Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4835 del 01/03/2018


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 4835 Anno 2018
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: MANNA FELICE

ORDINANZA
sul ricorso 253-2015 proposto da:
PERRIELLO ROCCO, elettivamente domiciliato in ROMA,
PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORII di
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE
GIACOMINO;
– ricorrente contro

GRAZIADEI MICHELE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
CIRO MENOTTI 1, presso lo studio dell’avvocato MARCO
SAPONARA, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO
CHIARINI;

controricorrente

avverso la sentenza n. 187/2014 della CORIE D’APPELLO di
POTENZA, emessa il 16/05/2014;

Data pubblicazione: 01/03/2018

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non
partecipata del 16/11/2017 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA.
RITENUTO IN FATTO
Il geom. Rocco Perriello agiva innanzi al Tribunale di
Potenza per la condanna dell’arch. Michele Graziadei al
pagamento del residuo compenso dovutogli per prestazioni

della legge n. 219/81.
Il convenuto nel resistere alla domanda deduceva di aver
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per l’elaborazione
chiesto la collaborazione del.e_
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di taluni rilievi e di non aver concluso con lui alcun accordo,
essendo il Perriello dipendente del comune di Campomaggiore
con mansioni relative proprio ai procedimenti

ex lege n.

219/81.
Il

Tribunale

rigettava

la

domanda,

sulla

duplice

considerazione che il presunto accordo concluso tra le parti
fosse nullo per illiceità della causa, sia per il palese conflitto
d’interesse del Perriello derivante dal suo rapporto dapprima di
convenzione, dal 15.11.1983 al 31.12.1987, e poi d’impiego,
dal 1°.1.1988, con il comune di Campomaggiore; sia per
violazione dell’art. 241 TU. Legge comunale e provinciale del
1934, che vietava ai dipendenti di concludere contratti per lo
svolgimento di prestazioni di tipo professionale.
L’appello proposto dal Perriello era dichiarato inammissibile
dalla Corte territoriale di Potenza, con sentenza n. 187/14.
Osservava la Corte d’appello che l’appellante aveva dedotto
che per i tecnici in regime di convenzione il divieto di
assumere incarichi professionali privati era stato introdotto
soltanto con l’art. 1, comma 5, D.L. n.19/84, eliminato però in
sede di conversione. Ma tale motivo d’impugnazione non
aggrediva adeguatamente la ratio decidendi della sentenza di

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professionali (perizie), relative a lavori da finanziare ai sensi

primo grado, basata sul conflitto d’interessi e sull’espresso
divieto di cui all’art. 241 T.U. Legge comunale e provinciale del
1934. Né la mancata previsione di una norma ad hoc che
vietasse l’assunzione di incarichi privati avrebbe potuto
significare che l’attività professionale privata non confliggesse
con i doveri inerenti alla funzione pubblica.

sulla base di quattro motivi.
Michele Graziadei resiste con controricorso.
Su proposta di declaratoria d’inammissibilità, il ricorso è
stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis c.p.c.,
modificato, a decorrere dal 30 ottobre 2016, dall’art. 1bis, comma 1, lett.

e), D.L. 31 agosto 2016, n. 168,

convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n.
197.
La parte ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. – Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa
applicazione dell’art. 345, 348, 348-bis, 348-ter e 358 c.p.c.,
poiché l’inammissibilità del gravame rilevata dalla Corte
d’appello non risulta essere stata inquadrata in alcuna
fattispecie legale.
Il secondo motivo allega la violazione o falsa applicazione
degli artt. 1325, 1343 e 1418 c.c. Parte ricorrente deduce che
«a parte che la contestazione sulla inesistenza della nullità del
contratto tra le parti per illiceità della causa risulta,
espressamente ed implicitamente, dallo stesso atto di gravame
(…) è proprio la Corte d’appello a darne conferma quando in
premessa (…) dà atto dei rilievi mossi dal Perriello sulla
inesistenza di un divieto all’esercizio della libera professione».
Inoltre, prosegue, il richiamo alla presunta illiceità della causa
del contratto è inappropriato perché manca la violazione di
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La cassazione di tale sentenza è chiesta da Rocco Perriello

una norma di legge che impedisse l’esercizio di una libera
attività professionale compatibilmente con la convenzione in
allora esistente tra il Perriello ed il comune di Campomaggiore.
Il terzo mezzo espone la violazione della legge n. 219/81 e
dell’art. 241 T.U. Legge comunale e provinciale del 1934.
Afferma parte ricorrente che quest’ultima norma prevede(va)

segretario comunale e di segretario provinciale, nonché di
impiegato e salariato dei comuni, delle Provincie e dei
Consorzi, era incompatibile con ogni altro ufficio retribuito a
carico dello Stato o di altro ente; e che a parte la suddetta
clausola di salvaguardia, il Perriello fu chiamato dal comune di
Campomaggiore solo come convenzionato ad esercitare le
funzioni di tecnico in base alla legge n. 219/81, la quale,
avendo natura eccezionale, prevaleva sulle disposizioni
comuni. Inoltre, a lui non era imposto alcun divieto essendo
soltanto in rapporto di convenzione col comune.
Il quarto motivo deduce la violazione o falsa applicazione
delle norme sulla incompatibilità nel pubblico impiego e sul
conflitto di interessi, anche in spregio al principio generale del

nullum crimen sine lege. La sentenza impugnata ha fatto
ricorso a nozioni di incompatibilità e di conflitto di interessi
senza tuttavia precisare da quali disposizioni le abbia tratte.
2. – Il ricorso è inammissibile.
Secondo il costante indirizzo di questa Corte, il principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la
propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice
di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover
procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale
anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si
denuncino errori da parte del giudice di merito; ne consegue
che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione
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che salvo che la legge disponesse altrimenti, l’ufficio di

dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla mancata declaratoria di
nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve
riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti
motivi formulati dalla controparte (Cass. nn. 86/12 e
9734/04). Per converso, speculare onere grava sulla parte
ricorrente che si dolga della dichiarazione d’inammissibilità

impugnata.
Inoltre, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di
ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali
giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la
decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse
rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura
relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva
l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso
potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (cfr.

ex

multís, Cass. nn. 9752/17 e 2108/12).
Ed infine, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del
giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia
denunciato un error in procedendo, presuppone comunque
l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è
dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di
inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza
impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali
alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve
essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il
principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente
censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di
specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare,
nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione
del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il
motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può
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dell’appello per difettosa impugnazione della sentenza

limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il
contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa
specificità (Cass. nn. 21621/07 e 20405/06).
Dall’applicazione congiunta di tali – del tutto pacifici principi, deriva che il ricorrente per cassazione, il quale censuri
la sentenza d’appello che abbia ritenuto inammissibile il

decidendi su cui si basava la sentenza di primo grado, ha
l’onere di specificare il contenuto del proprio appello ai fine di
dimostrare di aver, quanto meno implicitamente, censurato
entrambe le rationes.
2.1. – Nello specifico, parte ricorrente ha affidato tale
confutazione ad un’espressione del tutto aspecifica e
insondabile («a parte che la contestazione sulla inesistenza
della nullità del contratto tra le parti per illiceità della causa
risulta, espressamente ed implicitamente, dallo stesso atto di
gravame L.] è proprio la Corte d’appello a darne conferma
quando in premessa […] dà atto dei rilievi mossi dal Perriello
sulla inesistenza di un divieto all’esercizio della libera
professione»), che non vale minimamente a chiarire se ed in
qual modo l’atto d’appello contenesse una qualche
argomentata critica alla nullità della causa contrattuale
ritenuta dal giudice di primo grado. Né la presenza di una tale
censura può essere desunta da un passaggio della motivazione
della sentenza d’appello che la presupporrebbe, atteso da un
lato che tale sentenza nega per l’appunto proprio il requisito di
specificità del gravame, e dall’altro che l’esistenza di un
espresso divieto all’assunzione di incarichi privati ai sensi
dell’art. 241 T.U. del 1934 formava oggetto non della prima,
ma della seconda ratio decidendi posta a fondamento della
sentenza del Tribunale.

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gravame per mancata confutazione di una delle due rationes

3. – Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con
assorbimento dei restanti motivi, non essendo stata censurata
in maniera specifica la

ratio decidendi su cui si basa la

sentenza d’appello.
4. – Seguono a carico del ricorrente le spese, liquidate come
in dispositivo, e il raddoppio del contributo unificato.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente alle spese, che liquida in C 2.700,00, di cui 200,00
per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma

1 quater D.P.R. n. 115/02,

inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, dichiara la
sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis

dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta
sezione civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il
16.11.2017.
Il Presidente
dr. Stefano Petitti
/
I

P. Q. M.

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