Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4772 del 24/02/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 24/02/2017, (ud. 06/06/2016, dep.24/02/2017),  n. 4772

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1934-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE TRASTEVERE

78, presso lo studio dell’avvocato COCCIA SERGIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato PASQUALE TARRICONE giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 70/2010 della COMM.TRIB.REG. della Campania,

depositata il 15/02/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/06/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato CAMASSA che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato TARRICONE che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con ricorso per cassazione affidato ad un motivo, cui replica l’intimato con controricorso e memorie depositate ai sensi dell’art. 378 c.p.c., l’Agenzia delle entrate impugna la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 70 del 15 febbraio 2010 che ha accolto l’appello proposto dal contribuente B.L., esercente la professione di farmacista, avverso la sentenza di primo grado che, invece, aveva rigettato l’impugnazione da quello proposto avverso l’avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, aveva recuperato a tassazione ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, relativamente all’anno d’imposta 2004, il maggior reddito di Euro 174.000,00 determinato con riferimento a quattro versamenti effettuati sul conto corrente bancario intestato al contribuente, non registrati e non giustificati.

Ha sostenuto il giudice di appello, per la parte ancora qui di interesse, relativa al versamento sul conto corrente del contribuente dell’importo di Euro 50.000,00 effettuato in data 19 luglio 2004 – avendo l’Amministrazione finanziaria affermato nel ricorso per cassazione di aver prestato acquiescenza alle altre statuizioni contenute nella sentenza impugnata – che si trattava di erogazione liberale fatta in contanti dalla suocera, come dalla medesima confermato nell’autocertificazione prodotta in atti, per sopperire a difficoltà finanziarie del genero, che era circostanza non contestata dall’Ufficio e comunque documentalmente provata al contribuente.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione da parte dei giudici di appello dell’art. 2697 c.c. in combinato disposto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 2, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7.

Sostiene la difesa erariale che la sentenza impugnata viola le citate disposizioni per avere ritenuto sufficiente ad assolvere l’onere della prova posto a carico del contribuente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, il deposito di una dichiarazione autocertificata proveniente da un terzo, nella specie la suocera del contribuente, peraltro congiunto del medesimo, nonostante il divieto di giuramento e prova testimoniale fissato nel processo tributario dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7.

2. Il motivo è inammissibile.

2.1. La censura, infatti, muove dal presupposto, invero erroneo, che la decisione impugnata si fonda solo ed esclusivamente sulla dichiarazione resa da N.I.E., suocera del contribuente, mentre invece dal contenuto della motivazione emerge con assoluta chiarezza che la CTR ha valutato il contenuto di quella dichiarazione autocertificata unitamente ad una pluralità di elementi indiziari.

Ribadito il consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte (Cass. S.U. n. 24823 del 2015; Cass. ord. n. 10903 e n. 10905 del 2016, sent. n. 5018 del 2015, n. 11785 del 2010, n. 16032 del 2005, n. 4269 del 2002) sulla possibilità, nel processo tributario e per entrambe le parti, di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, che hanno il valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (Corte costituzionale, sent. n. 18 del 2000), nel caso in esame il giudice a quo non è incorso nelle dedotte violazioni di legge avendo correttamente valutato le dichiarazioni contenute nell’autocertificazione prodotta dal contribuente alla stregua degli altri elementi da quello pure addotti, e non contestati dall’Ufficio, tra i quali vanno annoverati le dichiarazioni di altri parenti, la documentazione attestante la cessione di un immobile da parte del contribuente e la richiesta di apertura di credito per 70.000,00 Euro garantito da altro immobile intestato alla moglie, idonei a dimostrare le gravi difficoltà finanziarie in cui il B. aveva dichiarato di versare e, quindi, a giustificare l’erogazione liberale ricevuta dalla suocera.

3. Alla stregua di tali considerazioni emerge, quindi, che la censura mossa dalla ricorrente alla statuizione d’appello oltre a non cogliere la ratio decidendi in essa rinvenibile, è anche erroneamente sussunta sotto il profilo dell’error in iudicando, mentre invece andava dedotta come vizio logico di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che quella effettuata nella specie dalla Commissione di appello è tipica attività di valutazione degli elementi presuntivi addotti dal contribuente, che nel caso di specie il giudice di merito ha peraltro condotto con procedimento ineccepibile avendo, dapprima, analiticamente selezionato gli elementi utilizzabili in relazione allo specifica questione esaminata per poi valutarli globalmente nella loro portata dimostrativa, rilevandone la concordanza e, quindi, l’idoneità, nella loro combinazione, a fornire una valida prova presuntiva (in termini, Cass. n. 17858 del 2003; n. 11372 del 2005; n. 1715 del 2007; n. 9108 del 2012; n. 22801 del 2014).

3.1. Come costantemente affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 26110 del 2015, in motivazione), l’errata valutazione dei fatti probatori acquisiti al giudizio – in cui si sostanzia la censura in esame – comporta un difetto nella ricostruzione della fattispecie concreta dedotta in giudizio e dunque un “errore di fatto” incompatibile con il vizio di violazione di norme di diritto denunciato dalla ricorrente che comporta, invece, un “errore di diritto” nell’attività di giudizio, in quanto si traduce nella inesatta o errata individuazione od interpretazione della norma (o della fattispecie astratta in essa considerata) che deve essere applicata al rapporto come esattamene cognito nei suoi elementi fattuali, ovvero in un errore di sussunzione (che si verifica quando i fatti come oggettivamente rilevati non appaiono riconducibili alla fattispecie astratta contemplata dalla norma, ovvero pur essendo a quella riconducibili vengono tuttavia regolati dal Giudice sulla base di effetti giuridici diversi da quelli considerati dalla norma applicata). La ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamente affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Cass. n. 6224 del 2002, n. 15499 del 2004, n. 10295 del 2007, n. 16698 del 2010, n. 10385 del 2005, n. 9185 del 2011, n. 8315 del 2013, n. 195 del 2016).

3.2. Pertanto, la ricorrente avrebbe dovuto far valere la doglianza attraverso la denuncia del vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e non attraverso il vizio di violazione di norma di diritto sostanziale, con il che ne consegue l’inammissibilità del motivo.

4. In applicazione del principio della soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo ai sensi del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, nonchè al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il motivo di ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 2.700,00 oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione quinta civile, il 6 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2017

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