Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4826 del 15/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 15/02/2022, (ud. 10/01/2022, dep. 15/02/2022), n.4826
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18152/2013 R.G. proposto da:
I.D., rappresentato e difeso per procura speciale dal
Prof. Avv. Nicola Pennella, con domicilio eletto in Roma, presso
Assonime, piazza Venezia n. 11;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,
con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della
Campania n. 96/03/13, depositata il 7 marzo 2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 gennaio
2022 dal Consigliere Michele Cataldi.
Fatto
RILEVATO
che:
1. I.D., esercente l’attività di “servizi contabili e fiscali da dottori commercialisti” (come da sentenza impugnata), propose ricorso contro l’avviso d’accertamento, in materia di Irpef, Irap ed Iva, di cui all’anno d’imposta 2005, con il quale, per quanto qui ancora d’interesse, l’Agenzia delle entrate, aveva disconosciuto la deducibilità e la detraibilità di costi afferenti fatture per operazioni inesistenti, con conseguenti maggiori imponibili ed imposte.
L’adita Commissione tributaria provinciale di Caserta rigettò il ricorso, ritenendo che il contribuente non avesse fornito la prova che le operazioni in questione, relative a prestazioni fatturate dalla s.r.l. “Le stagioni”, fossero state effettivamente realizzate.
Proposto appello dal contribuente, la Commissione tributaria regionale della Campania lo ha rigettato con la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 96/03/13, depositata il 7 marzo 2013. Avverso quest’ ultima decisione propone ricorso per cassazione il contribuente, affidandolo a quattro motivi.
Si è costituito l’Ufficio con controricorso.
Diritto
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis in ragione della data di deposito della sentenza impugnata, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Assume infatti il ricorrente che la CTR avrebbe errato nell’affermare che “lo stesso I., diversamente da quanto dichiarato in precedenza all’ufficio, dichiara nell’atto di appello di fornire copia degli assegni circolari girati in pagamento nonché copia della corrispondenza intercorsa con la ripetuta società. Di detta documentazione non c’e’ traccia agli atti.”. Infatti, secondo il contribuente, la documentazione in questione era stata invece allegata alla memoria di replica e deposito di documenti, versata dallo stesso appellante nel giudizio dinnanzi la CTR.
Il motivo è inammissibile, poiché “Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, sempre che ne ricorrano le condizioni.” (Cass. 11/06/2018, n. 15043; conforme, ex plurimis, Cass. 14/11/2016, n. 23173; Cass. 01/06/2007, n. 12904). Infatti, l’errore revocatorio “consiste nella viziata percezione o nella falsa supposizione (espressa e mai implicita) dell’esistenza o inesistenza di un fatto sostanziale o processuale, non controverso fra le parti, la cui esistenza o inesistenza è incontrastabilmente esclusa o positivamente stabilita, dagli atti o documenti della causa.” (Cass. 26/05/2021, n. 14610; conforme, ex plurimis, Cass. 24/09/2020, n. 20113).
Pertanto, è inammissibile la censura in esame, che avrebbe eventualmente dovuto essere proposta impugnando la sentenza con la revocazione.
2. Con il secondo motivo di ricorso il contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualificandolo come vizio di “insufficiente motivazione della sentenza”, il medesimo errore di cui al primo motivo, in subordine all’eventuale declaratoria di inammissibilità del mezzo precedente, nell’ipotesi in cui questa Corte ritenesse inapplicabile al giudizio tributario la novella apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, allo stesso art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il motivo è assorbito dalla decisione su quello precedente, che ha premesso l’applicabilità, ratione temporis, della versione novellata dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed è stato dichiarato inammissibile per ragioni diverse da quelle relative all’evoluzione normativa di quest’ultima disposizione.
3. Con il terzo motivo di ricorso (di cui alle pagg. 10 ss. del ricorso, in cui è erroneamente numerato come quarto) il contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 115 c.p.c., assumendo che la CTR avrebbe fondato la decisione su prove documentali in realtà non prodotte dall’Ufficio, il quale nessun documento avrebbe allegato a sostegno delle affermazioni che la s.r.l. che aveva fatturato le prestazioni di cui alle operazioni ritenute inesistenti era fallita ed il curatore aveva dichiarato che la procedura concorsuale si era chiusa per mancanza di attivo e nessuna documentazione fiscale e contabile era stata mai depositata dal legale rappresentante della medesima società ed acquisita dalla curatela.
La CTR, secondo il ricorrente, avrebbe quindi ritenuto ” esistenti e decisivi per la soluzione della controversia Li documenti non prodotti dall’Ufficio” (pag. 11 del ricorso).
Il motivo è inammissibile per plurime ragioni.
Infatti, la sentenza impugnata espone le predette circostanze come oggetto delle relative allegazioni da parte dell’Agenzia, ribadite in particolare nelle controdeduzioni erariali al ricorso introduttivo; ma non riconduce l’accertamento delle predette circostanze ad una produzione documentale dell’Amministrazione avvenuta nel corso del giudizio. Pertanto, quando il ricorso assume che la decisione sarebbe fondata su documenti in realtà non prodotti, non coglie la ratio decidendi espressa sul punto dalla sentenza impugnata. Ed è noto che “In tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata.” (Cass. 10/08/2017, n. 19989).
Inoltre, a fronte delle ridette specifiche deduzioni dell’Ufficio, il ricorrente non allega a sua volta se – ed eventualmente in quale atto dei giudizi di merito, ed in particolare con l’appello, e con quale contenuto specifico – egli abbia contestato puntualmente le medesime circostanze.
Pertanto, la censura è inammissibile anche perché nuova, ” giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio” (Cass. 09/08/2018, n. 20694, ex plurimis) ed il ricorrente non allega di aver specificamente contestato le deduzioni della controparte sui fatti in questione già nel primo grado di giudizio e poi nell’appello.
Infine, il motivo è comunque infondato, atteso che i fatti in questione, in difetto di specifica contestazione del ricorrente sul punto, risultano incontestati ed il loro accertamento trova quindi fondamento nel principio di non contestazione, applicabile anche nel giudizio tributario (Cass. 13/03/2019, n. 7127).
4. Con il quarto motivo di ricorso il contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 54 e dell’art. 2697 c.c..
Assume infatti il contribuente che la CTR avrebbe errato nel non attribuire all’Amministrazione l’onere di provare che il contribuente cessionario era (o avrebbe dovuto essere) a conoscenza che le operazioni in questione erano collegate ad evasioni o irregolarità fiscali che erano state realizzate dal cedente o da altri eventuali operatori intervenuti a monte della catena di operazioni.
Il motivo è infondato.
Appare opportuno premettere che dalla sentenza impugnata e dal corpo del ricorso e del controricorso, emerge che l’oggetto cristallizzato della controversia attiene l’inesistenza oggettiva delle operazioni in questione.
Tanto premesso, in ordine alla distribuzione dell’onere della prova nella materia controversa, secondo consolidato orientamento di questa Corte (recentemente ribadito anche da Cass. 16/06/2020, n. 11624, dalla cui motivazione sono tratte le argomentazioni che seguono) “ai fini della identificazione del soggetto onerato della prova, nella ipotesi di contestazione formulata dall’Ufficio in ordine alla inesistenza, o parziale inesistenza, delle operazioni commerciali fatturate, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato in tema di iva (ma i principi valgono per tutte le imposte accertabili mediante la contestazione della veridicità delle fatturazioni) che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass., sent. n. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013); in particolare, questa Corte, nelle ipotesi, come quella di specie, di operazioni oggettivamente inesistenti, ha affermato che ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass. nn. 21953/07, 9784/10, 9108/12, 15741/12, 23560/12; 27718/13, 20059/2014, 26486/14, 9363/15; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C-439/04; 21 febbraio 2006, C-255/02; 21 giugno 2012, C-80/11; 6 dicembre 2012, C-285/11; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, dopo di che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; tale prova, tuttavia, non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. nn. 28572 del 2017; 5406 del 2016, 28683 del 2015, 428 del 2015, 12802 del 2011, 15228 del 2001)” (Cass. 16/06/2020, n. 11624, cit., in motivazione).
La possibilità che l’Amministrazione assolva all’onere della prova anche mediante elementi indiziari, è stata peraltro già affermata costantemente da questa Corte, anche richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia (cfr. in particolare Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020, cit., in motivazione, al punto 14, con riferimento a Corte giustizia, 22 ottobre 2015, C-277/14; Cass., 30 dicembre 2019, n. 34723, cit., in motivazione, punto 3.2.; Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21104 del 24/08/2018, cit., in motivazione, al punto 3.2.; in generale, in ordine alla circostanza che la Dir. CE 2006/112/CEE, art. 273, non esclude che l’imponibile Iva possa essere accertato ricorrendo a presunzioni semplici, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione, cfr. Cass., 04/04/2019, n. 9453 e Cass. 02/04/2020, n. 7655, con riferimento a Corte giustizia, 05/10/2016, C.-576/15, Maya Marinova ET; Corte giustizia, 20/03/2018, C.-524/15, Luca Menci; Corte giustizia 21/11/2018, C.-648/16, Fortunata Silvia Fontana).
4.1. Nel caso sub iudice, l’inesistenza oggettiva delle operazioni, per quanto risulta dalla sentenza impugnata, è stata dedotta dall’Agenzia e ritenuta dalla CTR anche sulla base della circostanza che la prestazione fatturata (“attività di promozione commerciale connessa all’acquisizione di clientela per la qualificazione SOA e la certificazione ISO”) era del tutto estranea all’oggetto sociale (“commercio all’ingrosso di computer, stampanti ecc…”), quindi all’attività che deve presumersi specifica e tipica della fornitrice del servizio; il relativo contratto di promozione commerciale non recava la data della stipula, né era registrato (quindi non aveva data certa); ed il contribuente aveva dichiarato che il pagamento delle fatture era stato effettuato in contanti e non disponeva di documentazione al riguardo.
Si tratta di elementi fattuali la cui sussistenza il ricorrente non censura specificamente, neppure nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (ferma restando, comunque, la rilevata inammissibilità del primo motivo di ricorso e l’assorbimento del secondo).
Al riguardo, invero, la censura del ricorrente, nel quarto motivo, si limita alla deduzione astratta che, a prescindere dall’oggetto sociale dell’impresa, qualunque soggetto economico in contatto con le imprese avrebbe potuto svolgere la funzione di veicolo pubblicitario nell’interesse del contribuente. In questi termini, tuttavia, la censura è inammissibile, sia perché generica, sia perché attinge il merito della valutazione delle relative prove operata dal giudice a quo, senza peraltro neppure dedurre l’ipotetica violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. in tema di prova indiziaria (che comunque, in sede di legittimità, è possibile censurare solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso: Cass. 13/02/2020, n. 3541).
Gli elementi in questione costituiscono invero dati indiziari che, anche indipendentemente da ogni considerazione ulteriore sul fallimento e sulla mancanza di documentazione contabile e fiscale della fornitrice, possono legittimamente fondare il convincimento del giudice del merito, atteso che in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non devono essere necessariamente più d’uno, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi, e potendo, di conseguenza, il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purché grave e preciso, la valutazione della rilevanza del quale, peraltro, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (Cass. 27/07/2018, n. 19987).
Deve pertanto concludersi che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, non emerge dalla sentenza impugnata che l’inesistenza delle operazioni, nel caso di specie, derivi e sia stata desunta meramente e necessariamente dagli inadempimenti fiscali della fornitrice, essendo invece comunque fondato l’accertamento sull’indizio fattuale dell’incongruenza della prestazione con l’attività esercitata della società che l’avrebbe fornita e sulla mancanza della prova contraria del contribuente in ordine all’effettività della stessa operazione e finanche del suo pagamento.
Date tali premesse, la consapevolezza, da parte del contribuente, dell’inesistenza delle operazioni in questione non presupponeva quindi necessariamente che egli sapesse (o avrebbe dovuto sapere essere) anche che le operazioni in questione fossero in ipotesi collegate ad evasioni o irregolarità fiscali realizzate dal cedente o da altri eventuali operatori a monte, giacché, una volta accertata – attraverso i predetti elementi indiziari, in mancanza di prova contraria – comunque l’assenza oggettiva dell’operazione, egli necessariamente già sapeva se ed in quale misura avesse effettivamente ricevuto il bene o la prestazione. Il motivo è quindi infondato.
4.2. Giova aggiungere che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, “In tema d’IVA, l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo.” (Cass. 18/10/2021, n. 28628; conformi, ex plurìmis, Cass. 21/06/2018, n. 16473, in motivazione; Cass. 14/09/2016, n. 18118; Cass. 16/06/2020, n. 11624, cit., in motivazione, anche in ordine all’estensione dei relativi principi alle imposte dirette).
Tanto premesso, va allora rammentato che, con riferimento alla prova della consapevolezza di partecipare ad una frode, questa Corte ha già più volte precisato che, in tema d’Iva, l’amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 28628 del 18/10/2021; Cass. civ., 10 novembre 2020, n. 25113; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016).
A sua volta la giurisprudenza Eurounitaria, investita della questione ” se la sesta direttiva, art. 17, debba essere interpretato nel senso che, per negare al soggetto passivo destinatario di una fattura il diritto di detrarre l’IVA menzionata su tale fattura, sia sufficiente che l’amministrazione stabilisca che le operazioni alle quali tale fattura corrisponde non sono state effettivamente realizzate, o se sia necessario che tale amministrazione accerti parimenti l’assenza di buona fede di tale soggetto passivo” ha affermato che “(…) per negare al soggetto passivo destinatario di una fattura il diritto di detrarre l’IVA menzionata su tale fattura, è sufficiente che l’amministrazione stabilisca che le operazioni alle quali tale fattura corrisponde non sono state effettivamente realizzate” (Corte giustizia, sentenza 27/06/2018, nella cause riunite C-459/17 e C-460/17, SGI e Valeriane SNC).n questo senso.
Gli arresti giurisprudenziali Eurounitari citati dal ricorrente, dai quali dovrebbe ricavarsi che è invece necessaria la prova specifica, da parte dell’Amministrazione, della malafede, o della colpevole ignoranza, da parte del contribuente, che le operazioni in questione rientravano in un’evasione commessa dal soggetto emittente o da altri operatori intervenuti, non sono conferenti al caso di specie, nel quale si contesta che le prestazioni controverse siano mai state effettuate.
Infatti, negli arresti citati si evidenzia che ” le questioni poste si fondano sulle premesse secondo cui, in primo luogo, l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione è stata effettuata” e “ricorrono le condizioni di sostanza”, oltre che di forma, per l’esercizio del diritto a detrazione (Corte Giustizia, sentenza 22/06/2012 nella cause riunite C-80/11 e C-142/11, punti 44 e 52) e si trattano comunque specifiche fattispecie diverse da quella, qui sub iudice, nella quale l’Amministrazione assume che i servizi ai quali si riferisce l’Iva a monte non siano stati effettivamente forniti al soggetto passivo destinatario della fattura (cfr. Corte giustizia, sentenza 27/06/2018, cit., passim ed al punto 45, con riferimento specifico a Corte giustizia, sentenze 31/01/2013, nelle cause C-642/11, Stroy, e C-643/11, LVK, relative ad un contesto ” in cui non era stato stabilito che le cessioni di beni sulle quali si fondava il diritto a detrazione dei soggetti passivi interessati non erano effettivamente avvenute”).
E comunque, come questa Corte ha già rilevato, in tema di IVA, la volontaria utilizzazione di documentazione fiscale non corrispondente alla realtà economica (che nel caso di specie deriva dalla necessaria consapevolezza dell’inesistenza oggettiva della prestazione, mai effettivamente ricevuta), configurando nei confronti del contribuente la partecipazione ad una frode fiscale, gli impedisce di avvalersi del principio della tutela del terzo di buona fede, così come delineato dalla giurisprudenza unionale (cfr. Corte giustizia 06/07/2009, nelle cause riunite C-439/04 e C-440/04) e preclude, quindi, la detraibilità dell’imposta risultante dalle fatture (Cass. 19/08/2020, n. 17335; sull’indetraibilità, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, cfr. altresì Cass. 17/07/2020, n. 15288).
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022