Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4823 del 15/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 15/02/2022, (ud. 16/12/2021, dep. 15/02/2022), n.4823
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12381/12 R.G., proposto da:
Finecobank Banca Fineco s.p.a. in liquidazione, in persona del
liquidatore p.t., rappresentata e difesa, in forza di procura in
margine al ricorso, dall’avv.to Gabriele Escalar e dall’avv.to Livia
Salvini, con i quali è elettivamente domiciliata in Roma, Viale
Giuseppe Mazzini, n. 11;
– Ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,
elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso
l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope
legis;
– Controricorrente –
avverso la sentenza n. 38/24/11 della Commissione tributaria
regionale della Lombardia, depositata in data 29 marzo 2011, non
notificata;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Rosita
D’Angiolella nella camera di consiglio del 16 dicembre 2021.
Fatto
RILEVATO
che:
1. L’Agenzia delle entrate, Ufficio di Milano (OMISSIS), notificò, in data 12/03/2007, alla società Finecobank Banca Fineco s.p.a. (di seguito, per brevità, Fineco) avviso di accertamento, per Ires anno 2003, con il quale veniva ripresa a tassazione la somma di Euro 156.380,00, quali oneri sostenuti in relazione al cosiddetto welcome bonus, e la somma di Euro 2.674.691,00, quale credito d’imposta, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 14, relativo all’incasso di dividendi, per operazioni di prestito di titoli azionari garantito poste in essere con i propri clienti.
1.1. L’avviso di accertamento rilevava che “la banca per il tramite di Internet offre alla clientela servizi di investimento diretti alla compravendita di titoli sui mercati regolamentati italiano o esteri. In particolare, ai clienti è data la possibilità di ottenere una remunerazione aggiuntiva dai titoli acquistati per il tramite di Internet nel caso in cui optino per il cosiddetto “portafoglio remunerato”; tale opzione consente loro di concedere un prestito alla banca dietro corrispettivo di titoli già ad essa affidati in deposito. La banca verificata, a sua volta, reimpiega i titoli presi a prestito dai clienti in altre operazioni di prestito titoli con investitori istituzionali, lucrando un differenziale di commissione. Nell’anno d’imposta oggetto del controllo la banca verificata ha deciso di non reimpiegare i titoli presi a prestito dai clienti ma di trattenerli presso di sé attraverso un meccanismo diretto allo scomputo del credito di imposta sui dividendi” (v. controricorso erariale, pagg. 1 e 2).
1.2. Sulla base di tali elementi l’Agenzia delle entrate, ritenendo che l’operazione fosse priva di valide ragionì economiche e che l’unico scopo sotteso fosse quella di incassare il dividendo ed acquistare il diritto al credito d’imposta che altrimenti sarebbe aspettato al cliente, ipotizzò che la società ponesse in essere un comportamento elusivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 1 e 2, (“con riguardo al caso in esame la norma regolatrice dell’istituto giuridico in questione viene aggirata in quanto l’utilizzo del credito d’imposta viene trasferito dal cliente alla società verificata che, per il 2003, evidentemente, prevedeva risultati reddituali che avrebbero consentito di trarre il massimo vantaggio dall’utilizzo del predetto credito. Difatti quest’ultimo, che sarebbe spettato al cliente, viene trasformato in una maggiorazione di compenso, corrisposta al cliente stesso, per l’operazione di prestito titoli della durata di una sola giornata. In pratica il giorno dello stacco del dividendo, con la predetta procedura, si configura una cessione del diritto del credito sui dividendi, cessione non ammessa nel nostro ordinamento”, v. motivazione dell’avviso di accertamento, riportata a pag. 4 del controricorso).
2. La società Fineco impugnava l’avviso di accertamento innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, deducendo, tra l’altro, che non poteva ritenersi priva di valore economico, e realizzante comportamento elusivo, l’operazione legata al cosiddetto “portafoglio remunerato” e, quindi, al contratto di mandato in cui i clienti, persone fisiche, fiscalmente residenti in Italia, avevano conferito alla banca il potere di porre in essere, in loro nome e per loro conto, in qualità di mutuanti, operazioni di prestito di titoli garantiti di durata non superiore ad un giorno lavorativo aventi ad oggetto gli strumenti finanziari depositati presso tale banca. In tal caso, pur avendo la banca mutuataria materialmente incassato il dividendo e computato il connesso credito d’imposta, nella sostanza, il suddetto vantaggio veniva integralmente girato direttamente al cliente avendo Fineco riconosciuto ai suoi clienti un ammontare pari a quello non solo dei dividendi ma anche del credito di imposta sui medesimi dividendi che, ai sensi dell’art. 14 t.u.i.r., è fiscalmente imputato soltanto al percettore materiale del dividendo medesimo.
3. La Commissione tributaria provinciale, con sentenza n. 86/40/2009, accoglieva il ricorso della Fineco, ritenendo che l’operazione giustificasse le valide ragioni economiche sottese al prestito di titoli garantito.
4. L’Agenzia delle entrate proponeva appello avverso tale sentenza che veniva accolto, con la sentenza di cui in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia. I giudici di appello ritenevano elusivo “il comportamento tenuto dal contribuente in merito al possesso dei titoli, non reinvestiti sul mercato, ma rimasti in possesso della banca il tempo utile da percepire alla scadenza il dovuto dividendo ed avere di conseguenza diritto al credito d’imposta previsto dalla legge”; rilevavano, altresì, che le eccezioni addotte dalla parte circa la materiale impossibilità di non aver proceduto al ricollocamento di tutte le azioni per motivazioni estranee alla propria volontà e per l’esiguità del numero delle azioni che ha dato origine al credito d’imposta rispetto al numero complessivo delle azioni reinvestite, non erano “concludenti” posto che “pur ammettendo la buona fede della società, non può in alcun modo esimere la stessa dall’applicazione della vigente normativa in materia, atteso che l’aver trattenuto le azioni in questione, anche in numero percentuale irrisorio rispetto all’ammontare complessivo, ha indubbiamente generato in capo alla società un vantaggio fiscale tenuto conto che il credito doveva essere usufruito direttamente dal titolare delle azioni e non dalla banca” (v. motivazione della sentenza impugnata, pag. 2)
5. La società Fineco ha proposto ricorso in cassazione avverso tale sentenza affidato ad otto motivi ed ha presentato memoria telematica.
6. La Amministrazione finanziaria ha resistito con controricorso.
Diritto
RITENUTO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso la società Fineco denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione di legge (D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, degli artt. 14 e 92 t.u.i.r., del D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, art. 2, nella formulazione vigente ratione temporis, nonché del principio del divieto di doppia imposizione) per avere il giudice d’appello ritenuto l’elusione fiscale sanzionabile nonostante la carenza dei presupposti della fattispecie elusiva e nonostante la legge vigente all’epoca dei fatti (art. 14 t.u.i.r. e D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, art. 2, nella formulazione vigente ratione temporum) accordasse in capo al soggetto percettore del dividendo (mutuatario di azioni cum-dividendo) il diritto al relativo credito d’imposta al fine di evitare la doppia imposizione. La decisione della CTR avrebbe, dunque, travisato il principio del divieto di doppia imposizione trascurando di considerare che – essendo assolutamente pacifico che le persone fisiche che hanno dato a mutuo le azioni cum-dividendo avevano diritto al credito di imposta sugli utili distribuiti qualora, come nel caso di specie, il mutuatario prenda in prestito azioni cum-dividendo e cioè che incorporino il credito all’incasso di dividendi già deliberati, i dividendi corrisposti nel corso della durata del mutuo sono fiscalmente imputabili a quest’ultimo, atteso che, gli effetti fiscali dei dividendi risultano sempre imputabili a colui che, avendo acquisito la proprietà e il possesso delle azioni, li riscuota dalla società emittente. Secondo l’assunto della difesa della ricorrente, proprio in quanto i dividendi corrisposti in relazione alle azioni cum-dividendo concorrono alla formazione del reddito imponibile del mutuatario, là dove questi sia soggetto passivo ai fini Irpeg, la legge gli accorda il diritto al credito di imposta sui dividendi (art. 92 t.u.i.r. vigente ratione temporum); di contro, il mutuante delle azioni cum-dividendo, anche se è soggetto passivo Irpef, non avrebbe in nessun caso diritto al credito d’imposta sui dividendi corrisposti in relazione alle azioni date a mutuo, nemmeno laddove, come nel caso di specie, gli si è retrocesso il controvalore economico dei dividendi corrisposti al mutuatario. In altri termini, laddove l’ordinamento tributario non consentisse al mutuatario di azioni cum-dividendo di fruire del credito di imposta, legittimerebbe una duplice imposizione economica dei dividendi e cioè, una prima volta come utili di impresa a carico della società che li abbia prodotti e, una seconda volta, come dividendi a carico del mutuatario che li abbia percepiti senza che di tale credito d’imposta possa fruirne il mutuante allorché gli sia riconosciuto il corrispettivo per il mutuo creazioni quand’anche tale corrispettivo tenga conto dell’ammontare dei dividenti distribuiti
1.2. Col secondo mezzo, la ricorrente denuncia l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, previgente formulazione (la sentenza impugnata è stata depositata in data 25/03/2011), riguardante il se la fruizione del credito d’imposta sui dividendi da parte di Fineco costituisca un vantaggio fiscale nonostante tale fruizione sia stata retrocessa ai propri i clienti sotto forma di maggiorazione del corrispettivo per il mutuo di azioni cum-dividendo. Alle pagg. 40-45 del ricorso, risultano trascritte le difese svolte dei gradi merito circa l’irrilevanza economica del credito di imposta sui dividendi e circa la sua funzione squisitamente finanziaria. La difesa della società ricorrente deduce, altresì, che la motivazione della sentenza impugnata è insufficiente anche per aver omesso di considerare che la retrocessione del vantaggio tributario derivante dal credito di imposta è un meccanismo del tutto fisiologico mediante il quale si evita la doppia imposizione a carico del cliente il quale si vedrà retrocesso il vantaggio tributario grazie ad una corrispondente maggiorazione del compenso per mutuo di azioni.
1.3. Con il terzo motivo la società Fineco denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, per aver la sentenza impugnata erroneamente ritenuto irrilevante la sussistenza di valide ragioni economiche ai fini della verifica dell’elusione dell’operazione posta in essere da Fineco; ribadisce di aver obiettato la sussistenza di valide ragioni economiche, sin dal ricorso introduttivo, dimostrando che, nel corso del periodo d’imposta 2003, ha preso in prestito, in esecuzione dell’operazione “portafoglio remunerato”, un numero di azioni complessivamente pari a 12.061.943.635, corrispondente ad un controvalore di Euro 19.397.049.130, riuscendo così a collocare presso controparti terze il 99,7% del numero di tali azioni e ad ottenere un differenziale positivo, tra il corrispettivo ottenuto da tali controparti e quello riconosciuto ai propri clienti, pari ad Euro 3.585.784,00 che ha fatto interamente concorrere alla formazione sia del reddito imponibile Irpeg, sia del valore della produzione netta imponibile Irap; di contro, soltanto lo 0,30% delle azioni complessivamente prese a prestito dai propri clienti ha dato diritto allo stacco dei dividendi e all’attribuzione del relativo credito di imposta a favore di Fineco, non essendo riuscita a ricollocare tali azioni prezzo controparti terze a causa di eventi sottratti alla propria volontà ed attinenti a ragioni organizzative dell’impresa. Al fine di soddisfare l’onere di sufficienza del ricorso in Cassazione ha riportato alle pagine 52-70 del ricorso le difese allegate nel giudizio di merito.
1.4. Col quarto motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, previgente formulazione, la contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine all’accertamento del fatto, controverso e decisivo del giudizio, riguardante il se, il mancato ricollocamento delle azioni cum-dividendo, nella percentuale dello 0,30%, prese in prestito da Fineco, dipendesse da eventi indipendenti alla sua volontà o dalla volontà di conseguire un indebito vantaggio e, quindi, se l’operato di Fineco sia stato giustificato da valide ragioni economiche.
1.5. Col quinto motivo di ricorso deduce la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere omesso di dichiarare la cessata materia del contendere in relazione al parziale annullamento in autotutela disposto dall’ufficio sull’ammontare del credito d’imposta, ridotto da Euro 2.674.691.000 ad Euro 2.291.572.000.
1.6. Col sesto motivo di ricorso deduce, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata per avere omesso di rilevare il giudicato interno relativo all’inapplicabilità delle sanzioni irrogate a carico di Fineco – giudicato formatosi a seguito della sentenza di primo grado che aveva dichiarato non applicabili le sanzioni a carico della contribuente – e per non aver considerato che l’Ufficio non aveva all’uopo proposto appello incidentale.
1.7. Col settimo e l’ottavo motivo deduce, ancora, la nullità della sentenza sia per aver erroneamente reputato ammissibile l’appello dell’Ufficio per quanto attiene l’irrogazione delle sanzioni (settimo motivo), sia per l’omissione di pronuncia sulla richiesta di annullamento dell’irrogazione delle sanzioni riproposta da Fineco, in via d’appello incidentale condizionato.
2. I motivi dal primo al quarto, da esaminarsi congiuntamente perché logicamente connessi, vanno essere accolti per le ragioni di cui di seguito.
2.1. I fatti che hanno originato la vicenda in esame sono pacifici, non essendo contestato che Fineco abbia fruito, per l’anno 2003, del credito di imposta in relazione ai dividendi maturati per le operazioni di trading on line, poste in essere da Fineco con i propri clienti, persone fisiche e residenti in Italia, titolari del cd. “portafoglio remunerato”: i clienti hanno ceduto alla banca, per un periodo di tempo limitato (24 ore) i loro titoli detenuti in portafoglio (azioni, titoli di Stato, Etf e covered warrant), con l’accordo che, nella misura in cui in quel giorno (avendo l’operazione di prestito durata di 24 ore) l’azione stacca un dividendo, o il bond stacca una cedola, la banca li riaccrediterà al cliente. E’, altresì, pacifico che a carico della Fineco sussistesse l’obbligo di retrocedere a favore dei propri clienti un corrispettivo maggiorato non soltanto dell’ammontare de dividendo riscosso, ma anche del credito di imposta a cui i clienti avrebbero avuto diritto se fossero stati loro ad incassare tale dividendo (v. motivazione avviso di accertamento riportato a pag. 39 del ricorso della società ed a pag. 4 del controricorso dell’Agenzia delle entrate).
2.2. Non essendo in discussione la legittimità formale dell’operazione collegata al servizio di “portafoglio remunerato” – che appare rientrante nel più generale fenomeno dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che si verta su un diritto di credito e non su un diritto reale (v. Sez. 5, 12/05/2017, n. 11872) – ciò che viene addebitato alla sentenza impugnata è l’aver dichiarato la sussistenza di un’operazione abusiva contravvenendo le norme regolatrici delle operazioni di prestito di titoli (art. 14 t.u.i.r.) ed in carenza, anche motivazionale, degli elementi essenziali che caratterizzano il comportamento elusivo.
2.3. Si tratta, dunque, di accertare se, mediante l’utilizzo improprio di un contratto legittimo, la banca contribuente abbia posto in essere un comportamento elusivo, finalizzato ad ottenere esclusivamente il vantaggio fiscale collegato allo scomputo del credito di imposta sui dividendi, usufruito al posto del cliente, titolare del diritto stesso.
3. La soluzione della questione richiede di delineare, anzitutto, i principi regolatori della fattispecie elusiva di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7.
3.1. Questa Corte, sin dalle sentenze a Sezioni Unite del 2 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057, ha riconosciuto l’immanenza nel sistema tributario italiano del divieto di abuso del diritto divieto enucleabile in base ai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.).
3.2. L’importante affermazione giurisprudenziale di cui alle sentenze indicate, giunge al termine di un complesso percorso interpretativo, nel quale questa Corte si è interrogata sulla generale applicabilità del principio comunitario di divieto dell’abuso del diritto, in precedenza affermato dalla Corte di giustizia (Corte giustizia Ce, grande sezione, sentenza del 21 febbraio 2006, cause C-255/02 e C223/03, Halifax; Corte giustizia Ce, sentenza del 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part. Service).
3.3. Gli esiti di tale percorso interpretativo – che originariamente ponevano il dubbio, dell’applicabilità del principio nei settori non armonizzati ma solo in quanto “principio tendenziale”, che avrebbe dovuto condurre il giudice a ricercare, nell’ordinamento nazionale mezzi giuridici appropriati per il contrasto dell’abuso, come, nel nostro ordinamento consentiva il ricorso alle ipotesi di nullità dei contratti per mancanza per illiceità di causa (artt. 1418 e 1344 c.c.), dubbio immediatamente superato dalla considerazione che il principio dell’abuso di diritto si impone nell’ordinamento tributario italiano “pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali” e, quindi, anche “al di fuori dei tributi armonizzati o comunitari” (Cass., 17/10/2008, n. 25374) – hanno portato alla configurazione di un principio di divieto dell’abuso del diritto “autonomo” rispetto a quello di derivazione comunitaria, in quanto i principi di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.), renderebbero sussistente nel sistema nazionale “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”, affermazione che non contrasterebbe con la presenza di specifiche norme antielusive (tra cui il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis), che vanno apprezzate come “mero sintomo dell’esistenza di una regola generale” (così, Sez. U., 23/12/2008, n. 30055).
3.4. L’elaborazione della giurisprudenza tributaria di questa Corte ha dunque perimetrato l’ipotesi della condotta abusiva ad ogni operazione economica realizzata attraverso l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici posti in essere al solo scopo, elusivo, di realizzare un risparmio di imposta, con la conseguenza che il divieto di siffatte operazioni non opera in presenza di ragioni economicamente apprezzabili che si possano spiegare altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (cfr., ex plurimis, Sez. U., 23/12/2008,n. 30055;Sez.5,30/11/2012,n. 21390; Sez. 5, 06/03/201 5, n. 4561; Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 31/12/2019, n. 34750; Sez. 5, 24/06/2021, n. 18239; Sez. 5, 21/07/2020, n. 15510; Sez. 5, 02/04/2021, n. 9135).
3.5. In tale prospettiva, si è chiarito che il principio dell’abuso di diritto il cui fondamento si rinviene nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, non sarebbe in contrasto con il principio di riserva di legge, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non si tradurrebbe nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali e comporterebbe l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretende di far discendere dall’operazione elusiva (Cass., 19/2/2014, n. 3938).
3.6. Quanto alla prova del disegno elusivo, nonché delle modalità di distorsione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, dovendo l’Amministrazione dimostrare che la ragione “prevalente” che sorregge la scelta giuridica del contribuente è quella del risparmio fiscale, prova che può esser data mettendo a confronto il comportamento posto in essere con “il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica” (v. Sez. 5, 21/01/ 2009, n. 1465; id. Sez. 5, 26/02/2014, n. 4603). Il contribuente, per contro, potrà provare la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative e concorrenti, dotate di ragionevole consistenza, e non meramente marginali rispetto allo schema negoziale adottato. Ciò comporta che spetta all’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare perché lo schema negoziale impiegato dal contribuente abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa (v. Sez. 5, 30/11/2012, n. 21390; Sez. 5, 20/5/2016, n. 10458), mentre ricade sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.
3.7. Ed infatti, dal punto di vista della configurazione formale dell’abuso, ci si è preoccupati di trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, osservandosi che il carattere abusivo di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (cfr. Sez. U, n. 30055 e 30057 del 2008; CGUE nei casi 3M Italia, Halifax, Part. Service), presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Sez. 5, 30/11/2012 n. 21390, par.3.2) rispetto al quale indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (cfr. Sez. 5, 26/02/2014, n. 4604).
3.8. Nell’intento di perseguire la pianificazione fiscale aggressiva, la Commissione Europea ha diramato la raccomandazione 2012/772/ UE agli Stati membri di intervenire ogniqualvolta vi sia “una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sta stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale” (montages articiels, artificial arrengement, mecanismo artificial, come inteso nelle varie versioni linguistiche), precisando all’uopo che “una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale” (p. 4.4), o più esattamente di “sostanza economica” (p. 4.2), e “consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali”, mentre “una data finalità deve essere considerata fondamentale se qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le circostanze del caso” (cfr. Sez. 5, 14/01/2015, n. 438 e Sez. 5, 14/01/2015,n. 43, p.8.3)
3.9. Lo stesso intento lo ha perseguito il legislatore nazionale con la L. 11/03/2014 n. 23 che, nel delegare al governo l’attuazione della disciplina dell’abuso del diritto (D.Lgs., 15/08/2015, n. 128, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente) in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE, sulla pianificazione fiscale aggressiva, ha indicato tra i principi ed i criteri direttivi quelli di “definire la condotta abusiva come un uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta” (Sez. U. n. 30055 del 2008 e 30057 del 2008; CGUE 3M Italia), di “garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (CGUE Part. Service) di “considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva” (rectius “scopo essenziale”, CGUE Halifax e Part. Service).
3.10. In tale linea interpretativa si pone lo Statuto dei diritti del contribuente, art. 10-bis, che pur non applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie in esame (D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5), risponde alle esigenze tracciate dalle fonti comunitarie e nazionali, stabilendosi che si è in presenza dell’abuso del diritto allorché “una o più operazioni prive di sostanza economica”, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente “vantaggi fiscali indebiti” (comma 1), chiarendosi che un’operazione è priva di sostanza economica se “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati”, sono “inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, precisandosi che sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato” (comma 2) e ribadendo che, ferma restando la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale (comma 4), non possono considerarsi abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo, che “rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3) (in termini, Sez. 5, 16/3/2016, n. 5155; Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 5/12/2019, n. 31772, in motivazione; conf. Cass. n. 438 e 439 del 2015, cit., in motivazione).
3.11. Nel solco dei principi espressi dalla raccomandazione 2012/772/UE ed all’attuazione che di essa ne ha dato il nostro ordinamento come innanzi indicati, questa Corte è giunta, dunque, ad affermare un generale principio antielusivo rinvenibile nella Costituzione e nelle indicazioni della raccomandazione n. 2012/772/UE, configurabile ogni qual volta si sia in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l’imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali (cfr., ex plurimis, Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 30/12/2019, n. 34595; Sez. 5, 02/03/2020, n. 5644; Sez. 5, 02/02/2021, n. 2224).
4. Per configurare la condotta abusiva e’, dunque, necessario un’attenta valutazione delle “ragioni economiche” delle operazioni negoziali che sono poste in essere, in quanto, se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o del tutto assente è il rischio della pratica abusiva; se invece tali operazioni, pur se effettivamente realizzate, riflettono, attraverso artifici negoziali, assetti di “anormalità” economica, può verificarsi una ripresa fiscale là dove è possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa. In tal senso, la prova dell’elusione deve incentrarsi sulle modalità di manipolazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché sulla loro mancata conformità ad una normale logica di mercato.
5. Rapportando la motivazione della sentenza impugnata (v. sopra, paragrafo n. 2, della parte narrativa) ai principi di diritto appena esposti, non v’e’ dubbio che essa risente di un’erronea interpretazione degli stessi, anche con riguardo alle regole di riparto dell’onere probatorio, nonché di una deficienza motivazionale in punto di elementi determinanti la fattispecie elusiva.
5.1. Innanzitutto, hanno errato i giudici di secondo grado a dare per realizzata l’elusione senza individuare gli elementi per ritenere che l’operazione posta in essere dalla banca, per l’esercizio 2003, fosse priva di sostanza economica siccome inidonea a produrre effetti significativi diversi dal vantaggio fiscale della fruizione del credito di imposta; in secondo luogo, appaiono violate le regole di riparto dell’onere probatorio applicabili alla fattispecie (v. supra, p. 3.6), nella misura in cui i secondi giudici hanno liquidato come del tutto irrilevanti (“non concludenti”) i fatti allegati dalla società contribuente circa la sussistenza del risultato economico dell’operazione di prestito dei titoli e, quindi, circa la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative o concorrenti, che giustificassero operazioni strutturate nella modalità del servizio di “portafoglio remunerato”.
5.2. Con riguardo agli elementi essenziali della fattispecie elusiva, basta considerare che la giurisprudenza di questa Corte, già nella disciplina anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, ha, sì, riconosciuto come vantaggio fiscale indebito la fruizione del credito di imposta sui dividendi di cui all’art. 14 t.u.i.r. (nel testo anteriore all’integrazione apportatavi dal D.L. 9 settembre 1992, n. 372, art. 7-bis, conv. con modificazioni nella L. 5 novembre 1992, n. 429) attuata attraverso la cessione del diritto di usufrutto su azioni di proprietà di soggetti non residenti in favore di società residenti (cd. dividend whashing), ma si è preoccupata di rintracciarne gli elementi essenziali, basando il suo convincimento, in primo luogo, nella individuazione di un difetto di causa che potesse dar luogo a nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni ed in secondo luogo, nella mancanza di alcun vantaggio economico per le parti, all’infuori del risparmio fiscale (v. Sez. 5, 21/10/2005, 20398, in motivazione, p. 3.5).
5.3. Viceversa, nel caso in esame, la sentenza impugnata non ha minimamente stigmatizzato gli elementi qualificanti l’elusione, come è evidente dal fatto che, pur dando per assodato la legittimità dell’operazione e, quindi, il passaggio di proprietà dei titoli dal cliente alla banca con retrocessione al cliente, alla scadenza delle 24 ore, del dividendo e della remunerazione aggiuntiva, ha poi considerato, come effetto “anomalo” e “distorsivo”, la sola circostanza che il credito non venisse fruito direttamente dal cliente (“il credito doveva essere usufruito direttamente dalla titolare delle azioni e non dal cliente”), senza indagare sulla questione posta al centro dell’accertamento fiscale riguardante quella parte percentuale di azioni (pari allo 0,30%) che la società contribuente aveva scelto di trattenere in portafoglio senza impiegarle ulteriormente in operazioni di prestito a favore di soggetti terzi istituzionali e dell’eventuale indebito vantaggio fiscale della fruizione del credito di imposta rispetto a tale trattenimento (pari ad Euro 2.291.572,00).
5.4. Ed invero, in disparte la considerazione, pur affrontata nel ricorso e nella memoria della società contribuente, che il giudice di merito avrebbe dovuto porsi il problema della imputabilità degli effetti fiscali dei dividendi a colui che, avendo acquisito, per effetto del prestito, la proprietà e il possesso delle azioni, li riscuota dalla società emittente e, quindi, del se il cliente potesse usufruire del credito d’imposta allorquando gli venga riconosciuto un corrispettivo che comprenda i dividendi ed una remunerazione aggiuntiva, appare del tutto illogica, oltre che altamente deficitaria, la motivazione della sentenza che ha ritenuto “non concludenti” le giustificazioni offerte dalla Fineco, a discarico, degli effetti collegati all’operazione di prestito: a fronte delle allegazioni della società circa la convenienza economica dell’operazione nel suo complesso (nel corso del periodo d’imposta 2003, la Fineco ha preso in prestito un numero di azioni complessivamente pari a 12.061.943.635, corrispondente ad un controvalore di Euro 19.397.049.130, collocando presso terzi il 99,7% del numero di tali azioni, ottenendo un differenziale positivo, tra il corrispettivo ottenuto da tali controparti e quello riconosciuto ai propri clienti, pari ad Euro 3.585.784,00, oggetto di Irpeg ed Irap), la CTR avrebbe dovuto indagare e, quindi, motivare in maniera adeguata, il perché il temporaneo impedimento al ricollocamento delle azioni per una percentuale marginale (0,30%) non potesse dipendere da eventi contingenti e sottratti alla volontà della mutuataria (indicati negli atti difensivi della ricorrente come “disallineamenti procedurali, errori umani e tecnici”, v. pagg. 52-69 del ricorso), né potesse rientrare nella logica di mercato dell’operazione (v. Sez. 5, 21/01/2011, n. 1372 che ha escluso il carattere abusivo per la compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali che rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda).
6. Il quinto motivo che attiene al quantum della ripresa a tassazione va accolto, seguendo, logicamente, l’accoglimento dei motivi dal primo al quarto. Ed infatti, essendo incontestato che l’Ufficio ha ridotto, in autotutela, l’ammontare del credito d’imposta da Euro 2.674.691.000 ad Euro 2.291.572.000 (v. provvedimento in autotutela trascritto alla pagina 75 del ricorso), il giudice di merito, in sede di rinvio, sarà tenuto a considerare l’ammontare della pretesa fiscale nella minor somma oggetto della ripresa a tassazione.
7. Il sesto ed il settimo motivo, che si esaminano congiuntamente per connessione di censure, sono infondati. Ed invero, nell’atto di appello (come riportato alle 79 a 86 del ricorso) l’Agenzia delle entrate aveva espressamente richiesto, formulando specifica conclusione (v. pag. 86 del ricorso), di dichiarare la legittimità dell’avviso di accertamento e delle relative sanzioni, il che non solo esclude la formazione del giudicato interno eccepito col sesto motivo, ma soddisfa l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, considerato che per la giurisprudenza di questa Corte la sanzione di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, deve essere interpretata restrittivamente, in conformità all’art. 14 preleggi, trattandosi di disposizione eccezionale che limita l’accesso alla giustizia, dovendosi consentire, ogni qual volta nell’atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione (ex multis, cfr. Sez. 5, 15/01/2019, n. 707).
8. L’ottavo motivo, con il quale si censura l’omessa pronuncia sulla richiesta di annullamento dell’irrogazione delle sanzioni proposta da Fineco in via di appello incidentale condizionato, rimane assorbito dall’accoglimento dei primi cinque motivi di ricorso in quanto attinenti alla questione pregiudiziale della legittimità dell’avviso di accertamento cui le sanzioni seguono quale questione cd. pregiudicata.
9. In conclusione, il ricorso va accolto nei termini indicati in motivazione, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, affinché proceda ad un nuovo esame della controversia, nel rispetto dei principi sopra indicati (v. p.p. n. 3, n. 4 e n. 5) ed alla luce del nuovo assetto sanzionatorio (ius superveniens) che sia confacente alla fattispecie concretamente accertata; il giudice di rinvio è tenuto a provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso per quanto in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alla liquidazione delle spese relative al presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta sezione civile della Corte di Cassazione, il 16 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022