ricorsi.

– controricorrente e ricorrente incidentale –

R.G. n. 18471/10
Ud. 10.12.13
Ministero degli affari esteri c. Sacripanti

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 9.11.06 il Tribunale di Roma, dichiarata l’illegittimità del
licenziamento disposto dal Ministero degli affari esteri nei confronti di Marco
Giuseppe Sacripanti — che era stato assunto con rapporto a tempo determinato per lo

svolgimento di una missione in Tunisia, per conto della Direzione Generale per la
Cooperazione allo Sviluppo, finalizzata all’attuazione del Programma di
manutenzione degli impianti frigoriferi nei porti di pesca — )condannava la predetta
amministrazione a pagare le retribuzioni maturate fino a quella che sarebbe stata la
pattuita scadenza del rapporto e rigettava le domande risarcitorie avanzate dal
dipendente.
Con sentenza depositata il 29.3.10 la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma
della pronuncia di prime cure, condannava il Ministero degli affari esteri anche al
pagamento di euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito
dal Sacripanti e di euro 517,52 a titolo di rimborso delle spese da lui anticipate nel
corso del rapporto lavorativo.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Ministero degli affari esteri affidandosi
a tre motivi.
Marco Giuseppe Sacripanti resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale
basato su un unico motivo e accompagnato da richiesta di condanna
dell’amministrazione ricorrente anche per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.;
illustra ulteriormente le proprie argomentazioni con memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Preliminarmente ex art. 335 c.p.c. si riuniscono i due ricorsi in quanto aventi ad
oggetto la medesima sentenza.

2- Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta violazione e falsa
applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c. nella parte in cui l’impugnata sentenza ha
accolto la domanda di risarcimento del danno all’immagine, conseguente al recesso
ante tempus dal rapporto, pur in assenza di prova del danno lamentato, danno che
sarebbe stato conseguenza della comunicazione delle ragioni del licenziamento alla
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FAO e alle autorità tunisine e della loro diffusione sul Bollettino della
Cooperazione; lamenta a riguardo l’amministrazione ricorrente che il Sacripanti non
ha dato prova del nesso eziologico fra il licenziamento e il danno all’immagine che
si sarebbe ripercosso su una perdita di clientela in realtà non dimostrata.

Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 1226 c.c. per avere la Corte territoriale proceduto ad una
liquidazione equitativa malgrado la carenza di prova del danno risarcibile.
Con il terzo motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 115,
116 e 437 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. per avere i giudici d’appello accolto anche la
domanda di rimborso di euro 517,52 per spese anticipate dal Sacripanti nel corso
del rapporto lavorativo in base alla mera mancata contestazione da parte
dell’amministrazione, nonostante l’assenza di prova a riguardo e l’inesistenza
nell’ordinamento, prima della novella dell’art. 115 c.p.c. ad opera dell’art. 45 legge
n. 69/09, d’un generale principio di non contestazione; ciò si è risolto — prosegue il
ricorso — in una sostanziale inversione dell’onere della prova; per altro, in appello il
ministero ricorrente aveva contestato anche la voce relativa al suddetto rimborso
spese, contestazioni che la Corte territoriale ha giudicato tardive e generiche
sebbene il divieto di nova in appello attenga soltanto alle eccezioni in senso stretto e
non anche a quelle in senso lato o alle deduzioni volte a contestare i fatti allegati
dalla controparte.

3- I primi due motivi del ricorso principale — da esaminarsi congiuntamente
perché connessi — sono infondati.
La gravata pronuncia ha ravvisato il danno all’immagine non già quale effetto del
mero licenziamento e/o della sua comunicazione alla FAO e alle autorità tunisine,
bensì quale diretta conseguenza dell’invio ad essi della lettera di recesso (in cui al
Sacripanti si addebitavano gravi comportamenti) e della sua diffusione anche
attraverso il Bollettino della Cooperazione, senza che di ciò l’amministrazione
abbia dato spiegazione alcuna.

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Si noti che la Corte territoriale è ben chiara nell’indicare che il fatto determinativo
di danno risiede in tali indebite diffusioni “anche a prescindere dalla illegittimità
del recesso” (come si legge a pag. 3 della sentenza).
E se è vero che pure il danno all’immagine costituisce danno conseguenza e non

danno in re ipsa, nondimeno esso — come tutti gli altri danni non patrimoniali — può
ritenersi provato anche mediante presunzioni e/o massime di comune esperienza o
fatti notori (cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n. 26972).
È ciò che ha fatto l’impugnata sentenza.
Non è, invece, conferente la censura relativa alla mancata prova del danno per
perdita della clientela, atteso che è la stessa sentenza impugnata a chiarire che il
risarcimento, in mancanza di deduzione e prova d’un diretto pregiudizio economico
in termini di perdita di clientela dello studio professionale del Sacripanti, è stato
accordato per il solo danno – non patrimoniale – all’immagine.
In ordine, poi, al quantum di tale risarcimento, il ricorrente principale non muove
specifiche censure alla liquidazione effettuata dai giudici del gravame, eseguita in
via equitativa conformemente all’art. 1226 c.c. e a costante insegnamento
giurisprudenziale di questa S.C. (v., da ultimo, Cass. 18.5.12 n. 7963).

4- Anche il terzo motivo di censura fatto valere dal Ministero ricorrente è
infondato.
La giurisprudenza invocata a pag. 11 del ricorso principale si riferisce a
controversie cui è applicabile il rito ordinario, rispetto al quale — effettivamente —
prima della novella dell’art. 115 operata dall’art. 45 legge n. 69/09 non era
configurabile un generale principio di non contestazione.
Tale principio — invece — è da lungo tempo applicato nel rito di cui agli artt. 409 e
ss. c.p.c., per costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 13.3.12 n.
3974; Cass. 3.7.08 n. 18202; Cass. 27.2.08 n. 5191; Cass. 16.12.05 n. 27833; Cass.
19.1.05 n. 996; Cass. 6.7.04 n. 12345; Cass. 5.3.04 n. 4556; Cass. 21.10.03 n.
15746; Cass. 15.1.03 n. 535; Cass. S.U. 23.1.02 n. 761), in virtù dell’art. 416 c.p.c.,
che impone al convenuto l’onere di prendere subito immediata e precisa posizione,
a pena di decadenza, in ordine ai fatti asseriti dall’attore, con la conseguenza che la
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mancata contestazione dei fatti costitutivi della domanda vincola il giudice a
ritenerli sussistenti, sempre che si tratti di fatti primari (cioè costitutivi,
modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio dall’attore o
dal convenuto che agisca in riconvenzionale, mentre i fatti secondari — vale a dire

quelli dedotti in mera funzione probatoria — possono contestarsi in ogni momento).
Il principio di non contestazione, inteso nei termini anzidetti, non importa
inversione dell’onere della prova, ma concorre ad una corretta delimitazione
dell’area dell’attività istruttoria superando la necessità di provare fatti che l’altra
parte non contesti specificamente in primo grado.
È dunque tardiva — come correttamente affermato dalla sentenza impugnata — la
loro contestazione solo in appello, la quale, pur non integrando eccezione in senso
proprio, risulta preclusa ostandovi il divieto di nova sancito dall’art. 437 c.p.c., che
riguarda non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma anche le
contestazioni nuove, ossia non esplicate in primo grado (cfr. Cass. 28.5.07 n.
12363; Cass. 16.2.2000 n. 1745) e ciò vuoi per il combinato disposto con l’art. 416
c.p.c. (che, infatti, parla di onere di tempestiva contestazione a pena di decadenza,
decadenza che verrebbe frustrata se le contestazioni potesse svolgersi anche
soltanto in appello), vuoi perché nuove contestazioni in secondo grado,
modificando i temi di indagine, trasformerebbero il giudizio d’appello da mera
revisio prioris instantiae in iudicium novum, il che è estraneo al vigente
ordinamento processuale (sia civile che penale).
Inoltre, altererebbero la parità delle parti esponendo l’altra parte — a fronte della
tardiva contestazione effettuata solo in appello – all’impossibilità di chiedere
l’assunzione di quelle prove cui, in ipotesi, aveva rinunciato ormai confidando nella
mancata contestazione ad opera dell’avversario.
In altre parole, è la logica stessa che presiede al principio di non contestazione e al
giudizio d’appello ad escludere che, spirato il termine di cui all’art. 416 c.p.c.,
possano introdursi nuove contestazioni in punto di fatto.
Unica deroga al principio come sopra ricordato è costituita dalla possibilità che il
giudice positivamente accerti d’ufficio l’esistenza o l’inesistenza di fatti non
contestati alla luce delle risultanze probatorie già ritualmente e tempestivamente
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acquisite (cfr. Cass. 4.4.12 n. 5363; Cass. 10.7.09 n. 16201), mentre nel caso di
specie i documenti forniti dal Ministero sono stati prodotti tardivamente, sicché
correttamente i giudici di merito non ne hanno tenuto conto.

5- Con unico motivo il ricorso incidentale prospetta violazione dell’art. 2697 c.c.e
degli artt. 115, 116, 416 e 437 c.p.c. nonché vizio di motivazione perché
l’impugnata sentenza, accogliendo le contestazioni formulate soltanto in appello dal
Ministero, ha negato il risarcimento del danno per il mancato passaggio alla dogana
tunisina degli effetti personali del Sacripanti nonostante l’omessa contestazione a
riguardo da parte del Ministero in primo grado e, comunque, malgrado le prove
documentali fornite dal Sacripanti medesimo e immotivatamente trascurate dalla
Corte territoriale.
Il motivo va disatteso.
Mentre in ordine al rimborso di euro 517,52 per spese anticipate dal Sacripanti nel
corso della missione è la stessa impugnata sentenza a dare espressamente atto della
omessa tempestiva contestazione da parte del Ministero, non altrettanto si legge in
essa circa la domanda risarcitoria per il mancato passaggio alla dogana tunisina
degli effetti personali.
Pertanto, in tal caso era onere del ricorrente incidentale formulare il motivo di
censura nel rispetto dell’art. 366 co. l ° n. 6 c.p.c. (vale a dire indicando
specificamente gli atti e i documenti su cui Si fondava la propria impugnazione) e
allegare o trascrivere, almeno in parte, il tenore della memoria difensiva in primo
grado del Ministero per evidenziare l’asserita omessa contestazione di tale voce di
danno ed indicare specificamente i documenti che avrebbero dimostrato la
responsabilità dell’amministrazione.
Non avendo a ciò provveduto, il ricorso incidentale si rivela non autosufficiente.

6- Non si ravvisa temerarietà del ricorso principale, considerato — altresì — l’esito
alterno che nei gradi di merito avevano avuto le domande risarcitone da esso
investite.

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7- In conclusione, entrambi i ricorsi sono da rigettarsi.
La reciproca soccombenza nel presente giudizio di legittimità consiglia di
compensare le spese relative.

La Corte,
riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 10.12.13.

P.Q.M.

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