Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4738 del 26/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 26/02/2010, (ud. 11/11/2009, dep. 26/02/2010), n.4738

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, nei cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12,

è domiciliata;

– ricorrente –

contro

MARTINELLI ROTTAMI S.r.l. in persona dell’amministratore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 53/29/06, depositata in data 4 aprile 2006;

sentita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del 11

novembre 2009 dal consigliere Dott. Pietro Campanile;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott. Pietro Abbritti, il quale ha concluso per il rigetto del

ricorso.

 

Fatto

1.1 La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la decisione indicata in epigrafe, rigettava l’appello proposto dall’Ufficio Roma (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate, nei confronti della sentenza di primo grado di parziale accoglimento del ricorso proposto dal legale rappresentante della s.r.l. Martinelli Rottami avverso l’avviso di accertamento con il quale il reddito ai fini IRPEG ed ILOR relativo all’anno 1990 era stato elevato a L. 105.898.000, con maggiori imposte e relative sanzioni.

1.2. Per quanto qui maggiormente interessa, erano stati confermati i capi della decisione di primo grado relativi, per il periodo considerato, alla valutazione delle giacenze di magazzino, alla detrazione di costi per spese bancarie e commissioni, nonchè, quanto a L. 27.900.000, per operazioni ritenute, contrariamente a quanto contestato dall’Ufficio, realmente sussistenti.

1.3 Con ricorso tempestivamente notificato l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza, affidato a tre motivi, nei confronti della società Martinelli Rottami, chiedendo, quindi, la cassazione – relativamente ai punti oggetto del ricorso – del provvedimento impugnato.

1.4. Non si costituiva la parte intimata.

Diritto

2.1 Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce violazione a falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 59 (T.U.I.R.), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la Commissione tributaria regionale confermato una valutazione delle giacenze finali di magazzino che si sarebbe basata, come unico dato di riferimento, sul minor costo unitario medio relativo all’anno 1990, applicato anche a quelle esistenti al 31 dicembre 1989, senza per altro tener conto del valore delle rimanenze dell’acciaio.

Conseguentemente, è stato formulato il seguente quesito di diritto:

“Nella determinazione delle giacenze finali di magazzino, ai sensi dell’art. 59, cit. TUIR, è legittimo il recupero dell’ufficio qualora la valorizzazione delle giacenze operata dal contribuente, per categorie omogenee, non tenga conto altresì delle voci distinte di giacenza in relazione alla variabilità dell’andamento di mercato dei singoli beni merce e del prezzo unitario medio relativo ad ogni annualità?”.

La censura è infondata, nella misura in cui non tiene conto delle ragioni esposte nella decisione impugnata in relazione all’illegittimità del recupero a tassazione. E’ stato, invero, rilevato che lo stesso Ufficio, “dopo aver enucleato (per differenza aritmetica) l’incremento dell’anno 1990 rispetto alle giacenze al 31 dicembre 1989 (q.li 114,493,60 di rimanenze al 31.12.90 – q.li 46.859,95 di rimanenze al 31.12.89 = incremento di q.li 67.903,65), ne ha confermato il valore unitario di L. 10.473; per contro, e per ragioni rimaste inespresse, ha deciso che i residuali q.li 46.589,95 dovessero essere rivalutati con (l’identico e maggiore) valore unitario di L. 13.860,40” … “La descritta formula, adottata anche per l’acciaio, consiste, quindi, in una mera ed immotivata attribuzione a parte delle giacenze finali al 31.12.90 di un unico, indifferenziato (maggior) valore unitario”. In tal modo, essendo a tale formula rimasta estranea la considerazione di dati oggettivi e certi, quali i prezzi di acquisto e di vendita, desumibili dalle fatture ricevute ed emesse, o da altre fonti ritenute attendibili, l’accertamento si sarebbe discostato dai “metodi valutativi conosciuti e normalmente adottati (LI.FO, FI.FO), metodo del costo medio continuo, seguito dalla contribuente anche negli esercizi pregressi”.

A fronte di tali considerazioni, fondate anche sul criterio da adottare ai fini della valutazione delle rimanenze, senza per altro che risultino disattese le prescrizioni contenute nell’art. 59, cit.

T.U.I.R., le censure dell’Agenzia, e la relativa formulazione del quesito, appaiono prive di pertinenza. Invero, premesso che nella decisione impugnata non risulta violato il precetto contenuto nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59, comma 3, secondo cui, “se la quantità delle rimanenze è aumentata rispetto all’esercizio precedente, le maggiori quantità, valutate a norma del comma 2, costituiscono voci distinte per esercizi di formazione”, va constatato che le censure della ricorrente non attingono la fondamentale ratio decidendi della sentenza scrutinata, fondata, per l’appunto, sull’esigenza di tener distinte – considerando anche separatamente l’acciaio e il ferro – dalle rimanenze dell’esercizio precedente le “maggiori quantità”, da valutarsi in base ai criteri di cui al citato art. 59, comma 2.

2.2 – A non diversa conclusione deve pervenirsi in relazione alla seconda censura (con la quale si denuncia insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), avendo la Commissione tributaria regionale congruamente affermato – quanto al recupero delle spese bancarie – che la società ha documentato “con gli estratti dei conti intrattenuti con gli istituti di credito, accompagnati da prospetti riepilogativi e di riconciliazione dei relativi dati con quelli della contabilità sociale”, di aver sostenuto costi, per competenze bancarie, pari a L. 180.150.099, ovvero per un ammontare superiore alla somma di quanto separatamente contabilizzato per interessi passivi (L. 164.000.000) e per spese bancarie (L. 14.405.000). Appare evidente come la decisione impugnata abbia correttamente evidenziato, quanto a queste ultime, l’erroneità di quanto dedotto, con apposito motivo di appello, dall’Ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate, secondo il quale esse sarebbero già state conglobate nel conteggio delle spese sostenute per interessi passivi.

2.3 – Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. Si è dedotta omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la Commissione tributaria regionale non avrebbe considerato, in merito alla fatturazione di costi risultanti da fatture contestate come inerenti a operazioni inesistenti, “che nessuna prova era stata fornita dalla società in ordine al seguito in sede penale in quanto non è mai stato depositato alcun decreto di archiviazione emesso dal giudice penale”.

Al riguardo nella decisione impugnata si afferma, da un lato, che la società aveva fornito “la prova documentale del pagamento, a mezzo di assegni bancari, della fattura già sospettata di essere relativa ad operazione inesistente”, mentre “l’ufficio non ha contraddetto l’assunto della stessa appellata secondo cui il pvc del 12.3.96 sarebbe stato caducato dal successivo verbale di acquisizione documentale (18.6.96), si da non aver avuto alcun seguito sanzionatorio, nè in sede penale, nè in sede amministrativa, nè ai fini IVA, nè ai fini IRPEG”.

La questione, così come proposta, appare contraddittoria, giacchè la stessa Agenzia, la quale si lamenta che la società non avrebbe “depositato alcun decreto di archiviazione in sede penale”, nei motivi di appello, che – secondo la censura prospettata – non sarebbero stati adeguatamente esaminati, aveva sostenuto l’irrilevanza, ai sensi dell’art. 654 c.p.c., “della supposta archiviazione”. In ogni caso non viene censurata la principale ragione indicata nella sentenza scrutinata, secondo cui il rilievo fondato sulla inesistenza delle operazioni posta alla base delle fatture sarebbe stato privo di qualsiasi supporto, trattandosi di mera ipotesi formulata dalla Guardia di Finanza e dalla stessa esclusa in un successivo verbale. In proposito – ed in ciò va individuata la carenza di decisività della censurata omissione – va richiamato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente mediante l’esibizione dei documenti contabili legittimanti (Cass. n. 1727/07). E’ stato tuttavia precisato che l’Amministrazione non può limitarsi ad una generale ed apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione, di talchè solo all’esito di tale attività, nella specie assolutamente carente, resta onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni (arg. da Cass. n. 21953/07).

Al rigetto del ricorso non consegue alcun provvedimento in relazione alle spese processuali, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5^ sezione civile – tributaria, il 11 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2010

 

 

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