Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4821 del 15/02/2022

Cassazione civile sez. trib., 15/02/2022, (ud. 13/10/2021, dep. 15/02/2022), n.4821

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso n. 17309-2015 R.G., proposto da:

S.M.A. Sistemi per la meteorologia e l’ambiente Campania s.p.a., in

persona del suo legale rappresentante, C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Adolfo Gandiglio n. 27, rappresentata

e difesa dagli avv. Giuliano Cuomo e Giuseppe Sera;

– Ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore p.t.,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope

legis;

– Controricorrente –

Avverso la sentenza n. 122/07/2015 della Commissione tributaria

regionale della Campania depositata il 7.01.2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 13

ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI;

lette le conclusioni della Procura Generale, nella persona del

Sostituto Procuratore Generale, Dott. Mauro Vitiello, depositate ai

sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

 

Fatto

PREMESSO

che:

Per quanto si evince dal ricorso la controversia trae origine dal diniego di un credito d’imposta, pari ad Euro 2.149.559,67, preteso dalla società per l’assunzione di lavoratori svantaggiati, di cui alla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 7. Nel giudizio celebrato dinanzi alle Commissioni tributarie di merito erano state riconosciute le ragioni della società con le sentenze n. 202/40/2008 del giudice di primo grado e n. 73/47/2011 del giudice d’appello. In occasione della dichiarazione dei redditi per l’anno 2008 la società utilizzò il credito d’imposta riconosciutole dalla decisione del giudice di merito a compensazione delle imposte dovute per quella annualità.

maggio 2012 alla contribuente fu tuttavia notificata la cartella esattoriale con la quale l’Amministrazione finanziaria, mediante Equitalia Sud, le intimò il pagamento dell’importo di Euro 3.199.154,99. La pretesa fiscale proveniva da un controllo formale, eseguito ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, art. 36 bis, con il quale si era riscontrata l’indebita detrazione del credito d’imposta utilizzato dalla società in compensazione. L’Agenzia delle entrate infatti affermava che quel credito d’imposta fosse ancora oggetto di contenzioso, per essere stata impugnata dinanzi alla Corte di cassazione la sentenza pronunciata nel 2011 dalla Commissione regionale campana. Quella controversia è stata poi definita con il disconoscimento del credito d’imposta da parte del giudice di legittimità, che, con ordinanza 28 aprile 2014, n. 9323, ha riconosciuto pertanto le ragioni dell’Amministrazione finanziaria.

Introdotta nelle more di quel giudizio la presente causa, la Commissione tributaria provinciale di Benevento accolse le ragioni della contribuente con sentenza n. 605/41/2013, ed annullò la cartella. La pronuncia fu impugnata dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, che con la sentenza n. 122/07/2015, ora al vaglio della Corte, accolse l’appello dell’Amministrazione finanziaria, riformando integralmente la decisione di primo grado. Il giudice regionale ha ritenuto che alla fattispecie per cui è causa fosse applicabile il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 69, che nella versione ratione temporis vigente riconosceva il diritto al pagamento di somme in favore del contribuente a condizione che la relativa sentenza di condanna dell’Amministrazione finanziaria fosse passata in giudicato. Poiché il credito d’imposta riconosciuto alla società dalla pronuncia del 2011 non era ancora definitivo, pendendo il giudizio di legittimità, la Commissione regionale ha ritenuto che il credito d’imposta non poteva essere utilizzato a compensazione del debito fiscale della contribuente. Ha dunque riconosciuto corretta l’emissione della cartella di pagamento.

La ricorrente ha censurato la sentenza con due motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Nell’adunanza camerale del 13 ottobre 2021 la causa è stata trattata e decisa.

Sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

La ricorrente ha denunciato:

con il primo motivo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 69, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto all’errata applicazione della norma;

con il secondo motivo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perché nella pronuncia non si era tenuto conto della memoria difensiva depositata ritualmente dalla società.

Il primo motivo è infondato e va rigettato. Con esso la difesa della società riprende la questione principale, disquisita anche nei gradi di merito, ossia la legittima compensabilità per l’anno d’imposta 2008 tra tributi dovuti e credito d’imposta richiesto e vantato ai sensi della L. n. 388 del 2000, art. 7, pur controverso in un separato giudizio, ma in quel momento dagli esiti favorevoli alla contribuente (poi definitivamente disconosciuto in sede di legittimità).

La società fonda la legittimità della scelta operata in sede di dichiarazione modello unico 2009 sulla applicabilità al caso di specie del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, comma 2, che, a suo dire, avrebbe consentito il rimborso d’ufficio dei tributi corrisposti in eccedenza. Poiché l’assunzione di soggetti svantaggiati ai sensi della L. n. 388 del 2000, art. 7, gli consentiva di conseguire un credito d’imposta, che pur contestato dall’Amministrazione in quel momento gli era stato riconosciuto con sentenza di primo grado, la società ritiene che in forza dell’art. 68, comma 2, cit., fosse perfezionata la fattispecie in esso regolata e pertanto correttamente aveva provveduto alla compensazione tra debiti e crediti fiscali. Di contro l’Agenzia delle entrate sostiene che la fattispecie non trovasse ingresso nell’art. 68, ma nell’art. 69, comma 1, ratione temporis vigente, che regolando le ipotesi di condanna della Amministrazione in favore del contribuente, prescriveva che al pagamento di somme a favore del contribuente dovesse provvedersi al passaggio in giudicato della sentenza.

Queste le rispettive posizioni, le norme da ciascuno invocate regolano in realtà due distinte fattispecie. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, il cui titolo è “Pagamento del tributo in pendenza del processo”, così recita al comma 2: “Se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza”. L’art. 69 della medesima disciplina, che nella formulazione ratione temporis vigente aveva per titolo “Condanna dell’ufficio al rimborso”, così recitava: “Se la commissione condanna l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione al pagamento di somme, comprese le spese di giustizia liquidate ai sensi dell’art. 15 e la relativa sentenza è passata in giudicato, la segreteria ne rilascia copia spedita in forma esecutiva a norma dell’art. 475 c.p.c., applicando per le spese l’art. 25, comma 2”.

Ebbene, le due norme solo apparentemente possono creare confusione interpretativa, perché mentre l’art. 69 pone le regole di pagamento in favore del contribuente di quanto dovuto dalla Amministrazione finanziaria a seguito di sua condanna in favore del primo, l’art. 68, comma 2, disciplina, unitamente alle ipotesi elencate nel comma 1, i pagamenti del tributo oggetto di controversia nella pendenza del giudizio. Così che, se il comma 1, lett. a), b), c), c-bis), quantificano la percentuale del tributo che il contribuente è tenuto a versare nei gradi del giudizio e all’esito della sentenza di legittimità che annulli con rinvio, ma in ogni caso sul presupposto che in tutto o in parte il ricorso del contribuente non abbia trovato accoglimento, il comma 2 garantisce che comunque, ove dopo uno dei gradi risulti che il contribuente abbia versato più di quanto dovuto ai sensi delle previsioni contenute nel comma 1, egli ha diritto al rimborso del di più entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza. L’art. 68 pertanto regola la misura del tributo dovuto nel corso del processo, ove il contribuente, in tutto o in parte, risulti comunque debitore nei confronti del fisco. L’ambito applicativo è circoscritto in questo perimetro, che garantisce al contribuente, in pendenza di giudizio, il pagamento di un importo non superiore al terzo o ai due terzi o a quell’importo riconosciuto in uno dei due gradi di merito o del giudizio di legittimità con annullamento con rinvio. Per conseguenza tutte le altre ipotesi sono comprese nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 69. Tra esse è indubbio che debbano comprendersi le condanne al pagamento, in danno dell’Amministrazione finanziaria, di crediti d’imposta, che possono anche essere contestati dall’ufficio nell’an e nel quantum, ma che certo non rappresentano debiti fiscali per tributi litigiosi.

E nel caso di specie è indiscutibile che il giudizio svoltosi nei due gradi di merito, e poi definitosi con l’ordinanza n. 9323/2014 di questa Corte che ha rigettato le pretese del contribuente, aveva per oggetto il riconoscimento di crediti d’imposta, cioè crediti del contribuente verso il fisco, a cui pertanto non potevano certo applicarsi le regole poste dall’art. 68 a presidio degli obblighi di pagamento del tributo in pendenza del processo. Stride con la possibilità di applicare l’art. 68 lo stesso tenore letterale del comma 2, che riconosce la rimborsabilità (entro novanta giorni) della differenza tra quanto il contribuente abbia già versato e quanto obbligato a versare secondo le regole poste nel comma 1, fattispecie del tutto diversa dal riconoscimento, sia pur non definitivo, di un credito d’imposta.

Ne discende che i crediti d’imposta, che nel presente giudizio costituiscono il presupposto di tutta la controversia sviluppatasi ed ora giunta al vaglio della Corte, non potevano essere compensati nell’anno d’imposta 2008 con i tributi dovuti dalla società. Ciò perché, quand’anche il giudice di primo grado avesse riconosciuto le ragioni della società, la pronuncia non era ancora definitiva e pertanto, secondo le regole ratione temporis vigenti, non era possibile il rilascio di copia spedita in forma esecutiva.

Le argomentazioni della commissione regionale sono pertanto corrette.

Il secondo motivo è invece inammissibile. Con esso la ricorrente assume che il giudice regionale non ha tenuto conto della memoria difensiva depositata dalla società, da ciò deducendo un vizio di motivazione della decisione.

Va premesso che al ricorso avverso la sentenza pubblicata il 7 gennaio 2015 trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia.

Ebbene, nel caso di specie la ricorrente si duole di un vizio di motivazione, per l’omesso richiamo in sentenza della memoria difensiva depositata dalla contribuente, e dunque per il suo presunto mancato esame. In tal modo tuttavia non tiene conto che il vizio di motivazione va ricondotto all’omesso esame di un “fatto storico”, che non può essere rappresentato da un atto difensivo, tanto più che in esso, secondo quanto riportato in ricorso, erano sviluppate argomentazioni giuridiche.

Ne’ il motivo di critica alla decisione impugnata può essere interpretato come omessa pronuncia, ossia come vizio processuale, poiché il suo tenore è del tutto estraneo a tale vizio, non evincendosi, neppure indirettamente, l’invocazione della nullità della sentenza per violazione di regole processuali.

A margine, per mera completezza, il contenuto della memoria afferiva a questioni comunque trattate dal giudice d’appello nella decisione ora impugnata.

In conclusione il ricorso va rigettato. All’esito del giudizio segue la regolazione delle spese processuali, liquidate in favore della controricorrente nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 11.000,00 a titolo di competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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