Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4771 del 28/02/2018


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Cassazione civile, sez. I, 28/02/2018, (ud. 07/11/2017, dep.28/02/2018),  n. 4771

Fatto

Con sentenza del 22 febbraio 2011, il Tribunale di Firenze respinse le domande di accertamento negativo della contraffazione e di risarcimento del danno, proposte dalla Vintage s.r.l. e da B.S. contro la George V Restauration s.a., la George V Records s.a. e la San Carlo dal 1973 s.p.a., titolari dei marchi – comunitari ed internazionale designante l’Italia – (OMISSIS), accogliendo, invece, le domande riconvenzionali proposte dalle convenute, volte all’accertamento della nullità del marchio (OMISSIS), all’inibitoria dell’uso del medesimo ed alla condanna degli attori al pagamento di una penale per la violazione, nonchè al risarcimento del danno, liquidato in Euro 200.000,00.

Pronunciando sulle contrapposte impugnazioni, la Corte d’appello di Firenze con sentenza del 20 febbraio 2013 ha respinto l’appello principale, proposto dalla Vintage s.r.l. e da B.S., ed ha accolto gli appelli incidentali, ponendo le spese di c.t.u. a carico dei predetti ed ordinando la pubblicazione della sentenza di primo grado.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che: a) la questione della nullità dei marchi, nella titolarità delle società convenute, non potesse essere esaminata, in quanto tale domanda non fu tempestivamente proposta in primo grado e si tratta di nullità non rilevabile d’ufficio, indicando la legittimazione all’azione del pubblico ministero che solo questa è la via dal legislatore prescelta per la protezione degli interessi generali; in ogni caso, quanto al marchio comunitario, la domanda di accertamento negativo è incompatibile con quella di nullità, ai sensi dell’art. 99, comma 2, reg. 207/09/CE; b) nessun motivo di appello è stato formulato circa il rigetto della domanda di accertamento della non contraffazione, onde restano inammissibili le considerazioni al riguardo proposte solo in comparsa conclusionale d’appello; c) sussiste il danno da lucro cessante per la contraffazione del marchio delle originarie convenute, come ritenuto dal giudice di primo grado; d) di esso deve rispondere anche il B., per l’esistenza dell’elemento psicologico in capo al medesimo, dal momento che egli aveva chiesto a suo tempo, senza esito, la licenza di marchio alle convenute, dimostrando in tal modo di conoscere il diritto priore, affermazione del tribunale su cui, peraltro, non vi è motivo di appello adeguatamente specifico; e) l’importo liquidato a titolo risarcitorio è congruo; f) la sentenza di primo grado ha errato omettendo di provvedere all’attribuzione delle spese di consulenza tecnica d’ufficio e di disporre la pubblicazione per estratto della sentenza di primo grado.

Avverso questa sentenza propone ricorso B.S., affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso la San Carlo dal 1973 s.p.a., mentre non svolgono difese le altre intimate.

Le parti hanno depositato le memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorrente propone avverso la sentenza impugnata cinque motivi di censura, che possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed omesso esame di fatto decisivo, per avere la corte d’appello ritenuto non rilevabile d’ufficio la nullità del marchio avverso, mentre ciò è possibile tutte le volte che esso, come nella specie, violi gli interessi della collettività, perchè contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume: al riguardo, ha già provveduto a detta declaratoria, su domanda di parte, il Tribunale di Milano con sentenza n. 12961 del 2008, confermata dalla Corte d’appello di Milano con la sentenza n. 3131 del 2010;

2) violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riguardo all’errata valutazione circa il difetto di idoneità distintiva, la debolezza del segno (OMISSIS) e la confusione tra i marchi in questione, avendo la corte territoriale ritenuto inammissibili le censure in punto di inidoneità distintiva del marchio, per la considerazione che non era stata impugnata la statuizione di rigetto della domanda di non contraffazione, risultando di conseguenza tardive le censure svolte in conclusionale: sostiene, invece, il ricorrente che in appello si era doluto dell’omessa pronuncia circa la nullità del marchio (OMISSIS) per difetto di idoneità distintiva, in quanto quelli di controparte sono marchi deboli, dove anche modeste varianti escludono la confusione, onde nel merito deve concludersi che i marchi non sono affatto confondibili tra di loro;

3) omessa motivazione con riguardo all’an e al quantum della domanda risarcitoria, come conseguenza del non avere la sentenza impugnata pronunciato la nullità del marchio avverso, nè accertato la non confondibilità dei marchi;

4) motivazione insufficiente e contraddittoria circa le conclusioni errate della consulenza tecnica d’ufficio ed il mancato assolvimento dell’avverso onere probatorio sul danno;

5) violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed errata valutazione in ordine alla personale responsabilità del B., mero titolare del marchio e non utilizzatore del medesimo.

2. – Il secondo motivo, da esaminare con priorità per ragioni logico-giuridiche, è inammissibile per plurime ragioni.

In primo luogo, esso palesa l’erronea individuazione della tipologia di vizio: a fronte della statuizione di inammissibilità delle censure siccome formulate in comparsa conclusionale, il ricorrente avrebbe dovuto dedurre un error in procedendo (artt. 112 e 342 c.p.c.).

In secondo luogo, nel ricorso non vengono riportati i contenuti del presunto motivo di appello; mentre il fatto di avere lamentato nell’atto di appello che non fosse stata esaminata la questione della nullità del marchio è deduzione generica, la quale non smentisce l’affermazione della corte territoriale, secondo cui non vi fu impugnativa sulla statuizione di rigetto della domanda di non contraffazione.

3. – Il primo motivo è inammissibile relativamente al marchio comunitario.

Dalla parte ricorrente non viene, invero, censurata l’autonoma ratio decidendi, esposta dalla sentenza impugnata, secondo cui la validità di un marchio comunitario non può essere contestata nell’ambito di un’azione di accertamento di non contraffazione, alla stregua del disposto dell’art. 99, comma 2, reg. 207/09/CE, secondo cui “La validità di un marchio comunitario non può essere contestata nell’ambito di un’azione di accertamento di non contraffazione”.

Ne deriva il giudicato in parte qua e l’inammissibilità del motivo sul punto.

4. – Con riguardo al marchio internazionale, oggetto di autonoma registrazione e dunque non coperto dal giudicato, il motivo è infondato, dovendo invero ritenersi non rilevabile d’ufficio la nullità del marchio medesimo.

4.1. – Va anzitutto ricordato, come di recente affermato dalle Sezioni unite, che – così come il marchio comunitario è il segno distintivo di un prodotto o di un servizio valido per tutti i paesi dell’Unione – nel marchio internazionale il rilascio, ai sensi dell’accordo di Madrid, avviene a seguito di una procedura unificata di deposito che sfocia nel conferimento di una pluralità di distinti marchi nazionali che producono, in ciascuno Stato gli stessi effetti della domanda di registrazione di un marchio nazionale che fosse ivi direttamente depositato. Il presupposto essenziale perchè si possa procedere al deposito di un marchio internazionale è l’esistenza di un marchio nazionale che sia stato registrato nello Stato di origine, quale Stato membro dell’accordo di Madrid; tra il marchio nazionale di base ed il marchio internazionale sussiste dunque un rapporto di interdipendenza, dovendo quest’ultimo essere identico al marchio nazionale di base (onde qualora il marchio nazionale sia dichiarato nullo per qualsiasi motivo o anche solo venga ritirato, automaticamente viene meno il corrispondente marchio internazionale) (Cass., sez. un., 4 luglio 2016, n. 13570).

Hanno precisato le Sezioni unite che, poichè il marchio in questione dà luogo ad una moltitudine di marchi nazionali, è alla disciplina di ciascuno Stato designato dalla registrazione che occorre, sia nella fase di registrazione che nella fase successiva quando il marchio è stato registrato, fare riferimento per ogni ipotesi di nullità, decadenza e per la difesa giudiziale della privativa.

4.2. – Questa Corte ha invero ricostruito la fattispecie dell’acquisto dei diritti in materia di marchi d’impresa, ricordando che essi derivano dall’integrazione di due distinte fattispecie complesse, quella brevettuale e quella di fatto: per quanto ora interessa, la fattispecie brevettuale “è costituita dall’atto creativo del segno distintivo (parola, figura o segno, atti a contraddistinguere prodotti o merci), dal procedimento di registrazione del segno (fattispecie costitutiva), e, ulteriormente ed eventualmente, dal trasferimento del marchio insieme con l’azienda o ramo di essa (fattispecie traslativa)” (Cass. 28 giugno 1980, n. 4090).

Pertanto, in relazione a ciò, le cause di invalidità ineriscono alle fattispecie summenzionate, e non ai marchi, che sono bene giuridico e quindi oggetto delle fattispecie.

Se il titolare del marchio acquista un fascio di tutele al momento della sua registrazione (cfr. art. 2, comma 1, cod. prop. ind., secondo cui i “diritti di proprietà industriale si acquistano mediante brevettazione, mediante registrazione o negli altri modi previsti dal presente codice. La brevettazione e la registrazione danno luogo ai titoli di proprietà industriale”), per nullità del marchio deve intendersi il venir meno degli effetti della sua registrazione, dopo che quella nullità venga dichiarata.

La registrazione comporta, quindi, il pieno dispiegarsi di tutti gli effetti del(la tutela del) marchio, ancorchè in ipotesi questo non risponda ai requisiti legali.

Donde solo quando la registrazione sia dichiarata invalida si verifica la conseguente perdita, da parte del titolare, delle relative tutele, di cui fino ad allora egli avrà goduto pienamente, persino allorchè venga in seguito dichiarata l’illiceità.

La nullità, pertanto, riguarda più propriamente la registrazione, non la privativa in sè; la prima è idonea a dispiegare i suoi effetti sino alla declaratoria giudiziale di nullità, accertando allora un giudice che la registrazione è avvenuta al di fuori dei presupposti di legge.

La pronuncia giudiziale toglierà effetto alla registrazione in un momento successivo e dopo che essa avrà dispiegato, per un dato lasso di tempo, tutte le tutele che rappresenta; sebbene, peraltro, il vizio sia suscettibile di dar luogo ad una pronuncia giudiziale meramente dichiarativa.

Nell’ambito della teoria generale, l’esistenza di una ragione di nullità osta all’efficacia dell’atto (quod nullum est nullum producit effectum): nella materia in esame, il diritto positivo attribuisce al marchio nullo – o, meglio, alla sua registrazione pur eseguita al di fuori delle condizioni previste dalla legge – una relativa stabilità di effetti favorevoli ed una presunzione di validità, sino a quando i soggetti a ciò specificamente legittimati richiedano l’accertamento della, sebbene originaria, nullità.

Nessuna radicale inefficacia, ma viceversa presunzione di validità ed efficacia della registrazione, sia pure suscettibile di rivelarsi, in seguito, provvisoria, in ragione della introduzione di un’apposita azione o della proposizione, almeno, di un’eccezione di nullità.

4.3. – Secondo il sistema attuale, dal combinato disposto degli artt. 14 e 25 cod. propr. ind. si trae che plurime sono le ipotesi di “nullità del marchio”.

La legge annovera tradizionalmente, invero, entro tale nozione la sua illiceità, in quanto esso sia composto da segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 14, comma 1, lett. a) e art. 25, lett. b)).

Ma ad essa è ricondotta una serie di altre ipotesi eterogenee, quali l’essere il marchio costituito da segni non suscettibili di venire rappresentati graficamente o che non siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese (art. 7), da ritratti di persone, nomi e segni notori fuori dai limiti in cui possono divenire marchi (art. 8), il cd. marchio di forma (art. 9), lo stemma d’interesse pubblico (art. 10), la mancanza dei requisiti della novità (art. 12) e del carattere distintivo (art. 13), o, addirittura, la mala fede in capo a colui che abbia presentato la domanda (art. 19, comma 2) o se il brevetto è stato rilasciato oppure la registrazione è stata effettuata a nome di persona diversa dall’avente diritto ((art. 118, comma 3, lett. b)).

Nel diritto interno, può agire per ottenere detta declaratoria qualsiasi soggetto interessato o il pubblico ministero, oppure, nell’ipotesi di preesistenza di diritti anteriori, solo il relativo titolare (art. 122 cod. propr. ind.).

Invero, l’art. 122 cod. prop. ind., nel disciplinare la legittimazione all’azione di nullità e di decadenza di un titolo di proprietà industriale, afferma che essa “può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d’ufficio dal pubblico ministero. In deroga all’art. 70 c.p.c. l’intervento del pubblico ministero non è obbligatorio”.

Prosegue il secondo comma stabilendo che l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un marchio per la sussistenza di diritti anteriori o per violazione dell’altrui diritto d’autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo, per violazione del diritto al nome o al ritratto, oppure perchè la registrazione del marchio è stata effettuata a nome del non avente diritto, “può essere esercitata soltanto dal titolare dei diritti anteriori e dal suo avente causa o dall’avente diritto”.

Tutte le altre ipotesi di nullità, dunque, ricadono nel menzionato primo comma.

Si è passati a questo regime da quello precedente, cui si ispirava la legge marchi di cui al R.D. 29 giugno 1942, n. 929: ove era dettata una disciplina unica, secondo cui la nullità del marchio poteva essere chiesta dal pubblico ministero e da chiunque vi avesse interesse, senza alcun rilievo della causa che tale nullità cagionava.

La regola veniva ricondotta alla sottostante tutela dell’interesse collettivo, facente capo al mercato nel suo complesso e, in particolare, agli imprenditori ed ai consumatori, a non essere ingannati.

4.4. – La dottrina ha da tempo definito le fattispecie menzionate all’art. 122 cod. prop. ind., comma 1 come di nullità assoluta e quelle di cui al comma 2 come di nullità relativa: con ciò intendendo specificamente riferirsi alla legittimazione attiva a farle valere, nell’un caso diffusa ed attribuita anche al P.M., nel secondo limitata al titolare del diritto anteriore.

La distinzione tra nullità assoluta e nullità relativa attiene dunque, anche in materia di marchi, alla cerchia dei soggetti legittimati ad esperire l’azione.

In tal modo, l’ordinamento ha attribuito la legittimazione e l’interesse ad escludere la presenza di segni confondibili in capo, in primo luogo, all’imprenditore che abbia prescelto quel marchio secondo diritto: legittimando, altresì, all’esercizio dell’azione qualsiasi interessato ed anche la parte pubblica, tutte le volte in cui la natura del vizio renda palese l’interesse degli altri imprenditori, dei consumatori e del mercato in generale ad evitare che la concorrenza si svolga in modo scorretto, inducendo confusione fra i prodotti e servizi offerti dai diversi imprenditori, o ci si serva addirittura di segni illeciti, in contrasto con gli interessi più generali della collettività.

4.5. – La norma in tema di legittimazione nessun riferimento compie alla rilevabilità d’ufficio; dal suo canto, l’art. 121 cod. prop. ind. stabilisce che “l’onere di provare la nullità o la decadenza del titolo di proprietà industriale incombe in ogni caso a chi impugna il titolo”.

Vero è che la disposizione è rubricata “ripartizione dell’onere della prova” e, dunque, mira a sottolineare che il soggetto che contesta una privativa è onerato della prova degli elementi costitutivi del vizio denunziato.

Ma essa può essere letta nel senso ulteriore e sistematico che solo all’impugnante spetti fornire detta dimostrazione, perchè solo al medesimo, come ribadito dal successivo e già ricordato art. 122 cod. prop. ind., compete proporre la domanda (o l’eccezione riconvenzionale) di nullità.

Ciò, anche se la registrazione espande erga omnes i propri effetti di tutela, così come la declaratoria di nullità di un titolo di proprietà industriale ha efficacia nei confronti di tutti quando sia dichiarata con sentenza passata in giudicato (art. 123 cod. propr. ind.).

4.6. – Non convince la tesi, da taluno avanzata, secondo cui la nullità sarebbe sempre rilevabile d’ufficio, ove dipendente da illiceità.

Si è visto che restano accomunate nella sanzione di nullità una pluralità di situazioni, anche assai diverse dalla connotazione tradizionale civilistica dell’illiceità, intesa come contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (es. artt. 634,1343,1345,1346,1354,1418 e 2031 c.c.).

Pur tuttavia, alla base di ciascuna delle fattispecie cui si applica il comma primo dell’art. 122 cod. prop. ind. (segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, segni non suscettibili di essere rappresentati graficamente, segni notori fuori dai limiti in cui possono divenire marchi, marchio di forma, stemma d’interesse pubblico, mancanza di carattere distintivo, mala fede in capo a colui che abbia presentato la domanda: in una, le fattispecie estranee alla tutela dei cd. diritti anteriori) risiede quella particolare connotazione di disvalore per l’ordinamento giuridico che il legislatore ha inteso accomunare nella medesima sanzione di “nullità del marchio” (definizione peraltro riferita anche alle ipotesi in cui apparentemente il diritto leso è solo quello di un’impresa concorrente): e ben si comprende, se si riflette che tutta la disciplina della tutela dei segni distintivi dell’impresa inevitabilmente investe, accanto alla tutela della situazione giuridica soggettiva del diretto interessato, anche quella propria del mercato nel suo insieme. Onde talune situazioni di particolare disvalore sotto questo punto di vista sono state accomunate nella sanzione della nullità, ed altre, pur diverse dalla pura illiceità, nell’attribuzione dell’iniziativa al pubblico ministero.

Onde, ancora, alla mancata previsione del rilievo d’ufficio non potrebbe attribuirsi significato opposto per l’una e per l’altra fattispecie: si vuol dire che, così come tutte le ipotesi menzionate conducono a nullità del marchio, nè potrebbe diversamente qualificarsi la sanzione che l’ordinamento riserva a ciascuna in base alle considerazioni assiologiche dell’interprete, del pari per tutte va esclusa la rilevabilità d’ufficio del vizio.

Non senza considerare che in altre discipline settoriali la rilevabilità d’ufficio, pur nella fattispecie definite come di “nullità”, è stata espressamente prevista dal legislatore (cfr. art. 2379 c.c., sia nel testo anteriore, sia successivo alla riforma del 2003). Rispetto a queste, resta oltretutto diversa la situazione in esame, dove non si tratta di dichiarare la nullità di un contratto o di un atto unilaterale, ma (della registrazione) del segno distintivo.

L’esistenza di un marchio registrato è assistita dalla presunzione di legittimità, come afferma il precedente di questa Corte, che, in presenza di un marchio di forma nullo – nullità cd. assoluta – ha negato la rilevabilità d’ufficio (Cass. 7 maggio 1983, n. 3109), al pari di altra di poco precedente decisione, secondo cui chi impugna il segno distintivo ha l’onere non solo di allegare la nullità o la decadenza, ma di fornirne la prova (Cass. 20 novembre 1982, n. 6259).

L’integrazione della fattispecie della registrazione del marchio produce invero “un effetto sostanziale, corrispondente all’acquisto del diritto di esclusiva utilizzazione con una protezione ampia ed intensa del marchio brevettato, ed un effetto processuale commesso con la presunzione (semplice) di validità del brevetto e di esistenza dei presupposti e requisiti di valida brevettazione”: pertanto, “la presunzione sopra menzionata opera a favore del titolare della fattispecie brevettuale, mentre i terzi interessati a dedurre l’invalidità della fattispecie stessa sono tenuti alla prova contraria, contestando l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di una valida brevettazione” (Cass. 28 giugno 1980, n. 4090).

La medesima posizione si rinviene in una decisione più recente, la quale afferma come “è certamente possibile che nel giudizio volto all’accertamento del preuso di un marchio venga effettuato anche l’accertamento della sua liceità (v. Cass. 2024/82; Cass. 3371/80), purchè però venga dalla controparte sollevata l’eccezione di nullità” (Cass. 19 settembre 2013, n. 21472, sebbene in un obiter; v. pure Cass. 27 maggio 2013, n. 13090).

4.7. – La conclusione è coerente con la disciplina comunitaria, la quale è attenta ad escludere il potere di rilievo d’ufficio ed a limitare la stessa legittimazione a far valere la nullità di un marchio.

L’art. 95 del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario, ed, ora, gli artt. 52 ss. del Regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio 26 febbraio 2009 (versione codificata) escludono il rilievo di nullità del marchio in difetto di una specifica domanda od eccezione del convenuto (art. 95 cit.: “Presunzione di validità – Difesa nel merito. 1. I tribunali dei marchi comunitari considerano valido il marchio comunitario a meno che il convenuto ne contesti la validità mediante una domanda riconvenzionale di decadenza o di nullità”).

L’art. 76 Reg. n. 207/2009, come modificato dal Reg. (UE) 2015/2424 del 16 dicembre 2015, prevede che in procedure concernenti impedimenti relativi alla registrazione, l’esame si limiti agli argomenti addotti e alle richieste presentate dalle parti.

Del pari, l’art. 85 del Regolamento (CE) n. 6/2002 del Consiglio, del 12 dicembre 2001 su disegni e modelli comunitari, intitolato “Presunzione di validità – Difesa nel merito”, al paragrafo 1 dispone che “Nei procedimenti relativi alle azioni per contraffazione o relative alla minaccia di contraffazione di un disegno o modello comunitario registrato i tribunali dei disegni e modelli comunitari considerano valido il disegno o modello comunitario. La validità può essere contestata unicamente mediante domanda riconvenzionale di nullità. Tuttavia, l’eccezione di nullità del disegno o modello comunitario sollevata in forma diversa dalla domanda riconvenzionale è ammissibile solo se ed in quanto il convenuto chieda la dichiarazione di nullità del disegno o modello comunitario facendo valere l’esistenza di un proprio diritto nazionale anteriore a norma dell’articolo 25, paragrafo 1, lettera d)” (cfr., al riguardo, fra le altre, Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, sentenza 16 febbraio 2012, n. 488/10).

4.8. – Infine, il giudice del procedimento può, se del caso, sollecitare il P.M. all’esercizio dell’azione, in tal modo esercitando, il primo, la facoltà di segnalazione che gli compete nell’ambito delle sue funzioni a tutela degli interessi generali, ed, il secondo, il potere autonomo, attribuitogli dalla legge sulla base delle proprie valutazioni.

4.9. – Va, in conclusione, affermato il seguente principio di diritto: “In ragione della presunzione semplice di validità dell’avvenuta registrazione del marchio in presenza dei requisiti previsti dalla legge, il giudice non può rilevarne d’ufficio la nullità, conservando peraltro, nei casi previsti dall’art. 122, comma 1, cod. propr. ind., la facoltà di sollecitare il pubblico ministero per le sue autonome determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione”.

5. – Il terzo e quarto motivo sono inammissibili, perchè invocano il testo precedente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denunciando un vizio di motivazione, alla luce della disposizione anteriore alla riforma di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134: onde essi non rientrano nei canoni della norma novellata, secondo l’esegesi svolta dalla Sezioni Unite (v. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053); propongono, inoltre, una congerie di questioni dai profili oggettivamente diversi, che non giova alla comprensione delle ragioni delle doglianze e, in definitiva, alla specificità delle censure.

6. – Il quinto motivo è inammissibile, contenendo esso palesi apprezzamenti di merito, non riproponibili in sede di legittimità.

7. – La condanna alle spese di lite segue la soccombenza.

Deve provvedersi alla declaratoria D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio in favore della controricorrente, liquidate in Euro 13.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, agli accessori come per legge e al contributo spese generali nella misura del 15%; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento a carico della parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2018

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