Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4741 del 26/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 26/02/2010, (ud. 01/12/2009, dep. 26/02/2010), n.4741

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso (iscritto al n. 27644/05 di RG) proposto da:

s.a.s. Mobili Giannetti di Francesco e Giovanna Giannetti, con sede

in (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma alla Circonvallazione Clodia n. 19

presso l’avv. MINGHELLI GIAN ANTONIO che la rappresenta e difende in

forza della procura speciale rilasciata in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

(1) il MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del

Ministro pro tempore;

(2) l’Ufficio di Santa Maria Capua Vetere dell’AGENZIA delle ENTRATE,

in persona del Direttore pro tempore, e (3) la Direzione Regionale

della Campania dell’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore

pro tempore;

– intimati –

nonchè

sul ricorso (iscritto al n. 31102/05 di RG) proposto da:

medesima s.a.s. Mobili Giannetti di Francesco e Giovanna Giannetti,

come innanzi rappresentata e difesa;

– ricorrente –

contro

(1) l’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

(2) il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del

Ministro pro tempore;

– intimato –

Entrambi i ricorsi avverso la sentenza n. 46/39/05 depositata il 6

aprile 2005 dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 1 dicembre 2009

dal Cons. Dott. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. Gian Antonio

MINGHELLI, per la ricorrente, e dall’avv. Alessandro DE STEFANO

(dell’Avvocatura Generale dello Stato), per l’Agenzia;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

NUNZIO Wladimiro, il quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso notificato il 31 ottobre 2005 al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE e (con plichi postali spediti il 3 novembre 2005) all’Ufficio di Santa Maria Capua Vetere dell’AGENZIA delle ENTRATE ed alla Direzione Regionale della Campania della stessa AGENZIA (ricorso depositato il 18 novembre 2005), la s.a.s. Mobili Giannetti di Francesco e Giovanna Giannetti premesso che in base ai processi verbali del primo aprile 2000 e del 14 ottobre 2000 (l’uno, di “natura verificativa”; il secondo, “accertativi”) della Guardia di Finanza, nei quali “gli operanti… avrebbero contestato” l’uso, da parte sua, di “alcuni conti correnti” di pertinenza di un “socio non amministratore” ( G.F.) e di G.G. (“padre”), il competente Ufficio aveva rettificato ai fini dell’imposta sul valore aggiunto il “volume di affari relativo all’anno 1996” -, in forza di quattro motivi, chiedeva di cassare (“con condanna alle spese”) la sentenza n. 46/-39/05 della Commissione Tributaria Regionale della Campania (depositata il 6 aprile 2005) che aveva accolto l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (739/10/01) della Commissione Tributaria Provinciale di Caserta la quale aveva recepito il suo ricorso.

Nessuno degli enti pubblici intimati svolgeva attività difensiva.

Il 9 dicembre 2005 l’AGENZIA delle ENTRATE notificava controricorso (depositato il 23 dicembre 2005) nel quale instava per il “rigetto del ricorso”.

2. Il 30 novembre 2005 ed il giorno successivo la stessa società notificava il medesimo ricorso (depositato il 19 dicembre 2005), rispettivamente, (nuovamente) al Ministero dell’Economia e delle Finanze nonchè all’Agenzia delle Entrate che, nel controricorso notificato il 5 gennaio 2006, chiedeva il rigetto del ricorso.

Il Ministero intimato non svolgeva attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va disposta la riunione dei due ricorsi della società avverso la medesima decisione, la cui proposizione è stata dalla stessa giustificata con la “giurisprudenza oscillante” di questa Corte (da “ultimo”: “sentenza 3566/05”).

Entrambi i ricorsi sono ammissibili:

(a) il primo, perchè l’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate (cui lo stesso è stato notificato) è passivamente legittimato a contraddire anche al posto ed in vece dell’Agenzia centrale di cui esso costituisce diramazione periferica (cfr. Cass., trib.: 23 ottobre 2006 n. 22793 e 19 gennaio 2009, n. 1123 nonchè, indirettamente, 3 luglio 2009 n. 15718, tra le molte) essendo detta Agenzia comunque subentrata a titolo particolare, a partire dal primo gennaio 2001 (Decreto Ministro delle Finanze 28 dicembre 2000: “disposizioni recanti le modalità di avvio delle agenzie fiscali… a norma degli D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, artt. 73 e 74”), al Ministero dell’Economìa e delle Finanze in tutti i rapporti fiscali alla stessa trasferiti dal D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300, art. 57, comma 1, (“alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia”) e, quindi (ai sensi dell’art. 111 c.p.c. Cass., un.: 29 aprile 2003 n. 6633; 14 febbraio 2006 nn. 3116 e 3118), nei rapporti processuali in corso: “il successore a titolo particolare nel diritto controverso”, come noto, “non può essere considerato terzo, essendo l’effettivo titolare del diritto in contestazione, tanto da poter assumere la stessa posizione del suo dante causa, con la conseguenza che, come la sentenza spiega effetto nei suoi confronti, egli è anche legittimato ad impugnarla, secondo quanto espressamente previsto nell’art. 111 c.p.c., u.c., senza che questo diritto sia condizionato dal suo intervento in fasi pregresse di giudizio; trattasi di legittimazione attiva e passiva, sicchè il successore, può essere destinatario dell’impugnazione proposta dall’avversario del suo dante causa, e può resistere all’impugnazione medesima, fermo restando il litisconsorzio necessario tra dante causa (che non sia stato precedentemente estromesso) e successore a titolo particolare” (Cass. n. 2889/2002)”;

(b) il secondo, in quanto (ai sensi dell’art. 387 c.p.c.) il diritto all’impugnazione (esercitato con l’altro ricorso) non può ritenersi (Cass., 3^, 03 marzo 2009 n. 5053; 2^, 15 settembre 2008 n. 23591; lav., 14 agosto 2008 n. 21702, tra le recenti) nè consumato (non essendo intervenuta nessuna anteriore pronuncia giudiziale di inammissibilità o di improcedibilità del precedente ricorso) nè precluso (avendo la parte effettuato la notifica del secondo ricorso prima della scadenza del termine “breve” (giorni sessanta) fissato dall’art. 325 c.p.c., per l’impugnazione, decorrente dalla data della precedente notìfica siccome sostitutiva, a tutti gli effetti, della notifica della sentenza da impugnare: “la notifica di un ricorso per cassazione”, infatti, “integra conoscenza legale della sentenza agli effetti del decorso del termine breve per impugnare”).

2. Con la sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale ha accolto il gravame dell’Ufficio (con “conferma” della “pretesa fiscale”, disponendo, altresì, che “le sanzioni devono essere comminate ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, se più favorevole al contribuente”) osservando (in sintesi):

– “in via preliminare”, che “non si è in presenza di utilizzo di elementi acquisiti in sede penale e trasfusi nell’accertamento fiscale, ma di indagine svolta in sede amministrativa” per cui “non occorreva alcuna autorizzazione da parte dell’A.G.”;

– “in ogni caso”, che “nell’attuale sistema tributario manca una norma (analoga a quella contenuta nell’art. 191 c.p.p., per il processo penale) che sancisce espressamente il divieto di utilizzazione di prove acquisite in modo illecito o illegittimo quando queste risultano oggettivamente attendibili (Cass. … n. 4987 del 9 ottobre 2003”;

– “nell’atto di rettifica, si legge che vennero impartiti dalla Procura della Repubblica direttive nell’ambito del procedimento penale n. 4056/98 essendo emersi “plurimi” elementi gravi, univoci e concordanti in merito ad una intesa illecita attività sostanzialmente finalizzata alla commissione di reati aventi rilevanza ai fini del codice penale e della normativa penale tributaria per effetto di trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, all’evasione fiscale perpetrata su vasta scala in modo subdolo e scientifico e per il riscontro di fatti gestionali posti in essere dalla società dai quali sono emerse condotte omissive e simulatorie allo scopo di far risultare una situazione patrimoniale e reddituale di facciata sostanzialmente diversa da quella effettiva”;

– “l’operato dell’Ufficio, nell’avvalersi delle risultanze bancarie accertate presso terzi, nel rettificare i ricavi aziendali” è “pienamente legittimo”;

– la “contribuente, in allegato alle memorie ha depositato, nella prima fase del giudizio (atto già a disposizione dei primi giudici), i documenti relativi al PVC della G.d.F. di Caserta, allegando, in copia, il prospetto delle schede clienti dai quali sono stati desunti i ricavi occulti con una ricostruzione analitica di tutti i rapporti di dare e avere tra il cliente e la società contribuente ricavandone, quindi, le vendite non certificate”; “in calce ad ogni scheda contabile il contribuente ha opposto il proprio rilievo contestando l’addebito dei verbalizzanti, ma senza fornire documentali riferimenti”; “tale circostanza dimostra che la società ricorrente è stata messa in grado di difendersi su quanto accertato dall’Ufficio sulle vendite a nero”;

– “sempre riguardo la legittimità della motivazione ad relationem… che, in conformità all’orientamento tendente a sostenere la validità dell’atto impositivo nell’ipotesi di messa a disposizione della controparte o quanto meno del giudice dell’atto cui si fa riferimento (Cass. 2 agosto 2000 n. 10148), una più recente giurisprudenza ha confermato la nullità di un accertamento motivato solo con il rinvio ad un atto dell’Amministrazione non allegato all’avviso e non noto al contribuente (cfr. Cass. 3 dicembre 2001 n. 15234)”;

– “riguardo la validità della prova testimoniale”, che “il motivo sollevato da parte appellante” non è “fondato” perchè “la G.d.F., dopo aver raccolto le testimonianze, ha successivamente effettuato verifiche contabili e documentali presso terzi acquisendo, quindi, convincenti elementi di riscontro”: “l’ispezione della G.d.F. eseguita sulla contabilità della ricorrente”, perciò, “cancella l’eventuale vizio di legittimità dell’utilizzazione, ai fini fiscali, delle dichiarazioni rese da terzi”;

– l’”eccezione” di “utilizzo illegittimo ai fini fiscali della documentazione bancaria acquisita nel corso di attività di P. G. svolta d’iniziativa o su delega dell’A. G. per la mancata preventiva autorizzazione della medesima A. G. al rilascio delle copie per effetto del segreto istruttorie” e quella di “illegittimo utilizzo della conoscenza della prova testimoniale” (“che ha comportato la violazione del diritto di difesa del contribuente”) non sono condivisibili in quanto “le risultanze delle indagini bancarie ed i verbali di sommarie informazioni ex art. 351 c.p.p., sono state successivamente trasmessi alla Procura della Repubblica di S. Maria Capua Vetere unitamente alla comunicazione dei reati finanziari”: “dagli atti trasmessi alla Procura vi sono precisi riferimenti per cui la medesima ebbe a disporre l’utilizzo dei dati acquisiti per accertamenti di natura fiscale”; “l’utilizzo dei dati bancari nei confronti di una persona diversa dal formale titolare del conto, secondo quanto stabilito dalla Cass. con sent. 2980/2002, è possibile allorchè risulti provata dall’A.F., anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità alla società dei conti medesimi o di singoli dati o elementi di essi” “si condivide, quindi, il prevalente orientamento giurisprudenziale che la eventuale mancanza di apposita autorizzazione non preclude l’utilizzabilità dei dati bancari comunque acquisiti tanto perchè il provvedimento autorizzativo attiene a rapporti interni e perchè, in materia tributaria, non vale il principio presente, invece, nel c.p.p. secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente”);

– “l’attività di controllo attraverso le indagini bancarie non impone alla P.A. l’obbligo di agire in contraddittorio con la società contribuente (Cass. … n. 6232/03)”;

– “le suesposte argomentazioni assorbono ogni altra questione pur sollevata dalle parti nei contrapposti scritti difensivi”.

3. La società chiede di cassare tale decisione in forza di quattro motivi.

A. Con il primo la ricorrente denunzia “violazione per falsa applicazione” del “D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, punto 2” e “D.P.R. 26 ottobre 1912, n. 633, art. 51, comma 2, punto 2”, (“norme che riguardano specificatamente lo sviluppo in campo fiscale degli accertamenti bancari esperiti con i poteri di PG”) testualmente esponendo:

– “sul punto la Commissione Tributaria di Lecco” (“sez. 4^, con sentenza 21 novembre 2002 n. 110”) “nel confermare la insufficienza della conoscibilità del documento e nel richiamare la sent. 7149 del 20 maggio 2001, ha evidenziato che il concetto di conoscibilità… costituisce una aperta violazione dell’art. 24 Cost., in quanto riduce il lasso di tempo concesso al contribuente per valutare la fondatezza della pretesa tributaria, come altresì confermato dalla sentenza relativa proprio ai documenti non portati a conoscenza del contribuente (n. 3861 del 15 maggio 2002)”;

– “la Commissione… non ha ritenuto minimamente nè di affrontare il problema della dedotta trasparenza degli atti della PA, ma quel che è più grave di dare atto, in aderenza alla normativa sopra richiamata, che nessuna autorizzazione all’utilizzo era mai stata depositata in atti il che, correlativamente, dimostrava come il comportamento dell’Ufficio delle Entrate non fosse corrispondente a quanto statuito dalla normativa vigente, il che non ha rilevanza solo sull’iter formativo del provvedimento tributario prima e giurisdizionale poi, ma conferma che la decisione è stata presa sulla inesistenza di una prova”.

B. Con il secondo motivo la contribuente – premesso che “a tutto il giugno 2004 gli atti di indagine” (“per di più di soggetto estraneo”) “erano coperti da segreto istruttorio” – denunzia “violazione” di “quanto statuito dall’art. 329 c.p.p.” (“norma avente carattere generale e, pertanto, valida per tutte le parti del procedimento da porre in diretta correlazione alla documentazione non consegnata, non fatta visionare ma valutata senza che l’organo giurisdizionale ne fosse a conoscenza”) adducendo detti “atti di indagine”, “il contenuto degli stessi, o una sintesi degli stessi, non potevano trovare ingresso, salvo autorizzazione da parte del PM, come dedotto dal motivo che precede, da nessuna delle parti del giudizio, tra cui anche l’Ufficio delle Entrate che non ne doveva avere accesso, altrimenti si arriverebbe all’assurdo tecnico-giuridico che una violazione, sanzionata penalmente, non avrebbe conseguenze di alcun tipo nell’ambito di un procedimento tributario”;

– “la situazione” (“a parte il problema temporale”) non è stata modificata dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, “in quanto la parte modificata di cui all’art. 42, contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. c), riafferma: se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo, che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”: “è chiaro si parla di riproduzione non sintesi operata dagli organi di PG in un campo, quello di PG, totalmente estraneo al procedimento tributario” (“quanto precede è confermato dalle decisioni” di questa Corte “1034 del 28 gennaio 2002”, “8690 del 2 7 giugno 2002” e “12394 del 22 agosto 2002”), C. Con il terzo motivo la società – assunto leggersi “nell’ultima facciata” (“pag. 6”) del “provvedimento impugnato” che “la ultima determinazione del reddito deriverebbe da una formula matematica” – denunzia “sostanziale omessa o comunque insufficiente motivazione sull’iter logico-ricostruttivo che ha portato al ridimensionamento della richiesta tributaria dell’ufficio per la quale non vi è nè spiegazione nè motivazione e si è operato in materia assolutamente presuntiva e praticamente equitative nell’ambito di un procedimento a contenuto probatorio” assumendo che “si tratta sostanzialmente di un non affrontare il problema dedotto tra le parti giacchè se si contestano come rapporti estranei alla società i rapporti intrattenuti con i due G., avrebbe dovuto l’organo giurisdizionale sulla base dello stesso appello proposto dall’Ufficio, verificare non con dati aritmetici ma essendo giudice di merito con la disamina diretta, quanto risultante in atti, il che non è avvenuto nè è specificato”.

D. Con il quarto (ultimo) motivo la ricorrente denunzia “violazione” di “quanto statuito dall’art. 111 della Carta Costituzionale da porre in diretta correlazione con l’art. 24 della stessa carta e con i principi regolanti lo statuto del contribuente” adducendo:

– “se il ns ordinamento… stabilisce il principio del diritto alla difesa, se correlativamente il sistema processuale penale sancisce il principio del contraddittorio pieno, se nella fattispecie la situazione tributaria è connessa ad un procedimento penale riguardante soggetti estranei al rapporto fisco-contribuente, è di tutta evidenza che il sistema stabilisce il principio della parità della parti nell’ambito del procedimento”;

– “parità significa cognizione degli stessi atti e simile se non identica facoltà di intervento che sostanzialmente nella motivazione della decisione impugnata, è totalmente esclusa come risulta chiaramente dalle deduzioni di fatto e di diritto che precedono”;

– “se così non fosse è di tutta evidenza che una interpretazione diversa da quella dedotta in questa sede, comporterebbe una evidente incostituzionalità della normativa in materia sopra evidenziata per palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 della Carta Costituzionale non riconoscendosi di fatto e di diritto nella citata interpretazione l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti”.

4. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

A. Prima del suo esame si deve ricordare che: (a) il ricorso per cassazione – in ragione del principio, desumibile dall’art. 366 c.p.c., detto di autosufficienza – deve contenere in sè (Cass. 3^, 24 maggio 2006 n. 12362; id., 2^, 4 aprile 2006 n. 7825; id., 3^, 20 gennaio 2006 n. 1113, tra le recenti), a espressa “pena di inammissibilità”, tutti gli elementi necessari a rappresentare le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere a questa Corte la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio o di accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o ad atti attinenti al pregresso giudizio di merito: tale onere, perciò (Cass., 1^, 21 ottobre 2005 n. 20454), non può essere assolto per relationem, con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto;

(b) il vizio di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) consiste (Cass., trib., 10 febbraio 2006 n. 2935; id., trib., 20 gennaio 2006 n. 1127; id., 9 novembre 2005 n. 21767; id., 1^, 11 agosto 2004 n. 15499) nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione c.d. nomifilachia di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata a questa Corte dal R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 65) mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa;

(c) detto vizio, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità (Cass., 2^, 12 febbraio 2004 n. 2707; id., 2^, 26 gennaio 2004 n. 1317), dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.

B. L’infondatezza dei primi due motivi di ricorso – da trattare congiuntamente – discende, in primo luogo, dal rilievo che le contestazioni in esse formulate si fondano sull’assunto (eminentemente fattuale) che nella specie si verta in ipotesi di “sviluppo in campo fiscale degli accertamenti bancari esperiti con i poteri di PG”: tanto, però, contrasta con l’affermazione del giudice del merito secondo cui “non occorreva alcuna autorizzazione da parte dell’A.G.” perchè, nel caso, “non si è in presenza di utilizzo di elementi acquisiti in sede penale e trasfusi nell’accertamento fiscale, ma di indagine svolta in sede amministrativa”.

Tale affermazione rimane del tutto valida perchè la contraria tesi della parte privata non è suffragata da nessun concreto elemento fattuale: la ricorrente, infatti, si è limitata all’affermazione riprodotta ma non ha impugnato in alcun modo (riportando, giusta l’art. 366 c.p.c., i conferenti punti dell’avviso di accertamento impugnato), come necessario, il rilevato punto contrario.

La complessiva doglianza della società ricorrente, quindi, pur nominalmente fondata su presunta “violazione per falsa applicazione” del “D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, punto 2”, e “D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, punto 2”, (“norme che riguardano specificatamente lo sviluppo in campo fiscale degli accertamenti bancari esperiti con i poteri di PG”), in realtà non denunzia un vero e proprio vìzio ermeneutico del giudice di appello perchè la sua censura, nella sostanza, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa quanto alla natura dei “poteri” (di sola indagine fiscale od anche di polizia giudiziaria) concretamente esercitati, nel caso specifico, dagli accertatori.

La stessa ricorrente, inoltre, si limita a richiami di giurisprudenza – tra i quali quello, del tutto incongruo, ad una “sentenza 21 novembre 2002 n. 110” che sarebbe stata resa dalla “sez. 4^” della “Commissione Tributaria di Lecco”, cioè da un giudice privo del potere di nomofilachia, proprio solo di questa Corte di legittimità – ma non chiarisce il senso del suo richiamo al “concetto di conoscibilità” e l’oggetto di questo nè espone in quale punto la sentenza impugnata abbia disconosciuto quel concetto nè, ancora, quali siano i “documenti non portati a conoscenza del contribuente” che lo stesso giudice avrebbe posto a fondamento della sua decisione.

in proposito va evidenziato che, come riportato, il giudice di appello, “riguardo la validità della prova testimoniale”, ha (1) specificato che “il motivo sollevato da parte appellante” non è “fondato” perchè “la G.d.F., dopo aver raccolto le testimonianze, ha successivamente effettuato verifiche contabili e documentali presso terzi acquisendo, quindi, convincenti elementi di riscontro” e (2) affermato che “l’ispezione della G.d.F. eseguita sulla contabilità della ricorrente cancella l’eventuale vizio di legittimità dell’utilizzazione, ai fini fiscali, delle dichiarazioni rese da terzi”: per effetto della specifica ratio decidendi data dalla affermata sussistenza di “convincenti elementi di riscontro” diversi dalle “testimonianze” – ratio, peraltro, non impugnata dalla ricorrente – la questione della (eventuale) mancata riproduzione, nell’atto impositivo, del “contenuto essenziale” dell'(ignoto) “altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente” si palesa del tutto ultronea, per inidoneità a infirmare detta ratio, ove riferita alle “testimonianze”: anche per queste (come per la complessiva doglianza), peraltro, va evidenziata l’assoluta carenza espositiva (in violazione dell’art. 366 c.p.c.) dei conferenti elementi fattuali (id est: integrale riproduzione testuale, nel ricorso per cassazione, degli opportuni passi degli afferenti atti) ostativa di qualsiasi, benchè doverosa, verifica di rilevanza della questione se nel caso l’atto impositivo contenga la “riproduzione” ovvero la mera “sintesi” dell'”atto non conosciuto nè ricevuto” e, soprattutto, se la eventuale “sintesi” sia lesiva del(l’inviolabile) diritto di difesa del contribuente.

La questione della natura (solo fiscale od anche penale) delle indagini esperite dalla Guardia di Finanza – nel corso della quale sono stati compiuti gli “accertamenti bancari” i cui risultati sono stati poi trasfusi nell’atto impositivo -, peraltro ed infine, è del tutto priva di rilievo pratico valendo comunque il principio (da ribadire per carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria) secondo il quale (Cass., trib., 16 marzo 2001 n. 3852, da cui gli excerpta, nonchè 22 ottobre 2007 n. 22119 (che ricorda: “Cass. nn. 2450/2007, 2203 5/2006, 14058/2006”) “la necessità dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per la trasmissione di atti, documenti e notizie acquisite nell’ambito di un’indagine o un processo penali, disposta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, il cui contenuto è stato riprodotto ad litteram nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3, è prevista a salvaguardia del segreto delle indagini penali (art. 329 c.p.p., e non ha – diversamente da quella del Procuratore della Repubblica, prevista per l’accesso ai fini fiscali dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 2 e 3, – alcuna finalità di tutela nei confronti del contribuente”: conseguentemente (Cass., trib., 26 ottobre 2007 n. 22555 che richiama anche “Cass. 28695/2005”) l’eventuale “mancanza dell’autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, nè implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi”.

C. La censura svolta nel terzo motivo (“sostanziale omessa o comunque insufficiente motivazione sull’iter logico-ricostruttivo che ha portato al ridimensionamento della richiesta tributaria dell’ufficio per la quale non vi è nè spiegazione nè motivazione e si è operato in materia assolutamente presuntiva e praticamente equitative nell’ambito di un procedimento a contenuto probatorio”) si rivela inammissibile atteso che la sua prospettazione:

(1) non consente in alcun modo di individuare il punto in cui “l’organo giurisdizionale” avrebbe proceduto ad una verifica “con dati aritmetici” e (2) non espone (come impone l’art. 366 c.p.c.) cosa sia il “quanto risultante in atti” che il “giudice di merito” avrebbe dovuto “vetrificare con la disamina diretta”.

In proposito, peraltro, va evidenziato che la sentenza gravata ha espressamente “conferma (to) la pretesa fiscale” contenuta nell’atto impositivo impugnato (afferente a “rettifica” del volume di affari ai fini dell’imposta sul valore aggiunto) e, quindi, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non ha proceduto a nessuna “determinazione del reddito”, tanto meno “con dati aritmetici”.

D. Anche l’ultima doglianza (“violazione” di “quanto statuito dall’art. 111 della Carta Costituzionale da porre in diretta correlazione con l’art. 24 della stessa carta e con i principi regolanti lo statuto del contribuente”) è palesemente inammissibile – e tanto impedisce il sorgere stesso di una qualsiasi questione di “costituzionalità” – atteso che la sua formulazione (limitata alla frase “come risulta chiaramente dalle deduzioni di fatto e di diritto che precedono”) non consente in alcun modo di identificare il punto della sentenza impugnata in cui si sarebbe “totalmente esclusa”, in danno della contribuente, la possibilità di “cognizione degli stessi atti” (mai indicati, ancora in espressa violazione dell’art. 366 c.p.c.) ovvero negata ad essa società una “simile se non identica facoltà di intervento” (senza spiegare quale sia l'”intervento” negato nè dove e come lo stesso si sarebbe dovuto attuare); peraltro e comunque:

– dal ricorso per cassazione e dalla sentenza impugnata non risulta che l’Ufficio e/o il giudice abbiano avuto “cognizione” e, soprattutto, si siano avvalsi di specifici (indeterminati) atti diversi da quelli (PVC) conosciuti dalla contribuente;

– in nessun punto della decisione gravata si rinviene la negazione alla contribuente della (peraltro imprecisata ed indeterminabile) “facoltà di intervento”, riconosciuta (non si dice da chi, dove e per qual fine) all’Ufficio.

4. Per la sua totale soccombenza la società, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere all’Agenzia le spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate (nella misura indicata in dispositivo) in base alle vigenti tariffe forensi, tenuto conto del valore della causa e dell’attività difensiva spiegata dalla parte vittoriosa.

Nessun provvedimento deve essere, invece, adottato in ordine alle spese processuali per quanto riguardo gli uffici locali dell’Agenzia ed il Ministero, nonostante l’integrale reiezione del ricorso per cassazione, non avendo detti enti svolto nessuna attività difensiva.

PQM

La Corte riunisce il ricorso iscritto al n. 31102/-05 di RG all’altro iscritto al n. 27644/05 di RG e li rigetta; condanna la società a rifondere all’Agenzia le spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 6.200,00 (seimila duecento/00), di cui Euro 6.000,00 (seimila/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2010

 

 

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