Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4826 del 24/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/02/2017, (ud. 20/12/2016, dep.24/02/2017),  n. 4826

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20160/2015 proposto da:

D.P.L. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA VIA

LIMA 20, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO IACOVINO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CAMPOBASSO P.I. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro

tempore, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli

avvocati MATTEO IACOVELLI, LEANDRA FIACCO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 74/2015 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 08/05/2015 R.G.N. 97/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/12/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato MATTEO IACOVELLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Campobasso, con la sentenza n. 74 del 2015 rigettava l’appello proposto da D.P.L. nei confronti del Comune di Campobasso avverso la sentenza non definitiva emessa tra le parti dal Tribunale di Campobasso il 5 novembre 2013, n. 314/2013.

2. Il D.P., dipendente del Comune, aveva adito il Tribunale, tra l’altro, impugnando il licenziamento intimatogli con determinazione dirigenziale del 13 aprile 2007 per giustificato motivo soggettivo affermato in ragione delle numerose assenze ingiustificate come da prospetti allegati. Il Tribunale aveva deciso con sentenza non definitiva la parte della domanda avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento.

In particolare, il Tribunale aveva ritenuto che a fronte delle obiettività documentali e delle sanzioni disciplinari già irrogate nessuna delle giustificazioni addotte fosse rilevante, nè quella di assentarsi dal lavoro per assistere i genitori malati, nè il malfunzionamento della macchinetta marcatempo, nè la mancata affissione del codice disciplinare.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il D.P. prospettando due motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso il Comune di Campobasso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si prospetta il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5). Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1; violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Ad avviso del ricorrente il Comune non aveva adempiuto all’obbligo di provare la giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento.

Assume il ricorrente che la Corte d’Appello aveva ritenuto superfluo argomentare sulle conversazioni intercorse tra il dirigente P. ed esso ricorrente, ma proprio dalla trascrizione delle registrazione di dette conversazioni era riscontrabile che le inosservanze degli orari di lavoro e le assenze ingiustificate erano riconducibili al malfunzionamento del sistema di rilevamento delle presenze del Comune; che aveva attestato la propria presenza in ufficio firmando i fogli di presenza che non risultavano controfirmati solo per inadempimento del dirigente.

Il malfunzionamento degli apparecchi, con la conseguente necessità di usare i fogli firma, risultava anche dalle testimonianze (testi D.M., D.S., P., R., Ra.), nonchè dai chiarimenti resi da esso ricorrente.

Dunque sussisteva omesso esame delle circostanza che esso ricorrente in ragione del malfunzionamento della macchinetta marcatempo provvedeva a registrare la propria presenza in ufficio sui fogli firma che mancavano della controfirma del dirigente.

1.1. Occorre precisare che il primo motivo di ricorso, benchè sia invocato in rubrica anche l’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1, e all’art. 2119 c.c., si sostanzia nella deduzione del vizio di motivazione nei termini sopra esposti in sintesi, quale carenza argomentativa, in ragione degli atti di causa (art. 115 c.p.c.) rispetto alla fattispecie legale costitutiva della giusta causa di licenziamento (art. 2119 c.c.).

1.2. La censura è inammissibile, innanzitutto perchè carente in relazione a quanto prescritto dall’art. 366 cpc, atteso che nella specie tutta l’esposizione del motivo risulta generica, mancando l’individuazione di “fatti” controversi in senso tecnico nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo degli stessi (intesa come idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinare senz’altro una diversa ricostruzione del fatto, non come idoneità a determinare la mera possibilità o probabilità di una ricostruzione diversa (v. tra le altre Cass. n. 22979 del 2004 e n. 3668 del 2013).

Occorre rilevare, poi, che nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. A norma dell’art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11 agosto 2012).

Nel sistema l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Dunque, per le fattispecie ricadenti ratione temporis nel regime risultante dalla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge. La legge in questo caso è l’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Perchè la violazione sussista, secondo le Sezioni Unite, si deve essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. Mancanza di motivazione si ha quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum”. Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).

Ciò non ricorre nel caso in esame, atteso che la Corte d’Appello ha preso in esame, motivando in merito, le conversazioni intercorse tra il D.P. e il P., le testimonianze (richiamando espressamente quella del D.M.), la deduzione del malfunzionamento della macchinetta segnatempo, le ragioni addotte dal D.P. che avrebbero dovuto legittimarlo ad assentarsi dal lavoro o ad accorciare l’orario lavorativo, ed ha, quindi, avvalorato la lettura che delle risultanze istruttorie aveva fatto il giudice di primo grado, siccome conducenti ad un’unica conclusione, quella per il cui il lavoratore aveva accumulato negli anni tutti i ritardi e le assenze di cui ai fogli non sottoscritti dal dirigente, mentre non era risultato dimostrato che tutto ciò era dipeso dal preteso malfunzionamento delle macchinette rivelatrici dell’orario di lavoro.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 25 del CCNL, del personale del comparto Regioni e autonomie locali e della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1 (art. 360 c.p.c., n. 3). Violazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

La Corte d’Appello si limitava a richiamare la motivazione resa in primo grado, senza effettuare un’analisi critica dei contenuti del gravame, che richiedevano la necessità di una diversa e nuova valutazione delle risultanze istruttorie.

In particolare, esso ricorrente aveva dedotto l’illegittimità/nullità/inefficacia dei provvedimenti disciplinari per la violazione della disciplina normativa e contrattuale. Il punto 10 dell’art. 25 del CCNL di settore prevedeva l’affissione del codice disciplinare, obbligo che il Comune di Campobasso non aveva ottemperato incorrendo nella violazione della regola procedurale di cui all’art. 7 dello statuto dei lavoratori.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Nella specie essendo dedotto un “error in procedendo”, questa Corte è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere – dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali, e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti.

L’esercizio di tale potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, tuttavia, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (Cass., n. 11738 del 2016, 19410 del 2015). Pertanto è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso di appello con i quali le questioni che si assumono non esaminate sono state devolute al giudice di secondo grado.

Nella specie, peraltro, la Corte d’Appello, prendeva in esame la questione e riteneva che era esonerata dall’esame di ogni altro motivo a cominciare da quello afferente l’affissione del codice disciplinare, poichè lo stesso non era sorretto da critiche giuridiche specifiche alla motivazione in proposito resa dal primo giudice (e qui da intendersi integralmente condivisa), bensì sterilmente ripropositivo di mere argomentazioni di sostegno ad una diversa tesi giuridica per cui norma etica o penale acquisterebbero disciplinare solo in quanto codificate e pubblicizzate; di contro la necessità della pubblicità non può riguardare un comune minimo etico e le fondamentali norme di ordine penale, come, peraltro, affermato da questa Corte con la sentenza 22626 del 2013 (Cass., n. cfr. n. 1926 del 2011) secondo cui: in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico”, mentre deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali.

4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro duecento per esborsi, Euro tremila per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 per cento sui compensi e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2017

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