Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4834 del 19/03/2019

Cassazione civile sez. II, 19/02/2019, (ud. 03/10/2018, dep. 19/02/2019), n.4834

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16538-2015 proposto da:

IMMOBILIARE RAFFAELLA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CAROLEO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCO BRUMANA

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CICERONE, 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS,

rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO TODARELLO e CORBOYONS

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2123/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 18/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/10/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

viste le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. TRONCONE Fulvio che ha concluso per

l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza dei motivi 1, 2, 3,

7 ed 8, e per l’infondatezza dei motivi 4, 5 e 6;

lette le memorie di parte ricorrente;

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Il condominio (OMISSIS) conveniva in giudizio la Immobiliare Raffaella S.r.l., lamentando che la convenuta aveva realizzato sull’area denominata “(OMISSIS)” un fabbricato a confine con l’edificio condominiale, ma a distanza inferiore a quella di legge individuata nella previsione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9.

Il Tribunale di Milano – sezione distaccata di Legnano rigettava la domanda ma la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 2123 del 18 maggio 2015, in accoglimento del gravame del condominio condannava la società convenuta a demolire ed arretrare le porzioni del fabbricato H, compresi i balconi sulle medesime aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10 dal frontistante condominio, secondo le indicazioni contenute nella CTU alle pagg. da 15 a 19, nonchè al risarcimento del danno che quantificava nell’importo di Euro 10.000,00.

Rilevavano i giudici di appello che le risultanze della CTU avevano permesso di evidenziare che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società appellata era posto a confine con l’edificio condominiale, dovendo quindi trovare applicazione l’art. 873 c.c. con il rinvio alle fonti integrative locali.

Tuttavia il potere normativo secondario degli enti locali trovava un limite nelle previsioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, emanato in applicazione dell’art. 41 quinquies della legge urbanistica come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 17.

Infatti, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, tale norma, sebbene non direttamente applicabile, è però inderogabile da parte degli enti locali che devono conformarsi a quanto nella stessa prescritto, con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali deve essere disapplicata, occorrendo assicurare il rispetto della distanza assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.

Per l’effetto, risultava erroneo quanto affermato dal Tribunale che aveva ritenuto di assicurare prevalenza alle previsioni delle NTA del PRG del Comune di Legnano, che invece non prescrivevano la detta distanza di metri 10 tra pareti finestrate.

Pertanto, poichè la costruzione della società era da intendersi come edificio nuovo costruito in Zona Omogenea Speciale Piano Integrato di Intervento Area (OMISSIS), dalle risultanze della CTU emergeva che le pareti finestrate della convenuta si ponevano a distanza inferiore a metri 10 dalla facciata del fabbricato condominiale.

Ciò imponeva quindi la condanna della società alla riduzione in pristino, con l’ordine di demolizione e/o arretramento sino alla distanza di metri 10.

Infine, era reputata meritevole di accoglimento anche la domanda risarcitoria, sebbene limitata al solo danno subito temporaneamente dalla data della costruzione sino a quella in cui sarebbe stata eseguita la riduzione in pristino, danno equitativamente determinato nell’importo di Euro 10.000,00.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Immobiliare Raffaella S.r.l. sulla base di otto motivi illustrati da memorie.

Il Condominio (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 e dell’art. 113 c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di parete finestrata include le sole pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza quindi potere prendere in esame le semplici aperture lucifere.

Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non consentono una possibilità di affaccio stante la collocazione di una sbarra metallica, dovendosi altresì escludere che abbia rilevanza ai fini della norma in esame la presenza di balconi o di una porta.

Il secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la sentenza ha omesso di considerare l’assenza di finestre, intese quali vedute, sulla parete del fabbricato di parte convenuta, come peraltro sempre eccepito in tutti gli scritti difensivi.

Il terzo motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 la nullità della sentenza per assenza di motivazione, quanto alla qualificazione della parete come finestrata, nonchè per avere fatto riferimento esclusivo alla consulenza di parte attrice e non anche agli accertamenti del CTU, e ciò in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 118disp. att. c.p.c., art. 61c.p.c. e artt. 24 e 111 Cost..

I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l’arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del dispositivo.

La tesi della ricorrente è che, perchè possa invocarsi la previsione di cui al citato D.M. del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame.

Ritiene il Collegio che tuttavia l’interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016), poichè nella disciplina legale dei “rapporti di vicinato” l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione “pareti finestrate” contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come “vedute”, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette “lucifere” (conf. Cass. n. 6604/2012).

Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell’ampiezza dell’angolo), e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l’applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 5/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonchè T.A.R. L’Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per “pareti finestrate”, non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento).

Ne consegue che, attesa la presenza di balconi lungo la parete dell’edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l’affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda.

Nè sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società.

4. Il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda subordinata proposta dall’appellata con la conseguente violazione dell’art. 1123 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost..

Si deduce che la società nel corso del giudizio di merito ha richiesto, in via subordinata, che la condanna fosse limitata all’esecuzione delle opere necessarie a garantire il rispetto del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, mediante la trasformazione delle finestre in luci o mediante le altre opere che la Corte di Appello avesse voluto stabilire, con esclusione della demolizione parziale dell’edificio, ma tale richiesta non è stata in alcun modo presa in esame.

Anche tale motivo è destituito di fondamento.

Ed, invero, deve in primo luogo farsi richiamo al costante orientamento di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 7809/2014) in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla “causa petendi”, intesa come l’insieme delle circostanze di fatto poste a fondamento della pretesa (conf. Cass. n. 475/2002; Cass. n. 1411/1999).

Nel caso in esame, assume tuttavia la ricorrente che aveva chiesto che la condanna, una volta riscontrata la violazione delle previsioni di cui al citato art. 9, fosse limitata alla sola adozione delle opere necessarie a garantire il rispetto della norma, con la trasformazione delle finestre in luci, ovvero delle altre opere che la Corte d’Appello avesse ritenuto di stabilire.

Ed, invero, in disparte il difetto di specificità del motivo nella parte in cui, pur denunciando un error in procedendo omette di riprodurre con precisione il contenuto delle deduzioni difensive alle quali fa riferimento, e dalle quali si dovrebbe desumere la violazione dell’art. 112 c.p.c. (cfr. sul rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 anche in caso di denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, Cass. S.U. n. 8077/2012), non ignora il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 9640/2006), allorquando il soccombente nel giudizio in tema di distanze per l’apertura di vedute e balconi impugni la sentenza del giudice di merito che lo abbia condannato alla demolizione dei propri balconi realizzati a confine in violazione dell’art. 905 cod. civ., deducendo che era sufficiente, ai fini del rispetto delle predette distanze, l’adozione di diversi specifici accorgimenti, deve affermarsi che l’eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione di legge lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il “prospicere” e l'”inspicere in alienum” (conf. Cass. n. 2343/1995).

Trattasi però di giurisprudenza che appare essenzialmente maturata nell’ambito della dedotta violazione delle distanze delle vedute, laddove nella vicenda in esame si dibatte in materia di distanze tra costruzioni, nella quale la presenza delle vedute è un presupposto fattuale per l’applicazione della più restrittiva norma di cui al menzionato art. 9.

Inoltre, come si ricava dalla lettura del motivo, la società aveva chiesto adottarsi i rimedi alternativi per la trasformazione delle vedute in luci, ma ciò sul presupposto, confermato dalla lettura dei primi tre motivi, che non spiegassero alcuna rilevanza ai fini della decisione i balconi pur esistenti lungo la facciata dell’edificio, balconi che invece sono da ritenersi decisivi ai fini della nozione di parete finestrata.

E’ il balcone in sè che legittima l’esercizio della veduta, avendone la sentenza impugnata disposto l’arretramento.

L’assenza di qualsivoglia riferimento ai balconi nelle richieste subordinate della società esclude pertanto che possa riscontrarsi la detta violazione dell’art. 112 c.p.c..

5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 nonchè dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre.

Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell’intera parete.

Il motivo è privo di fondamento.

Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale (Cass. n. 5017/2018) è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.

Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l’interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità.

Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007) ai fini dell’osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il D.M. n. 1444 del 1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata.

Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che, attesa l’idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi.

Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015, ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.

Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte.

Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n. 8383/1999) ai fini dell’applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che (cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perchè la “ratio” di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti.

Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011) ai fini dell’applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorchè solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicchè il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo “ratio” della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle pareti di questi, purchè sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento).

Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l’art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonchè Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell’applicazione dell’art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorchè solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell’uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l’arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82).

6. Il sesto motivo denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto avrebbe condannato la società a demolire parzialmente l’edificio sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10, secondo le indicazioni della CTU di cui alle pagg. da 15 a 19.

Si deduce che però la relazione del CTU si compone di sole nove pagine e che la stessa non consente di stabilire quali opere debbano essere realizzate.

Il motivo è privo di fondamento.

Ed, invero, quanto al numero delle pagine della CTU, il motivo difetta evidentemente del requisito di specificità avendo omesso di riprodurre in ricorso, in conformità di quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio.

Peraltro, la difesa della controricorrente ha evidenziato che in realtà all’elaborato d’ufficio risultano allegate, venendo ad integrarne il contenuto, anche le osservazioni del perito di parte attrice, che appunto occupano le pagine da 15 a 19 di cui si fa menzione in sentenza.

La stessa sentenza inoltre alla pag. 6 ha esattamente individuato le porzioni del fabbricato rispetto alle quali è stato riscontrato il mancato rispetto della distanza legale, facendo proprie le considerazioni di cui alle pagine ivi indicate, e mostrando in tal modo di condividerne la correttezza, ancorchè siano poi materialmente attribuibili alle osservazioni del consulente di parte attrice.

Infine, e considerato per quanto sopra esposto che l’ordine di demolizione ed arretramento deve intendersi esteso all’intera parete del fabbricato di parte ricorrente, laddove fronteggia l’edificio dell’attore, la condanna di cui al capo 1 del dispositivo non è affetta da indeterminatezza o genericità, ben potendosi in ogni caso supplire alle eventuali difficoltà di esecuzione con le modalità di cui all’art. 612 c.p.c..

7. Il settimo motivo di ricorso lamenta l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio costituito dalla collocazione dell’edificio della ricorrente nel centro storico di Legnano.

Infatti, anche il CTU aveva riferito della circostanza de qua, la quale era idonea ad incidere sull’applicazione della previsione di cui all’art. 9 del citato DM.

L’ottavo motivo denuncia quindi la violazione del menzionato art. 9 nonchè dell’art. 113 c.p.c., in quanto, stante la collocazione dell’edificio nel centro storico, non poteva invocarsi la previsione del distacco di metri 10 tra pareti finestrate, atteso che tale norma ha riguardo esclusivo alle costruzioni realizzate in zona diversa dal centro storico.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Ed, invero, quanto alla collocazione dell’edificio di parte ricorrente, va osservato che la sentenza impugnata alla pag. 6 ha puntualmente individuato la sua ubicazione dal punto di vista urbanistico, facendo riferimento al suo inserimento nella “Zona Omogenea Speciale – Piano Integrato di Intervento Area (OMISSIS)”, escludendo pertanto che il manufatto possa essere incluso nell’ambito della cd. zona A.

Atteso che ai sensi dell’art. 2 dello stesso DM, per zona A si intendono le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi, non può sostenersi che si tratti di nozione perfettamente sovrapponibile a quella peraltro del tutto generica di centro storico.

Inoltre anche a voler sul punto superare il difetto di specificità del ricorso, che del pari non riporta in maniera compiuta il contenuto della CTU, quanto alla precisa collocazione del bene nell’ambito della zonizzazione del territorio del Comune di Legnano, risulta prevalente e non adeguatamente contestata l’affermazione del giudice di merito che ha sottolineato come l’immobile sia inserito in una zona omogenea speciale, il che consente di invocare la previsione di cui al n. 2 del menzionato art. 9 che quanto alle distanze dispone che: “2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.

Ne risulterebbe quindi confermata la correttezza della soluzione alla quale è pervenuta la Corte distrettuale.

Va tuttavia evidenziato che anche laddove volesse opinarsi per il diverso inserimento del fabbricato nella zona A, come sembra auspicare parte ricorrente, ciò non produrrebbe vantaggi per la parte, atteso che alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 1616/2018; Cass. n. 29732/2017) l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968 – traendo la sua forza cogente dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies, commi 8 e 9 e prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti -, rappresenta una disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici, sicchè, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, così che sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non sussista alcun preesistente volume.

Nel caso in esame, attesa la qualificazione dell’edificio della ricorrente operata dai giudici di appello come edificio nuovo (pag. 6, rigo 23), la sua inclusione nella zona A, lungi dal giustificare l’applicazione di nome in materia di distanze meno restrittive, ne imporrebbe la totale demolizione, attesa la necessità di rispettare le distanze tra i volumi preesistenti, non apportando quindi alcun concreto vantaggio per la parte.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 3 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019

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