Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4784 del 28/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 28/02/2011, (ud. 02/12/2010, dep. 28/02/2011), n.4784

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.P., residente in (OMISSIS)) alla Via Calata Punta

Capo n. 10, elettivamente domiciliato in Roma alla Via Ludovisi n. 35

presso lo studio dell’avv. Massimo Lauro insieme con l’avv.

CASTELLANO Benedetto che lo rappresenta e difende in forza della

“procura” rilasciata a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

1) il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del

Ministro pro tempore, e (2) l’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del

Direttore pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza n. 60/28/05 depositata il 21 marzo 2005 dalla

Commissione Tributaria Regionale della Campania.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 2 dicembre 2010

dal Cons. Dr. Michele D’ALONZO;

sentite le difese del ricorrente, perorate dall’avv. Benedetto

CASTELLANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. ZENO

Immacolata, la quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 29 aprile 2006 all’AGENZIA delle ENTRATE ed al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE (depositato il 12 maggio 2006), S.P. – premesso che con avviso notificato il primo agosto 1996 l’Ufficio, adducendo che “l’immobile dell’albergo non è stato mai contabilizzato tra i beni dell’impresa familiare sia nell’attivo che nel passivo”, aveva liquidato l’INVIM “relativa all’atto di conferimento in società dei beni aziendali già di competenza della sua impresa familiare” e revocato “i .benefici di cui alle L. n. 413 del 1991 e L. n. 75 del 1993 … invocati nel predetto atto” -, in forza di tre motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 60/28/05 della Commissione Tributaria Regionale della Campania (depositata il 21 marzo 2005) che aveva recepito l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (260/16/01) con cui la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli aveva accolto il suo ricorso.

Il 2 novembre 2010 il ricorrente depositava memoria ex art. 378 c.p.c..

Nessuno degli intimati svolgeva attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Commissione Tributaria Regionale – premesso che: (1) “con l’avviso di liquidazione in oggetto l’Ufficio richiedeva le imposte suppletive di registro ed INVIM … in seguito a revoca dei benefici fiscali, di cui alla L. n. 413 del 1991 … in quanto l’immobile, albergo “(OMISSIS)”, faceva parte del patrimonio dell’impresa individuale del contribuente”; (2) “quest’ultimo” eccepiva che “detto bene faceva parte, invece, dell’azienda alla quale competevano le dette agevolazioni”; (3) “la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso”; (4) l’Agenzia “si appella … sostenendo che dette agevolazioni erano applicabili per le imprese familiari trasformate in società di persone” mentre “nel caso …, in base ai documenti disponibili e al verbale di constatazione del 30 ottobre 1995, risulta che l’immobile adibito ad albergo non era mai stato contabilizzato tra i beni dell’impresa familiare sia nell’attivo che nel passivo”; “prova ne sia, tra l’altro, che la dichiarazione d’impresa familiare registrata il 17 gennaio 1992 non prevedeva tra le attività nessun albergo”; (5) “controdeduce il contribuente eccependo la genericità di detto appello ritenuto inammissibile” – ha accolto l’impugnazione dell’Ufficio osservando:

– nel “processo verbale di constatazione del 30 ottobre 1995 emerge” (2) che “la dichiarazione di impresa familiare del 28 dicembre 1991 aveva ad oggetto esercizio pubblico di bar-tabaccheria e stabilimento balneare”, (2) che “l’atto del 25 settembre 1992 relativo alla trasformazione di impresa familiare in s.a.s., con il quale la parte ha usufruito dei benefici fiscali di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 29, comprende la gestione di un complesso alberghiero ” (OMISSIS)”, per il quale si esibisce un contratto di fitto di azienda alberghiera” e (3) che “in data 2 giugno 1993 con atto integrativo si inserisce nello stato patrimoniale di detta società un cespite immobiliare . . . , affermando che non era stato compresso nello stato patrimoniale dell’atto precedente per mero errore”;

– “dagli atti si rileva, perciò, che la gestione di detto albergo non faceva parte dell’impresa familiare alla data della richiesta di dette agevolazioni fiscali, essendo concessa in fitto d’azienda”, “l’immobile suddetto era incluso, invece, nel patrimonio personale del contribuente e non nello stato patrimoniale della detta impresa familiare”.

La Commissione Tributaria Regionale conclude affermando che “non potevano concedersi i richiesti benefici fiscale (per cui è “legittima la pretesa fiscale contenuta nell’impugnato avviso di liquidazione”).

2. Lo S. impugna la decisione con tre motivi.

A. Con il primo il ricorrente – riprodotti brani della decisione di primo grado nonchè il “tenore” del gravame dell’Ufficio; assunto che questo, con l’impugnazione, “riproponeva pedissequamente la motivazione dell’avviso annullato, senza indicare quali, tra i diversi principi enunciati nella sentenza di primo grado, intendesse contestare” ed “inoltre non indicava nè depositava copia dell’autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2” – denunzia “violazione” degli “D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 53 e art. 342 c.p.c.” affermando che “la carenza di specifici motivi di appello dell’Ufficio … avrebbe dovuto comportare la dichiarazione di inammissibilità del gravame per assoluta carenza di impugnazione della “ratio decidendi”.

B. Con il secondo motivo il contribuente – assunto (1) che “il conferimento agevolato, di cui alla… L. n. 413 del 1991, art. 29 fa esplicito riferimento all’azienda dell’imprenditore individuale titolare dell’impresa familiare unitariamente intesa” e (2) che “a fronte di un unico imprenditore (persona fisica) non può che ipotizzarsi un’unica azienda, ancorchè suddivisa in più “rami” autonomi” – denunzia “violazione” degli “artt. 112 e 132 c.p.c., comma 2, n. 4″ e dell'”art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1” (“error in procedendo”) assumendo che “la decisione impugnata risulta affetta da carenza o contraddittoria motivazione” perchè “la Corte campana non motiva nè spiega il ragionamento … seguito per ritenere “l’immobile … incluso … nel patrimonio personale dei contribuente”; secondo il ricorrente, “un bene immobile, strumentale per natura ed appartenente ad un ramo di azienda concesso in fitto da parte dell’imprenditore individuale”, diversamente dall'”ipotesi di fitto “dell’unica azienda” da parte dell’imprenditore individuale”, non cessa, “per tale motivo”, “di far parte dei beni dell’impresa (azienda)” e non entra “nel patrimonio privato del soggetto”: “nel caso”, egli, quindi, “non ha mai perduto la qualifica di imprenditore … nè … i beni aziendali hanno cessato di far parte dell’impresa per entrare nella sua sfera privata” perchè si tratta di “fitto di un ramo di azienda”.

C. Con il terzo (ultimo) motivo lo S. – dedotto che “parallelo giudizio, incardinato avverso l’avviso di accertamento notificato ai fini dell’imposta di registro e fondato sui medesimi fatti, conclusosi con sentenza n. 132/44/2000 della CTR della Campania … passata in giudicato” nella quale si “afferma in maniera definitiva” che “l’impresa SPARTANO, titolare della partita IVA …, cui fa capo l’impresa familiare costituita il 27 dicembre 1977, aveva contabilizzato, nel libro cespiti ammortizzabili, l’immobile oggetto della controversia per L. … a far data dal primo dicembre 1984, rivalutato per L. …. nel 1993” – denunzia “violazione” dell'”art. 2909 c.c. nonchè dei principi in tema di cosa giudicata” e del ” D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1″ (“contraddittorietà della motivazione”) esponendo:

– “quanto sopra trova riscontro nell’estratto notarile del libro giornale esibito, “dal quale si evince che alla data del 31 dicembre 1991 l’albergo era stato contabilizzato tra le attività”;

– “dagli atti si evince come esso ricorrente abbia “sempre assoggettato ad IVA il corrispettivo della locazione”;

– “il fitto di azienda (rectius: “ramo di”) “non comporta la perdita della qualifica di imprenditore da parte del locatore, nè che detto bene sia entrato a far parte dei beni personali di quest’ultimo””.

Per il ricorrente “si tratta dei medesimi presupposti” per cui “per costante giurisprudenza” di questa Corte (“ex plur. Cass. …

sentenza n. 10280/2000”) “quando due giudizi fra le stesse parti abbiano ad oggetto un medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento compiuto in merito ad una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su un punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituente premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato precludono l’esame del punto accertato e risolto” e questo “anche nel caso che il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo ed il petitum del primo”.

3. Il ricorso è infondato.

A. In via preliminare va, ex officio, rilevata e dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto contro il Ministero perchè Il ricorrente non ha nemmeno dedotto che questo ente abbia preso parte al giudizio di appello nè allegato (e provato) che lo stesso sia titolare di un qualche rapporto giuridico che – come costantemente richiesto da questa Corte (Cass.: 2^, 23 agosto 2007 n. 17922; trib., 7 maggio 2007 n. 10341; 3^, 26 gennaio 2006 n. 1692;

2^, 26 gennaio 2006 n. 1507; 2005 n. 965; 2^, 13 settembre 2004 n. 18346; 2^, 29 aprile 2003 n. 6649; 2^, 4 febbraio 2002 n. 1468; 2^, 23 novembre 2001 n. 14910) – lo legittimi, anche al fine di dimostrare la sussistenza del necessario ed imprescindibile interesse (art. 100 c.p.c.), a contraddire all’impugnazione proposta nei suoi confronti.

In proposito, va ricordato che per effetto ed in conseguenza del trasferimento di funzioni e di rapporti inerenti le entrate tributarie dal Ministero (dell’Economia e) delle Finanze alle Agenzie Fiscali (tra cui, l’Agenzia delle Entrate) – le quali ultime sono divenute operative a partire dal primo gennaio 2001 in base al D.M. 28 dicembre 2000, art. 1 – disposto dal titolo quinto, capo secondo, D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ciascuna Agenzia 1) è succeduta al Ministero nei rapporti, sostanziali e processuali, in corso a quel mo- mento e (2) è divenuta titolare esclusiva dei rapporti tributari (e, pertanto, unica legittimata processualmente) sorti successivamente alla data detta di sua operatività:: nel caso, dall’epigrafe della sentenza impugnata emerge che l’appello dell’Ufficio (afferente a decisione assunta nel 2001) è stato depositato il 7 agosto 2002, quindi proposto dopo il primo gennaio 2001 detto, per cui il processo di appello si è svolto solo tra l'(Ufficio locale dell’) Agenzia ed esso contribuente.

B. Ancora in via preliminare, va, poi, precisato che il ricorso in esame non è soggetto alle disposizioni dettate dall’art. 366 bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, a far data dal 2 marzo 2006) perchè (art. 27, comma 2, del citato D.Lgs.) quella norma, finchè in vigore essendo stata abrogata dalla L. 18 giugno 2009 n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), si applica (va) soltanto “ai ricorsi per cassazione proposti avverso te sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalia data di entrata in vigore” del decreto del 2006 (quindi solo dal 2 marzo 2006) mentre la sentenza impugnata è stata depositata il 21 marzo 2005.

C. La violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 53, nonchè dell’art. 342 c.p.c., denunziata con il primo motivo di ricorso, è insussistente atteso che l’appello dell’Ufficio non si rivela affatto carente di “impugnazione della ratio decidendi”: l’appellante, infatti, ha contestato il giudizio sfavorevole dei primo giudice (per il quale “alla data del 31 dicembre 1991 l’immobile albergo era tra le attività”) espressamente protestando (con l’assunto che “la dichiarazione di impresa familiare reg.ta il 17 gennaio 1992 … non prevedeva tra le attività nessun albergo”) che, contrariamente a quanto affermato dalla Commissione Tributaria Provinciale, “l’immobile adibito ad albergo … non era mai stato contabilizzato tra i beni della impresa familiare”.

La riproposizione, a supporto del gravame, della “motivazione dell’avviso annullato”, inoltre, di per sè sola, non esclude il rispetto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53 (per il cui primo comma “il ricorso in appello” deve contenere “motivi specifici dell’impugnazione”) dovendosi ribadire che (Cass., trib., 12 novembre 2007 n. 23469) “l’onere d’impugnazione specifica imposto” da tale norma – atteso il “carattere devolutivo pieno” dell’appello mezzo di impugnazione “non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (Cass. n. 21745/2006)” – “è assolto anche quando … siano riproposte le stesse argomentazioni poste a sostegno della validità dell’atto impugnato dal contribuente, se l’amministrazione finanziaria le considera idonee a sostenerne la legittimità ed a confutare le diverse conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado (Cass. n. 14031/2006)”;

Benchè non incluso nella censura in esame, va, infine, ricordato che (Cass., trib., 28 giugno 2007 n. 14912, da cui gli excerpa, e un., 14 gennaio 2005 n. 604) “nel processo tributario, la disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 52, comma 2, secondo la quale gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze e gli uffici del territorio devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale, rispettivamente, dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione generale delle entrale e dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio, non è più suscettibile di applicazione una volta divenuta operativa – in forza del D.M. Economia 28 dicembre 2000, – la disciplina recata dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, che ha istituito le agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle finanze, e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, da esercitarsi secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia”.

D. La tesi formulata nel secondo motivo di ricorso – per la quale, ai fini della spettanza del beneficio fiscale negato dall’Ufficio, “un bene immobile, strumentale per natura ed appartenente ad un ramo di azienda concesso in fitto da parte dell’imprenditore individuale”, diversamente dall'”ipotesi di fitto “dell’unica azienda” da parte dell’imprenditore individuale”, non cessa, “per tale motivo”, “di far parte dei beni dell’impresa (azienda)” e non entra “nel patrimonio privato del soggetto” – non ha pregio.

D.1. L’art. 29 (come modificato dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 4, convertito nella L. 24 marzo 1993, n. 75) L. 30 dicembre 1991, n. 413, disponeva che “le imprese familiari, ai fini della loro trasformazione in società in nome collettivo o in accomandita semplice, mediante conferimento d’azienda, possono avvalersi, fino al 30 settembre 1993, delle disposizioni di cui al D.L. 19 dicembre 1984, n. 853, art. 3, comma 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 1985, n. 17, purchè costituite e risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 5, ultimo comma e successive modificazioni, alla data del 31 dicembre 1991”.

Per il comma 16 (come modificato dalla L. 17 febbraio 1985, n. 17, articolo unico, in sede di conversione) del D.L. 19 dicembre 1984, n. 853, art. 3 “se fra l’imprenditore e i collaboratori familiari di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 5, comma 4, indicati nell’atto pubblico o nella scrittura privata ivi previsti, venga costituita, con atto sottoposto a registrazione entro il 30 settembre 1985, una società in nome collettivo o in accomandita semplice con contestuale conferimento dell’azienda da parte dell’imprenditore, il conferimento stesso è soggetto alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa e non è considerato cessione agli effetti delle imposte sul reddito; l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili compresi nell’azienda è ridotta alla metà.

Il riferimento al quarto comma del suddetto art. 5 si intende fatto al testo vigente anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Dall’esame delle norme riprodotte si evince che: – la possibilità di avvalersi delle “disposizioni di cui al D.L. 19 dicembre 1984, n. 853, art. 3, comma 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 1985, n. 17” è stata concessa unicamente alle “imprese familiari, ai fini della loro trasformazione in società in nome collettivo o in accomandita semplice, mediante conferimento d’azienda”;

l'”azienda” da conferire (ovverosia, giusta la “nozione” data dall’art. 2555 cod. civ., “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”) è quella “familiare”, ovverosia, giusta il rinvio “al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 5, comma 4”, all’impresa da cui il titolare ed i familiari (in proporzione “alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa”) ricavano il rispettivo reddito.

D.2. Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 (ora art. 55) (TUIR), poi, considera “redditi di impresa” (oltre ad altri, anche per i quali è comunque costante il riferimento all'”esercizio” di una specifica “attività”) “quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali”: i “redditi” qualificabili come “di impresa”, quindi, sono unicamente quelli che “derivano dall’esercizio di imprese” (“commerciali”; “prestazione di servizi”; “agricole”).

D.3. Dal combinato disposto di tale norma e di quelle richiamate al punto D.1. discende che:

(1) un “reddito” può essere qualificato d'”impresa” soltanto se prodotto nell'”esercizio” di un’impresa, quindi è tale solamente per il soggetto che esercita effettivamente l’attività economica che lo produce;

(2) un’ impresa va qualificata come “familiare” se i soggetti legati da “rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore” prestino concretamente il proprio “lavoro” nell'(attività esercitata dall’impresa stessa, per cui il reddito complessivo viene ripartito in misura proporzionata alla “qualità e quantità di lavoro effettivamente prestato nell’impresa” da ognuno dei partecipanti;

(3) il “conferimento d’azienda” considerato nella L. n. 413 del 1991, art. 29, “ai fini della … trasformazione in società in nome collettivo o in accomandita semplice” di una “impresa familiare” è solo quello che abbia ad oggetto l'”azienda” (o parte di essa) nella quale i parenti e/o gli affini dell’imprenditore partecipi dell’impresa familiare prestino la loro opera effettiva al momento del “conferimento”, divisato per operare la “trasformazione” dell’impresa in società.

L’evidente finalità di rafforzamento della posizione dei partecipi dell’impresa familiare conseguente all’acquisto, da parte degli stessi, dello status di soci: cfr., Cass., lav. 20 giungo 2003 n. 9897, secondo cui “mentre l’impresa collettiva esercitata per mezzo della società semplice appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (art. 2251 e segg. cod. civ.), l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili” e “tale regime” non è “escluso qualora uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari” perseguita dalla norma agevolativa, quindi, esclude ogni rilevanza giuridica alla distinzione (disconoscimento del beneficio in questione solo in “ipotesi di fitto “dell’unica azienda” da parte dell’imprenditore individuale” e non anche in quella di affitto di un ramo di azienda) proposta dal contribuente perchè un ramo di azienda dato in affitto (quindi imprenditorialmente gestito da altri), giuridicamente, non fa più parte dell'”azienda” (solo per il cui conferimento le disposizioni richiamate apprestano il beneficio fiscale negato dall’Ufficio) dell’impresa familiare perchè nessuno dei partecipi presta (o può prestare) il suo lavoro in quel “ramo” unicamente in forza del rapporto di parentela (insussistente con l’affittuario estranee): conseguentemente viene meno qualsiasi giustificazione (anche logica) per il riconoscimento del trattamento fiscale di cui all’art. 29 della legge.

E. Il terzo motivo (“violazione” dell'”art. 2909 c.c, nonchè dei principi in tema di cosa giudicata”) fondato sull’assunto che un “parallelo giudizio, incardinato avverso l’avviso di accertamento notificato ai fini dell’imposta di registro e fondato sui medesimi fatti” si è concluso “con sentenza n. 132/44/2000 della CTR della Campania … passata in giudicato”, nella quale si sostiene essersi affermato “in maniera definitiva” che “l’impresa SPARTANO, titolare della partita IVA …, cui fa capo l’impresa familiare costituita il 27 dicembre 1977, aveva contabilizzato, nel libro cespiti ammortizzabili, l’immobile oggetto della controversia per L. … a far data dal primo dicembre 1984, rivalutato per L. ….. nel 1993” , infine, è inammissibile.

Le sezioni unite di questa Corte (sentenza 20 ottobre 2010 n. 21493), infatti, hanno convincentemente statuito che “nel caso … in cui il giudicato esterno si sia formato nel corso del giudizio di secondo grado e l’esistenza di tale giudicato non sia eccepita, in giudizio, dalla parte che ne abbia interesse, la sentenza di appello che abbia giudicato in difformità da tale giudicato e impugnabile con il ricorso per revocazione e non con il ricorso per cassazione”, precisando che la “soluzione è … coerente con la giurisprudenza delle sezioni unite in tema di giudicato esterno, considerato che la possibilità di dedurre per la prima volta nel giudizio di cassazione l’eccezione di giudicato esterno che, per essersi formato nelle more del giudizio di merito, poteva essere in quella sede, dedotto risulta chiaramente esclusa sia dalla sentenza 226/01 che dalla sentenza 13916/06”.

Nella specie il ricorrente invoca (il passaggio in cosa giudicata, peraltro non documentato con la certificazione prescritta dall’art. 124 disp. att. c.p.c., sulla cui necessità, cfr., Cass., lav. 2 marzo 2008 n. 8477, per la quale “circa la certezza del passaggio in giudicato, questa Corte richiede la presenza in atti della sentenza munita della relativa attestazione di cancelleria (Cass. 3 novembre 2006 n. 23567, 10 novembre 2006 a 24067, 22 maggio 2007 n, 11889)” che assume contenuto nel) la sentenza n. 132/22/00 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, il termine cd. “lungo” (ex art. 327 c.p.c.) per l’impugnazione della quale dovrebbe essere scaduto martedì 19 giugno 2001 (essendo stata depositata il 4 maggio 2000), quindi vari anni prima della stessa delibera (il 14 marzo 2005) della sentenza impugnata.

4. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese del giudizio di legittimità in quanto nessuno degli intimato ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso contro il Ministero;

rigetta il ricorso contro l’Agenzia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2011

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