Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4712 del 14/02/2022

Cassazione civile sez. II, 14/02/2022, (ud. 26/10/2021, dep. 14/02/2022), n.4712

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11757-2016 proposto da:

D.G., D.S., e DO.ST., rappresentati e

difesi dall’Avvocato MICHELE SESTA, dall’Avvocato LUIGI ALBISINNI,

per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

DO.GI.PI., in proprio e rappresentato e difeso dall’Avvocato

GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, per procura in calce al controricorso;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 824/2013 e la sentenza n. 819/2015 della CORTE

D’APPELLO DI BOLOGNA, depositate, rispettivamente, il 6/6/2013 ed il

28/4/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/10/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica Dott. DE RENZIS LUISA, la

quale ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per

l’inammissibilità del ricorso incidentale.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Il collegio arbitrale, con lodo sottoscritto in data 24/5/2007, dopo aver riferito che: – in data 27/9/1993, i fratelli Gi.Pi., G., S. e Do.St., quali coeredi di E.E., deceduta il (OMISSIS), e di Do.Gu., deceduto il (OMISSIS), onde porre termine a diverse controversie, giudiziali e non, insorte tra loro, avevano raggiunto un accordo transattivo, al quale, peraltro, Do.Gi.Pi. aveva partecipato tramite un rappresentante e persona di sua fiducia, tale V.F., tanto che la transazione stessa era stata sinteticamente definita come “transazione V.”; l’accordo prevedeva, tra l’altro, che si dovesse valutare l’intero asse ereditario secondo i criteri indicati dalle parti e che, detratti legati ed oneri testamentari, dovesse essere calcolata, sul residuo, la quota di legittima spettante a Do.Gi.Pi.; quest’ultimo, tuttavia, aveva contestato la transazione sul rilievo che il suo rappresentante aveva debordato dai poteri che gli erano stati conferiti ed aveva sottoscritto un accordo che non riconosceva al rappresentato quanto dovuto; – gli altri coeredi, invece, avevano eseguito offerta reale al fratello della somma di Lire 275.258.994 che, secondo il loro calcolo, integrava l’ammontare della quota a lui spettante in forza della predetta transazione ed, a fronte del rifiuto del destinatario di accettare l’offerta a titolo di saldo, avevano provveduto a depositare la somma stessa presso un istituto di credito; – i fratelli G., S. e Do.St. (definiti, in seguito, solo “fratelli D.”) avevano, quindi, promosso, in forza della clausola arbitrale contenuta nella transazione, giudizio arbitrale per far dichiarare la validità, l’efficacia e la congruità dell’offerta reale e sentirla “convalidare”, con la conseguente liberazione degli stessi dall’intera obbligazione nei confronti del fratello; – Do.Gi.Pi., dal suo canto, aveva chiesto di dichiarare la nullità o l’invalidità o l’inefficacia della transazione o di annullarla, di dichiarare, in ogni caso, nulle alcune clausole della stessa e di dichiarare nulle le attività compiute in esecuzione dell’accordo transattivo, ed, in via subordinata, di dichiarare la risoluzione, per inadempimento delle controparti, ai sensi degli artt. 1454 e 1453 c.c., della “transazione V.” ed, in ulteriore subordine, che venisse rigettata la domanda di convalida dell’offerta reale e del deposito; ha ritenuto che: – la transazione non fosse inefficace per eccesso di mandato da parte del mandatario V.; – la transazione non aveva natura novativa e poteva essere, pertanto, risolta per inadempimento; – la transazione era annullabile in quanto inficiata da errore di fatto consistito sia nella mancata separazione dei patrimoni dei due de cuius, con la conseguente quantificazione della quota di Do.Gi.Pi. in un sesto dell’intera massa anziché in un quarto, sia nell’erronea individuazione di elementi patrimoniali, compresi nell’asse ereditario, che pure emergevano dalla lettura degli atti; – tale errore, oltre che essenziale, era riconoscibile, e costituiva, quindi, motivo di annullamento della transazione, sia pur parziale, in applicazione analogica dell’art. 1419 c.c., comma 2, nella parte in cui non erano stati individuati separatamente gli elementi dell’asse ereditario facente capo ai due de cuius e non erano state esattamente calcolate le quote di Do.Gi.Pi..

1.2. Gli arbitri, quindi, disattesa la richiesta di nomina di un curatore di eredità giacente avanzata da quest’ultimo e la necessità di un nuovo inventario sul rilievo che l’asse ereditario era adeguatamente evidenziato sia per la successione di Do.Gu. che per quella di E.E., provvedevano di loro iniziativa, traendone motivo dalle censure Ric. 2016 n. 11757, Sez. 2, PU del 26 ottobre 2021 sollevate dal convenuto, alla valutazione dei singoli cespiti per giungere ad una nuova e diversa quantificazione delle quota di legittima spettante a Do.Gi.Pi., determinabile, a loro giudizio, nella somma complessiva di Lire 406.218.705, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

1.3. Gi.Pi. D., con atto di citazione notificato in data 9/10/2007, ha proposto impugnazione avverso il lodo chiedendo, previa nomina di un curatore dell’eredità giacente, che fosse dichiarata la nullità del lodo arbitrale ed, in sede rescissoria, la risoluzione della transazione V. per inadempimento delle controparti a seguito di intimazione ad adempiere ex art. 1454 c.c. ovvero la nullità, l’invalidità e l’inefficacia della transazione o, comunque, che fosse annullata, ed, in ogni caso, che fosse dichiarata la nullità delle clausole di cui ai paragrafi 4, 5, 6, 7, 11 e 14 dell’accordo transattivo, con la conseguente declaratoria di nullità e/o d’inefficacia degli atti esecutivi posti in essere tra le parti. L’attore, infine, ha chiesto il rigetto della domanda dei fratelli D. di convalida dell’offerta reale e del relativo deposito sul rilievo che l’offerta era stata sottoposta a condizione illegittima ai sensi dell’art. 1208 c.c., comma 2, che l’importo da lui accettato in acconto non gli era stato versato ed, infine, che l’offerta era comunque incompleta e quantitativamente e qualitativamente incongrua.

1.4. I convenuti, costituitisi in giudizio, hanno, a loro volta, proposto impugnazione incidentale del lodo e, quindi, ottenere la declaratoria della validità della transazione V. nonché della validità, efficacia e congruità dell’offerta reale del 20/10/1994, con la conseguente convalida e liberazione dei tre offerenti da ogni obbligazione nei confronti dell’attore.

2.1. La corte d’appello di Bologna, con sentenza non definitiva del 6/6/2013, dopo aver dichiarato la nullità del lodo arbitrale impugnato, ha rigettato le domande dell’attore volte ad ottenere la risoluzione della transazione del 27/9/1993 e/o la declaratoria di nullità, invalidità o inefficacia o l’annullamento della stessa transazione o di sue singole clausole, rimettendo la causa in istruttoria al fine di accertare, a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, la congruità dell’offerta reale.

2.2. La corte, in particolare, per quanto ancora rileva,

dopo aver ritenuto la nullità del lodo arbitrale per vizio di ultra petizione sul rilievo che nessuno dei quesiti proposti al collegio contemplava il compito di determinare analiticamente e di quantificare l’esatto valore e il conseguente ammontare della quota di spettanza di Do.Gi.Pi., ha esaminato, in sede rescissoria, le censure sollevate dalle parti in ordine alla validità e all’efficacia della transazione del 27/9/1993.

2.3. La corte, sul punto, dopo aver evidenziato che

l’attore si era limitato a censurare il lodo arbitrale, esponendo i motivi di nullità dello stesso, ed aveva proposto le domande di cui alle conclusioni in atti “senza esporre specificamente i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni delle domande stesse”, ha ritenuto che tali ragioni dovessero essere enucleate “dai motivi di impugnazione rivolti alla decisione arbitrale, a partire dall’errore di fatto”, e che, in definitiva, il tema del decidere investiva, innanzitutto, la validità della transazione V. per errore di fatto. Do.Gi.Pi., infatti, aveva lamentato che gli arbitri, pur avendo ravvisato tale errore in capo al mandatario, non avevano, poi, pronunciato l’annullamento dell’intero accordo transattivo, con ciò manifestando, sia pur implicitamente, di voler ricondurre a tale motivo, e cioè all’errore essenziale di fatto previsto dall’art. 1429 c.c., n. 2, la domanda di annullamento della transazione in questione.

2.4. La corte, invece, ha escluso che l’attore avesse riproposto, nell’atto di citazione, la questione relativa all’inefficacia, nei propri confronti, dell’accordo concluso dal mandatario V. per aver ecceduto dai limiti del mandato conferitogli, evidenziando, peraltro, che tale scelta processuale da parte dell’attore poteva trovare giustificazione nel fatto che, alla luce del relativo testo, il mandato conferito dal D. al V. era, in effetti, un mandato a transigere con l’attribuzione di “ogni più ampio potere”, compresa la sottoscrizione dei relativi atti esecutivi, “senza la specificazione di limiti di sorta”, per cui non era dato comprendere da quali poteri il rappresentante avesse potuto “debordare”, anche con riguardo alle specifiche clausole contrattuali di cui capi 4), 5), 7) e 14) della transazione.

2.5. Quanto al vizio del consenso prestato dal V. per errore, rilevante ai fini di dichiarare l’annullabilità dell’accordo transattivo, la corte d’appello, “anche a voler ammettere che la relativa questione fosse stata sollevata dal Do.Gi.Pi. davanti agli arbitri (dal momento che egli aveva prospettato, pur senza approfondite argomentazioni, la sussistenza dell’errore del proprio rappresentante in ordine alla mancata separazione dei due patrimoni dei genitori, caduti in successione)”, ha escluso che la transazione fosse annullabile per effetto di tale vizio del consenso, esponendo due argomentazioni ritenute “assorbenti”: – innanzitutto, che la transazione non può essere annullata, a norma dell’art. 1969 c.c., tutte le volte in cui l’errore, sia esso di diritto o di fatto, ricada sul cd. caput controversum, ossia sulle questioni che hanno formato oggetto della lite insorta tra le parti, che la transazione mira a definire, evidenziando come, nel caso in esame, l’errore consistito nella mancata separazione in sede transattiva degli assi ereditari e nell’inesatta quantificazione di componenti patrimoniali pur evidenziate dalla lettura degli atti, anche a volerlo ricondurre proprio ad un errore sull’identità dell’oggetto, ha finito per riguardare proprio la situazione di fatto che aveva dato origine alla diverse liti dalle quali era scaturita la volontà transattiva delle parti, per cui, ha concluso la corte, “quale errore che investiva la stessa situazione di fatto che le parti intendevano transigere, esso non poteva costituire motivo di annullamento dell’accordo transattivo”; – in secondo luogo, che non si comprende per quali motivi solo il V. avrebbe dovuto cadere in errore sulle circostanze di fatto sopra delineate e non anche gli altri coeredi, i quali, al contrario, avrebbero dovuto rendersi conto del vizio della volontà del rappresentato posto che “la mancata separazione dei patrimoni o l’omessa considerazione di alcuni elementi patrimoniali, sono circostanze che se non potevano essere conosciute dal V., allo stesso modo non avrebbero potuto essere conosciute dalle controparti, le quali, pertanto, neppure avrebbero potuto rendersi conto dell’asserito vizio della volontà manifestata dal rappresentante del fratello”. Nel lodo, in effetti, ha aggiunto la corte, non si rinviene alcuna motivazione in ordine alla riconoscibilità dell’errore del V. da parte degli altri coeredi, né l’attore ha svolto alcuna considerazione al riguardo “per evidenziare le ragioni che avrebbero dovuto indurre i fratelli ad accorgersi della pretesa mancata separazione dei patrimoni relitti dai genitori e a trascurare la valutazione di alcun elementi patrimoniali”. In realtà, ha proseguito la corte, la posizione delle parti era del tutto analoga e gli elementi sottoposti alla loro valutazione erano identici, essendo stati completati gli inventari di entrambi i compendi ereditari, per cui “l’oggetto sul quale essi avrebbero dovuto transigere era ben definito e, soprattutto, conoscibile da entrambi in egual misura, senza alcuna possibilità per gli uni di avvedersi di eventuali errori da parte degli altri”.

2.6. La corte, allora, una volta esclusa l’annullabilità della transazione per vizio del consenso, ha rilevato come l’attore, pur avendo chiesto di dichiarare la nullità, l’invalidità o l’inefficacia della transazione, non aveva, in realtà, dedotto (a parte quelli esaminati) altri specifici motivi di nullità, invalidità e/o inefficacia dell’atto di transazione e delle sue singole clausole: ed ha, quindi, provveduto ad esaminare le domande con le quali l’attore ha chiesto la declaratoria di avvenuta risoluzione, di diritto, della transazione V. ai sensi dell’art. 1454 c.c., ovvero la pronuncia di risoluzione per inadempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., e ne ha ritenuto l’infondatezza sul rilievo che la transazione aveva avuto natura novativa.

2.7. La corte, sul punto, dopo aver rilevato che E.E. con testamento olografo aveva lasciato al figlio D.G.P. una somma di denaro di Lire 100.000.000 come legato in sostituzione di legittima con facoltà di chiedere se del caso il supplemento ed aveva comunque escluso che il figlio potesse ricevere beni immobili compresi nel compendio ereditario, ha evidenziato come i litiganti, divisi i beni mobili, dopo aver indicato i criteri e i metodi di valutazione del compendio facente capo alla E., avevano stabilito, con la clausola 5), che, “valutato così l’intero asse ereditario, mobili ed immobili, di E.E., detratti dallo stesso legati ed oneri”, sul residuo dovesse essere calcolata, a norma di legge, la quota di legittima spettante a D.G.P. sull’eredità stessa, il cui controvalore avrebbe dovuto essere corrisposto a quest’ultimo dai fratelli “in contanti” non appena si fossero rese disponibili tutte le somme pervenute in eredità e comunque non oltre la data del 31/3/1994, ed ha ritenuto che, a mezzo di tale pattuizione, le parti avevano voluto “sostituire alla disposizione testamentaria di E.E., attributiva di legato al figlio Gi.Pi., la previsione contenuta nella clausola 5), con la quale era pattuita la liquidazione in favore di Gi.Pi., in contanti, della sua intera quota di legittima, a prescindere dalla predetta disposizione”: “vi fu, pertanto, un intento certamente novativo dei partecipanti all’accordo transattivo, posto che il rapporto sorto per effetto della volontà manifestata dal de cuius venne sostituito con quello derivante dalla successione legittima, riconoscendo a Gi.Pi., a prescindere dal legato attribuitogli dalla madre con la eventuale differenza, l’intera sua quota di legittima”, non limitandosi, quindi, alla quantificazione della legittima, previa detrazione di legati ed oneri diversi da quello attribuito all’attore, ma imponendo ai fratelli eredi “l’obbligo di pagare in denaro contante il valore della quota, nella sua interezza, a definitiva tacitazione di ogni pretesa della controparte”. La conferma della natura novativa della transazione si ricava, peraltro, ha aggiunto la corte, dalla successiva clausola 6), nella quale le parti, oltre a ribadire che a D. spettava la quota di legittima “comunque corrisposta secondo le previsioni del precedente capo 5”, avevano anche avvertito l’esigenza di riconoscere allo stesso, “a tacitazione completa e definitiva di ogni sua spettanza ed aspettativa”, una ulteriore somma di Lire 50.000.000.

2.8. In definitiva, ha osservato la corte, “i rapporti tra i fratelli D., in ordine a entrambe le eredità dei genitori, restavano definitivamente regolati dall’accordo transattivo, che si costituiva ad ogni precedente titolo, compreso, nei rapporti tra i coeredi, il testamento E.”, come del resto riconosciuto dallo stesso attore, il quale aveva lamentato che il V. aveva debordato dai suoi poteri proprio perché aveva finito per riconoscergli la qualità di erede, anziché quella di legatario, così confermando implicitamente che la transazione aveva escluso in radice la previsione di un legato in suo favore.

2.9. Un ulteriore e significativo riscontro di tale conclusione, ha aggiunto la corte, si rinviene nel contenuto dell’offerta reale, che “contempla il pagamento della intera quota di legittima di Do.Gi.Pi. e della somma aggiuntiva di Lire 50.000.000”, escluso, invece, ogni importo che potesse riferirsi ai lasciti ed oneri testamentari.

2.10. La transazione, pertanto, a norma dell’art. 1976 c.c., non poteva né può essere risolta per inadempimento, stante l’effetto estintivo di ogni precedente rapporto inter partes, per cui, in definitiva, ha concluso la corte, tutte le domande di risoluzione avanzate dall’attore dovevano essere respinte.

2.11. La corte, quindi, ha proceduto ad esaminare le questioni relative alla validità e all’efficacia dell’offerta reale che il 20/10/1994 i fratelli D. avevano compiuto in esecuzione dell’accordo transattivo.

2.12. La corte, sul punto, ha evidenziato che: – il riconoscimento della piena validità della transazione consente di affermare che l’attore non aveva più alcun diritto di formulare riserva di conguaglio poiché “il patto prevedeva che gli venisse corrisposto il controvalore in denaro della quota della eredità della madre”, così come quantificata sulla base dei metodi e dei criteri definiti in sede transattiva, oltre al versamento della somma di 50 milioni di Lire “a tacitazione di ogni altra pretesa”, senza, pertanto, che residuasse alcuno spazio per una riserva di conguaglio; – l’offerta reale, del resto, non poteva ritenersi condizionata, neanche se si interpretasse la richiesta di quietanza come domanda di rinuncia ad altra pretese, posto che una siffatta richiesta sarebbe stata consequenziale alla stessa accettazione dell’offerta e, prima ancora, della transazione, risolvendosi, pertanto, in una “mera clausola di stile”; – l’attore, poi, non poteva avere neppure un’obiettiva incertezza in termini qualitativi su quanto a lui dovuto, “interamente individuato dall’accordo transattivo” senza alcuna possibilità di fare ricorso ad altri criteri di determinazione del compendio ed a prescindere dalla sua reale composizione e dai beni ancora sottoposti a sigilli, né avrebbe potuto lamentarsi della mancata offerta in natura della quota parte dei beni mobili a lui spettanti sull’asse ereditario paterno posto che anche tale aspetto era stato compiutamente disciplinato in sede transattiva “con la previsione di un onere a carico dello stesso coerede di indicare i beni di suo gradimento fino all’ammontare del valore della sua quota”.

2.13. La corte, tuttavia, ha ritenuto di non potersi pronunciare sulla censura attinente alla “congruità della somma oggetto dell’offerta reale” ed ha, quindi, affermato la necessità di disporre, sul punto, con separata ordinanza, una consulenza tecnica d’ufficio per accertare se la somma oggetto dell’offerta reale in data 20/10/1994 era stata determinata secondo i criteri indicati al punto 4 dell’atto di transazione.

2.14. La corte, pertanto, dichiarata la nullità del lodo arbitrale impugnato, ha rigettato le domande dell’attore volte ad ottenere la risoluzione della transazione del 27/9/1993 e/o la declaratoria di nullità, invalidità o inefficacia o di annullamento della stessa transazione o di sue singole clausole, rimettendo la causa in istruttoria al fine di accertare, a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, la congruità dell’offerta reale.

2.15. Eseguita la consulenza, la corte d’appello, con la sentenza definitiva n. 819 del 28/4/2015, ha rigettato la domanda con la quale St., S. e D.G. avevano chiesto di dichiarare la validità dell’offerta reale e del successivo deposito ad iniziativa dell’ufficiale giudiziario.

2.16. La corte, sul punto, dopo aver rilevato che il consulente tecnico d’ufficio aveva elaborato due ipotesi e che mentre nella prima era pervenuto ad una conclusione di sostanziale congruità dell’offerta (“tenuto conto di una differenza tra quanto offerto e quanto accertato dal consulente medesimo di sole Lire 21.070”), nella seconda, invece, la differenza tra la somma oggetto dell’offerta reale e quella accertata dal consulente (Lire 328.182.735) ammonterebbe a Lire 52.923.735, ha ritenuto che fosse fondata, con carattere assorbente rispetto ad ogni altra questione, la censura con la quale l’attore aveva lamentato l’invalidità dell’offerta reale perché non conforme al dettato dell’art. 1208 c.c. per “inadeguatezza della voce concernente l’ammontare degli interessi”, con il conseguente impedimento alla convalida dell’offerta stessa.

2.17. La corte, in particolare, dopo aver ricordato che, a norma dell’art. 1208 c.c., n. 3, l’offerta è valida soltanto se comprende la totalità della somma dovuta e degli interessi e che la completezza della somma offerta, ossia “la sua piena corrispondenza alla totalità del credito comprensivo degli accessori fino a quel momento già certi”, è requisito essenziale perché la sua accettazione o, in caso di rifiuto, il suo deposito comporti la liberazione del debitore, ha rilevato che, nel caso in esame, l’accordo transattivo, al capo 5), statuiva come, una volta ricostruito e valutato l’intero asse ereditario dell’ E. e detratti i legati e gli oneri testamentati, dovesse essere calcolata la quota di legittima dell’attore, la quale avrebbe dovuto essere pagata dagli altri coeredi non appena avessero avuto la disponibilità delle somme pervenute in eredità e, comunque, entro il 31/3/2004 (rectius: 1994), ed ha ritenuto che, con tale pattuizione, le parti avessero inserito “un termine finale per l’adempimento dell’obbligazione assunta dagli eredi D. verso il fratello”, individuato alla data del 31/3/1994: “… un termine non essenziale, ma idoneo a far decorrere dalla sua scadenza gli effetti della mora debendi secondo quanto previsto dall’art. 1219 cpv. c.c., n. 3) in presenza di una obbligazione consistente nel pagamento di una somma di denaro”.

2.18. Del resto, ha aggiunto la corte, l’attore ha provveduto a notificare alle controparti, in data 4/6/1994, una intimazione ad adempiere il cui effetto era certamente quello di “costituire in mora i debitori al pagamento della somma dovuta in forza dell’accordo transattivo”.

2.19. I convenuti, tuttavia, ha proseguito la corte, hanno “inspiegabilmente” inserito nell’offerta reale in questione, “oltre alla somma in linea capitale”, “un importo a titolo di interessi moratori, calcolato su un periodo di soli 40 giorni”, com’e’ stato accertato in sede di consulenza tecnica d’ufficio, pur essendo, per contro, “onere degli offerenti aumentare la somma corrispondente alla quota di legittima liquidata al fratello di un ulteriore importo, a titolo di interessi moratori, calcolata su un periodo ben maggiore”.

2.20. La corte, quindi, ha ritenuto che, a prescindere da ogni altra considerazione, l’offerta reale eseguita il 20/10/1994, in violazione del dato normativo, non corrispondesse all’ammontare complessivo del credito di D.G.P. e che, pertanto, il successivo deposito eseguito dagli offerenti ai sensi dell’art. 1201 c.c. non potesse essere dichiarato valido, con la conseguenza che la relativa domanda proposta dai convenuti doveva essere, in definitiva, rigettata.

2.21. La corte, infine, a fronte dell’obiettiva difficoltà della questione controversa e la stessa pronuncia di nullità del lodo, invocata da entrambe le parti, ha disposto l’integrale compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

3.1. G., S. e Do.St., con ricorso notificato il 9/5/2016, hanno chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza definitiva della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

3.2. Do.Gi.Pi. ha resistito con controricorso notificato in data 10.14/6/2016 nel quale ha proposto ricorso incidentale avverso tanto la sentenza non definitiva, quanto la sentenza definitiva.

3.3. I ricorrenti, a loro volta, con controricorso notificato in data 15/7/2016, hanno resistito al ricorso incidentale deducendo, in via preliminare, l’inammissibilità dello stesso, con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, per: – il difetto di una valida procura alle liti in favore dell’avv. Romanelli, con la conseguente inefficacia della notifica del controricorso che lo stesso ha operato; – il decorso del termine previsto dall’art. 327 c.p.c. per l’impugnazione della sentenza non definitiva, non potendo valere, in caso di ricorso incidentale per la cassazione di una sentenza non definitiva, la norma dell’art. 334 c.p.c.; – la mancata osservanza della prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, non essendo stati formulati specifici motivi di censura delle sentenze impugnate.

3.4. Il Pubblico Ministero, con le conclusioni scritte depositate in data 5/10/2021, ha chiesto il rigetto del ricorso principale e la declaratoria d’inammissibilità del ricorso incidentale.

3.5. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. La procura ad litem in favore dell’avv. Romanelli, collocata in calce al controricorso (p. 57) e con l’esplicito riferimento al “presente giudizio avanti alla Suprema Corte di Cassazione”, e’, pur se priva di data, senz’altro valida.

4.2. Questa Corte, in effetti, ha già avuto modo di affermare che l’art. 83 c.p.c., comma 3, nell’attribuire alla parte la facoltà di apporre la procura in calce o a margine di specifici e tipici atti del processo, fonda la presunzione che il mandato così conferito abbia effettiva attinenza al grado o alla fase del giudizio cui l’atto che lo contiene inerisce, per cui la procura per il giudizio di cassazione rilasciata in calce o a margine del ricorso (ovvero, trattandosi di atti che sotto questo profilo sono del tutto assimilabili, del controricorso: art. 365 c.p.c., art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 e art. 370 c.p.c., commi 2 e 3), in quanto corpo unico con tale atto, garantisce il requisito della specialità del mandato al difensore, al quale, se privo di data, deve intendersi estesa quella del ricorso stesso (Cass. SU n. 35466 del 2021), senza che rilevi l’eventuale formulazione genericamente omnicomprensiva (ma contenente comunque il riferimento anche alla fase di cassazione) dei poteri attribuiti al difensore, tanto più ove il collegamento tra la procura e il ricorso per cassazione sia reso esplicito, come nel caso di specie, attraverso il richiamo ad essa nell’intestazione dell’atto di gravame (Cass. n. 15538 del 2015). In effetti, deve ritenersi validamente rilasciata la procura apposta in calce al ricorso per cassazione, ancorché il mandato difensivo sia privo di data, poiché l’incorporazione dei due atti in un medesimo contesto documentale implica necessariamente il puntuale riferimento dell’uno all’altro, come richiesto dall’art. 365 c.p.c. ai fini del soddisfacimento del requisito della specialità (Cass. n. 14437 del 2019). Per il resto, non può che ribadirsi il principio secondo il quale la procura apposta nell’unico atto contenente il controricorso ed il ricorso incidentale deve intendersi estesa anche a quest’ultimo, per il quale non ne è richiesta formalmente una autonoma e distinta, ed il suo rilascio, anche non datato, mediante timbro apposto a margine o in calce a quell’atto le conferisce sia il carattere dell’anteriorità che il requisito della specialità, giacché tale collocazione rivela uno specifico collegamento tra la procura stessa ed il giudizio di legittimità (Cass. n. 8798 del 2016).

5.1. Il ricorso incidentale avverso la sentenza non definitiva e’, inoltre, tempestivo ancorché proposto oltre il termine annuale previsto dall’art. 327 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

5.2. Questa Corte, in effetti, ha da tempo affermato il principio di diritto secondo cui la legittimazione all’impugnazione incidentale tardiva ai sensi dell’art. 334 c.p.c. può riguardare la sentenza non definitiva alla duplice e congiunta condizione che il soccombente sia autore della riserva di gravame differito e che, essendo risultato parzialmente vittorioso per effetto della sentenza definitiva, veda le statuizioni di questa, a lui favorevoli, impugnate in via principale dalla controparte (Cass. n. 6515 del 1997; Cass. n. 3052 del 2001; Cass. n. 15874 del 2013; Cass. n. 19514 del 2020; nel passato, Cass. n. 1452 del 1991; più di recente, Cass. n. 21173 del 2021, la quale, peraltro, ha sostenuto che la riserva d’impugnazione contro le sentenze non definitive è necessaria soltanto per le impugnazioni principali e non per quelle incidentali, che possono essere tardivamente proposte dalle parti contro le quali è stata proposta l’impugnazione principale anche quando per esse sia decorso il termine od abbiano prestato acquiescenza alla sentenza).

5.3. In effetti, come evidenziato da Cass. n. 21173 del 2021, questa Corte, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4640 del 1989, ha consolidato il principio secondo cui l’art. 334 c.p.c., che consente alla parte contro cui è stata proposta impugnazione di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire le conseguenze dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, trova, pertanto, applicazione, in difetto di limitazioni oggettive, con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale (tra le numerose successive conformi si vedano Cass. SU n. 652 del 1998 e n. 10977 del 2001).

5.4. E’ vero – ha aggiunto Cass. n. 21173 del 2021 – che una cospicua parte della giurisprudenza successiva, pur tenendo fermo il principio dell’impugnabilità in via incidentale di capi autonomi della sentenza rispetto a quelli oggetto dell’impugnazione in via principale, ha affermato – sulla scorta di una testuale precisazione di Cass. S.U. n. 4640 del 1989 – che opererebbe pur sempre il limite dell’unicità formale della sentenza oggetto d’impugnazione (così, ad es., Cass. n. 9022 del 1993, Cass. n. 5711 del 1996; Cass. n. 10535 del 2002); ma non è meno vero che tale assunto, di cui a ben vedere costituisce espressione anche l’indirizzo consapevolmente inaugurato da Cass. n. 6515 del 1997 cit., mal si concilia con l’evidenza normativa che vuole l’osservanza del termine stabilito dall’art. 325 c.p.c. soltanto per l’impugnazione principale e non già per l’impugnazione incidentale: che appunto, a termini dell’art. 334 c.p.c., è proponibile anche quando sia decorso il termine e perfino quando sia intervenuta acquiescenza.

5.5. Ne’ appare decisivo – ha aggiunto Cass. n. 21173 del 2021 – che il legislatore, nel delineare nella disposizione ult. cit. i presupposti dell’impugnazione incidentale tardiva, abbia impiegato il termine “sentenza” al singolare, come pure nel successivo art. 335 c.p.c., quando disciplina la riunione preposta ad assicurare l’unità del processo d’impugnazione: come convincentemente osservato da Cass. n. 1452 del 1991, cit., l’uso del singolare “sentenza” si spiega agevolmente sol che si pensi che i testi degli artt. 334 e 335 c.p.c. furono redatti per far parte di un contesto normativo in cui, prima delle modificazioni introdotte dalla L. n. 581 del 1950, art. 35 l’art. 339 c.p.c., comma 2, prevedeva che le sentenze parziali potessero essere impugnate soltanto con la sentenza definitiva, onde era logico identificare in quest’ultima quella “stessa sentenza” le cui separate impugnazioni dovevano essere riunite, anche d’ufficio, per essere decise in un solo processo. E sebbene nella nuova formulazione degli artt. 339 e 340 c.p.c. non si faccia cenno alla possibilità di esperire un’impugnazione differita della sentenza non definitiva che avvenga nelle forme e nei termini stabiliti per l’impugnazione incidentale tardiva, tale possibilità deve logicamente ammettersi proprio in relazione alla ratio che ispira l’art. 334 c.p.c.. In effetti, come opportunamente rimarcato da Cass. n. 1452 del 1991, cit., una volta che si ammetta che sull’unità “formale” della sentenza deve far premio l’unicità del processo, nel corso del quale più decisioni possono susseguirsi in progressiva definizione del disputatum, risulta agevole concludere che soltanto in riferimento all’esito conclusivo del singolo grado del giudizio è possibile, per ciascuno dei litiganti, valutare quale grado di soddisfacimento abbia in concreto ricevuto il suo interesse e quali siano i vantaggi ed i possibili rischi di un’eventuale impugnazione.

5.6. Ciò significa – ha condivisibilmente concluso Cass. n. 21173 del 2021 – che, anche rispetto alle ipotesi previste dall’art. 340 c.p.c. (e, naturalmente, dall’art. 361 c.p.c., che disciplina il ricorso per cassazione), ricorre quella medesima ragione giustificativa dell’impugnazione incidentale tardiva che, a suo tempo, ha indotto le Sezioni Unite a ripudiare le limitazioni prima ravvisate rispetto alla sua ammissibilità: ossia lo scopo di favorire l’accettazione della definizione del giudizio nella sua interezza, anche quando molteplici e formalmente ascrivibili a più sentenze siano i precetti che hanno composto il conflitto tra le parti, così da avvertire colui, che con l’impugnazione principale intende rimettere in discussione a proprio vantaggio quell’equilibrio, profittando della scadenza dei termini processuali o dell’acquiescenza dell’avversario, che analoga facoltà permane pur sempre in capo alla controparte, la quale, ferma l’unitarietà del processo nella fase impugnatoria, ben potrà, a sua volta, dolersi delle statuizioni ad essa sfavorevoli contenute nel complessivo assetto di interessi in cui s’e’ concretato il decisum.

5.7. Nel caso in esame, il ricorso incidentale proposto da Do.Gi.Pi., che ne aveva fatto (incontestatamente) riserva, pur se proposto con controricorso notificato in data 10.14/6/2016, e cioè (nei quaranta giorni successivi alla notificazione del ricorso principale, come preteso dall’art. 370 c.p.c., comma 1, ma) oltre il termine annuale previsto dall’art. 327 c.p.c., nel testo anteriormente in vigore applicabile ratione temporis, dal deposito della sentenza non definitiva in data 6/6/2013, e’, pertanto, senz’altro tempestivo.

5.8. Il controricorso contenente ricorso incidentale non e’, invece, ammissibile in quanto privo del requisito previsto ed imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

5.9. E’, in effetti, vero che, in linea di principio, il controricorso è ammissibile anche se non riporta il fatto: il precetto dell’art. 370 c.p.c., comma 2 (per il quale “al controricorso si applicano le norme degli artt. 365 e 366, in quanto è possibile”) e’, infatti, sostanzialmente rispettato anche quando il controricorso non contenga, come prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, un’autonoma “esposizione sommaria dei fatti della causa” ma faccia semplicemente riferimento, anche se il richiamo sia soltanto implicito, ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione degli stessi contenuta nel ricorso (Cass. SU n. 1049 del 1997; Cass. n. 241 del 2006; Cass. n. 25015 del 2007; Cass. n. 13140 del 2010; Cass. n. 18483 del 2015; Cass. n. 1150 del 2019), avendo il controricorso la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui.

5.10. Tuttavia, quando, come nella specie, racchiuda anche un ricorso incidentale, il controricorso deve contenere, in ragione della sua autonomia rispetto al ricorso principale (tanto più nel caso, come quello in esame, in cui, mentre il ricorso principale ha per oggetto esclusivo la sentenza definitiva, il ricorso incidentale riguarda anche, e per la maggior parte, una precedente sentenza non definitiva), l’esposizione sommaria dei fatti della causa ai sensi del comb.disp. dell’art. 371 c.p.c., comma 3 e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, con la conseguente necessità, in siffatta ipotesi, di rinvenire, nel contesto dell’atto di impugnazione, “gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti” (Cass. n. 76 del 2010; Cass. n. 18483 del 2015).

5.11. Ciò comporta che se, al contrario, dal contenuto del controricorso e del ricorso incidentale ivi contenuto non è possibile desumere i fatti (sostanziali e processuali) della causa, dev’essere dichiarata, a prescindere da quanto risulta dal ricorso principale e dalla sentenza impugnata, l’inammissibilità del ricorso incidentale (Cass. n. 14474 del 2004; Cass. n. 15806 del 2005).

5.12. In effetti, come questa Corte ha di recente condivisibilmente ribadito (con riferimento al ricorso principale ma con rilievi estensibili senz’altro anche al ricorso incidentale), l’art. 366 c.p.c., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma-contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso: – “con particolare riferimento al requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” (art. 366 c.p.c., n. 3), che deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali che i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi, va osservato che tale requisito è posto, nell’ambito del modello legale del ricorso, non tanto nell’interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata ad esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte”; – “esiste pertanto un rapporto di complementarità tra il requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” di cui art. 366 c.p.c., n. 3 e quello – che lo segue nel modello legale del ricorso – della “esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione” (art. 366 c.p.c., n. 4), essendo l’esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso di seguito formulati”; -“in altri termini, secondo il ‘modello legale’ apprestato dall’art. 366 c.p.c., la Corte di cassazione, prima di esaminare i motivi, dev’essere posta in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di avere contezza sia del rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia dello sviluppo della vicenda processuale nei vari gradi di giudizio di merito, in modo da poter procedere poi allo scrutinio dei motivi di ricorso munita delle conoscenze necessarie per valutare se essi siano deducibili e pertinenti; valutazione – questa – che è possibile solo se chi esamina i motivi sia stato previamente posto a conoscenza della vicenda sostanziale e processuale in modo complessivo e sommario, mediante una “sintesi” dei fatti che si fondi sulla selezione dei dati rilevanti e sullo scarto di quelli inutili”.

5.13. “Perciò” – si è aggiunto – “il difensore chiamato a redigere il ricorso per cassazione – che, per legge, dev’essere un professionista munito di quella particolare specializzazione attestata dalla sua iscrizione nell’albo speciale dei patrocinanti in Cassazione – deve procedere ad elaborare autonomamente “una sintesi della vicenda fattuale e processuale”, selezionando i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti (domande, eccezioni, statuizioni delle sentenze di merito, motivi di gravame, questioni riproposte in appello, etc.) in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto alle rationes decidendi della sentenza impugnata…” (così, Cass. n. 10072 del 2018; conf., Cass. n. 7025 del 2020).

5.14. Si tratta, in definitiva, della necessità di svolgere, all’interno del ricorso (o del controricorso contenente un ricorso incidentale), un’attività di narrazione che, in ragione dell’espressa qualificazione della sua modalità espositiva come “sommaria”, postula una rappresentazione (che non solo deve esistere ma dev’essere anche sufficiente: Cass. n. 1959 del 2004) funzionale a riassumere tanto la vicenda sostanziale dedotta in giudizio, quanto lo svolgimento del relativo processo (Cass. SU n. 19255 del 2010), attraverso una sintesi specificamente finalizzata alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata (Cass. SU n. 5698 del 2012; conf., Cass. n. 593 del 2012; Cass. n. 17168 del 2012; Cass. n. 10244 del 2013; Cass. n. 21297 del 2016). Il requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, che prescrive “l’esposizione sommaria dei fatti della causa” a pena d’inammissibilità del ricorso per cassazione, e’, infatti, preordinato allo scopo di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa, l’esito dei gradi precedenti con eliminazione delle questioni non più controverse ed il tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura.

5.15. “L’esposizione dei fatti della causa – peraltro – deve precedere i motivi di ricorso ed essere autonoma rispetto ad essi (cfr. Cass., Sez. 2, n. 18887 del 2017, non massimata); ciò si ricava dal significato della diversa e susseguente numerazione che, nell’ambito dell’art. 366 c.p.c. e del “modello legale” di ricorso da esso configurato, è attribuita a “l’esposizione sommaria dei fatti della causa” ed a “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme su cui si fondano”, rispettivamente indicati ai nn. 3) e 4) della disposizione codicistica; e si ricava prima ancora dalla anzidetta funzione complementare e strumentale della esposizione sommaria dei fatti rispetto alla comprensione dei motivi. Deriva da ciò che la mancanza o la carenza dell’esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato determina ex se l’inammissibilità del ricorso e non può essere superata attraverso l’esame delle censure in cui si articola il ricorso, né attraverso l’esame di altri atti processuali…”(così, Cass. n. 10072 del 2018; conf., Cass. n. 7025 del 2020).

5.16. Le soluzioni in precedenza esposte sono state, del resto, condivise dalla Corte Europea dei Diritti Umani la quale, nella sentenza del 28/10/2021 (“Succi et autres c. Italie”), ha, in sostanza, escluso che violasse l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione, condivisa dal collegio, secondo cui l’esposizione sommaria dei fatti di causa implica un’attività del difensore, che è tenuto a selezionare i fatti rilevanti rispetto alle critiche che intende successivamente formulare nei suoi motivi di ricorso, evidenziando, tra l’altro, che il difensore deve consentire di identificare il thema decidendum rispetto a quanto chiede alla Corte di cassazione e che tale compito necessariamente impone uno sforzo di sintesi degli aspetti rilevanti del giudizio di merito (tanto più che il procedimento avanti la Corte di cassazione prevede l’assistenza obbligatoria di un avvocato che deve essere iscritto in un apposito albo sulla base di determinate competenze richieste che garantiscono la qualità del ricorso e il rispetto di tutte le condizioni formali e sostanziali).

5.17. Nel caso di specie, come si evince dalla semplice lettura del controricorso, il ricorrente incidentale, dopo aver in qualche modo accennato all’offerta reale delle controparti e alla “convenzione V.” sulla quale la stessa era fondata (p. 3), ha ricostruito lo “svolgimento del processo” (p. 3-12 e p. 44-45) facendo esclusivo (ed, invero, confuso) riferimento, attraverso la trascrizione di stralci, più o meno ampi, dei relativi atti difensivi e dei documenti invocati a sostegno degli stessi, soltanto alle domande e alle eccezioni che lo stesso aveva proposto in sede arbitrale prima e di impugnazione del lodo poi (p. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 10, 11 e 12), con la successiva esposizione del contenuto del lodo (p. 5, 6) ed un brevissimo accenno alla domanda della controparte (p. 8, sub 4) e alla decisione non definitiva assunta dalla corte d’appello (p. 9) nonché, infine, alla consulenza tecnica d’ufficio svolta nella prosecuzione del giudizio (p. 9).

5.18. Ritiene la Corte che si tratta, com’e’ evidente, di un’esposizione dei fatti che, per il modo in cui risulta formulata, è del tutto inidonea ai fini in precedenza evidenziati, e cioè a fornire una conoscenza chiara, precisa e completa dei fatti di causa sostanziali e processuali. Il ricorrente (incidentale), infatti, ha del tutto omesso di rappresentare, prima dell’articolazione dei motivi di censura, tanto le domande proposte e le eccezioni sollevate delle parti, con l’indicazione dei fatti sostanziali dedotti a relativo fondamento, quanto le decisioni assunte dalla corte d’appello e le ragioni poste a fondamento delle stesse. Il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 richiede, al contrario, che il ricorso per cassazione contenga l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito (Cass. n. 1926 del 2015; Cass. n. 7825 del 2006; conf., Cass. n. 19018 del 2017; di recente, Cass. SU n. 22575 del 2019, per cui il ricorso deve recare, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, in modo da consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti; Cass. SU n. 11826 del 2013; Cass. n. 2831 del 2009, per cui il ricorso per cassazione, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 è inammissibile ove dalla sua lettura non sia possibile desumere una sufficiente conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, al fine di comprendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata, come nell’ipotesi in cui non vengano adeguatamente riportate né la ratio decidendi della pronuncia del giudice, né le ragioni di fatto e di diritto che sostenevano le rispettive posizioni delle parti nel giudizio di merito), non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi (Cass. n. 13312 del 2018, secondo cui per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati causa petendi e petitum, nonché degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perché tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente, sicché il requisito non è adempiuto laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado). Per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, in effetti, il ricorso (anche se incidentale) per cassazione deve indicare, in modo chiaro ed esauriente, sia pure non analitico e particolareggiato, i fatti di causa da cui devono risultare le reciproche pretese delle parti con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano in modo da consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto senza dover ricorrere ad altre fonti e atti del processo, dovendosi escludere, peraltro, che i motivi, essendo deputati ad esporre gli argomenti difensivi, possano ritenersi funzionalmente idonei ad una precisa enucleazione dei fatti di causa (Cass. n. 24432 del 2020).

5.19. Ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, il ricorso per cassazione dev’essere, del resto, redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c., con la conseguenza che l’inosservanza di tale dovere, pregiudicando l’intellegibilità delle questioni e rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, comporta la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (art. 111 Cost., comma 2, e art. 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (Cass. n. 8425 del 2020). In tema di ricorso per cassazione, invero, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali – che, fissato dall’art. 3, comma 2 c.p.a., esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile – espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (non già per l’irragionevole estensione del ricorso, la quale non è normativamente sanzionata, ma) perché rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite (queste sì) da una sanzione testuale d’inammissibilità (Cass. n. 8009 del 2019 la quale, in applicazione del principio esposto, ha dichiarato inammissibile un ricorso che si limitava a riprodurre stralci degli atti difensivi depositati dal ricorrente nei precedenti gradi del giudizio; conf., Cass. n. 21297 del 2016).

5.20. Il ricorso incidentale proposto dal controricorrente, dunque, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile in quanto è privo di un’esposizione dei fatti della causa che, prima ancora della formulazione dei motivi di censura, consenta alla Corte di comprendere compiutamente l’oggetto della controversia insorta e il tenore delle sentenze impugnate che l’hanno decisa.

5.21. Nel caso in esame, peraltro, il tema della possibilità di trarre dai motivi di ricorso (incidentale) l’esposizione dei fatti di causa – ammesso che sia possibile (Cass. n. 19047 del 2016: in tema di ricorso per cassazione, la dichiarazione con la quale il ricorrente qualifichi espressamente, com’e’ accaduto nel caso in esame, una parte del ricorso come sede destinata all’esposizione del fatto, esclude la possibilità di supplire ad eventuali sue carenze sulla base della illustrazione dei motivi, in quanto siffatta dichiarazione esprime l’intenzione che il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3 debba ivi desumersi, in conformità coi principi della relatività della idoneità delle forme al raggiungimento dello scopo e di autoresponsabilità) – nemmeno si pone giacché, come emerge dalla loro stessa lettura, i motivi del ricorso in esame sono stati essi stessi redatti (p. 12-43 e 45-47) con modalità espositive che, a ben vedere, si risolvono in una confusa riproduzione di stralci di atti processuali e risultanze documentali con la quale, in sostanza, il ricorrente incidentale pretende di riversare in sede di legittimità il contenuto degli atti dei gradi di merito del presente giudizio. I motivi di censura, infatti, per come formulati, si articolano in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti processuali e documenti, tesi in diritto sottoposte al giudice del merito, repliche agli argomenti di controparte, frammenti di motivazione delle sentenze e censure alle stesse. Si tratta, com’e’ evidente, di una tecnica redazionale che non consente in alcun modo la comprensione dei fatti sostanziali e processuali della causa ed e’, in ogni caso, incompatibile con i principi di sinteticità e chiarezza del ricorso per cassazione, la cui violazione, come detto, espone il ricorrente (anche se incidentale) per cassazione al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione proposta (Cass. n. 17698 del 2014; Cass. n. 21297 del 2016; Cass. n. 8009 del 2019).

6.1. Con il primo motivo, i ricorrenti principali, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1208 c.c., comma 1, n. 3, in comb. disp. con gli artt. 1460,1218,1224 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza definitiva nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che fosse fondata la censura con la quale Do.Gi.Pi. aveva dedotto l’invalidità dell’offerta reale eseguita il 20/10/1994 per l’inadeguatezza della voce concernente l’ammontare degli interessi moratori maturati, con decorrenza dal 31/3/1994 o, al più tardi, dal 4/6/1994, sulla somma allo stesso dovuta e che, di conseguenza, la predetta offerta reale, non corrispondendo all’ammontare complessivo del credito vantato dal D., non fosse conforme all’art. 1208 c.c., comma 1, n. 3, a norma del quale l’offerta è valida solo se comprende la totalità della somma dovuta e degli interessi.

6.2. Così facendo, però, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello non ha considerato che, come rilevato negli scritti difensivi relativi al procedimento arbitrale e alla successiva fase d’impugnazione, risultava documentalmente dimostrato come D.G.P., alla data del 31/3/1994 ed anche successivamente, fosse risultato inadempiente sotto molteplici aspetti alle obbligazioni da lui assunte con le clausole 5 (pagamento degli oneri fiscali di sua pertinenza), 12 (estinzione dei procedimenti giudiziari in corso di qualsiasi tipo e cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli) e 7 (stipula della vendita della quota di sua proprietà di un immobile entro il 27/12/1993), della transazione del 27/9/1993, riconosciuta dalla stessa corte pienamente valida ed efficace, e che i convenuti, dapprima con missiva del 17/3/1994 e poi con raccomandata del 27/5/1994, avevano, appunto, contestato al fratello l’inadempimento dei predetti obblighi e lo avevano, di conseguenza, costituito in mora dichiarando che, a causa ed in conseguenza di tali inadempimenti, sulle loro obbligazioni non sarebbero decorsi interessi né spese.

6.3. La corte d’appello, quindi, hanno proseguito i ricorrenti, lì dove ha ritenuto che l’offerta reale, non essendo comprensiva dell’intera somma dovuta a titolo di interessi di mora, non fosse conforme alla norma dell’art. 1208 c.c., comma 1, n. 3, ha del tutto omesso di considerare che: l’inadempimento di Do.Gi.Pi., ben preesistente alla sua missiva del 4/6/1994 e perdurante anche successivamente, era stato ripetutamente eccepito dai fratelli ai sensi dell’art. 1460 c.c.; – gli offerenti, pertanto, in forza del principio inadimpleti non est adimplendum, non potevano essere considerati in mora e non erano perciò tenuti al pagamento degli interessi di mora, difettando i presupposti degli artt. 1218 e 1224 c.c.; – la missiva di Do.Gi.Pi. del 4/6/1994 non poteva, quindi, essere considerata come atto idoneo a costituire in mora i fratelli dello stesso; – l’offerta reale, in definitiva, era congrua e convalidabile dal momento che nessun diritto a vedersi corrisposte somme a titolo di interessi era mai maturato in capo a Do.Gi.Pi..

6.4. Risulta, infatti, evidente, hanno osservato i ricorrenti, che, a norma dell’art. 1460 c.c. e della relativa eccezione inadimpleti non est adimplendum, ripetutamente invocata dagli stessi con le richiamate missive, il credito in linea capitale di Do.Gi.Pi., e cioè il suo diritto a vedersi liquidata in denaro la propria quota alla stregua dei criteri indicati nella transazione, non fosse affatto esigibile, né alla data del 31/3/1994 né a quella del 4/6/1994, a fronte della sussistenza a quelle date, ed anche in seguito, del mancato adempimento da parte sua delle obbligazioni assunte in forza del medesimo titolo rispetto alle quali lo stesso era stato costituito in mora.

6.5. La sussistenza di tali inadempimenti, hanno concluso i ricorrenti, avrebbe dovuto indurre la corte d’appello ad escludere che gli offerenti potessero essere a loro volta considerati inadempienti e tenuti al pagamento in favore del fratello di somme a titolo di interessi moratori.

6.6. D’altra parte, e sotto altro profilo, la corte d’appello è incorsa nella violazione e/o nella falsa applicazione degli artt. 1218 e 1219 c.c. per aver erroneamente ritenuto che la missiva di Do.Gi.Pi. del 4/6/1994 abbia avuto la valenza giuridica di atto idoneo a costituire in mora i fratelli, senza, tuttavia, considerare che a questi ultimi non poteva imputarsi qualsivoglia ritardo nell’esecuzione degli accordi, ascrivibile, per contro, in via esclusiva all’atteggiamento ostativo e defatigatorio dell’attore. I convenuti, infatti, sin nell’imminenza della ricezione della predetta missiva, sia nel corso dei precedenti gradi di giudizio, hanno eccepito l’inidoneità della stessa ad assurgere a valido atto di costituzione in mora ai sensi dell’art. 1219 c.c. non solo perché si chiedeva l’adempimento di un contratto del quale contraddittoriamente si affermava la nullità o l’annullamento ma anche perché era proprio l’inadempimento di Do.Gi.Pi. a privare di ogni rilevanza giuridica il ritardo dei fratelli nell’adempimento delle obbligazioni gravanti su di loro, ossia la liquidazione della quota di legittima così come determinata in transazione, posto che l’inadempimento del diffidante priva di rilevanza giuridica quello del diffidato.

6.7. La corte d’appello, infine, hanno aggiunto i ricorrenti, è incorsa nella violazione e/o nella falsa applicazione dell’art. 1208 c.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto che l’offerta del 20/10/1994 non fosse rispondente alla norma e non corrispondesse all’ammontare complessivo del credito dell’attore il quale, infatti, in ragione di quanto esposto, non aveva alcun diritto a vedersi corrisposte somme a titolo di interessi, per cui l’offerta reale era perfettamente congrua in quanto provvista di tutto quanto dovuto a Do.Gi.Pi., specie si si considera che i convenuti avevano offerto a quest’ultimo, oltre alla somma prevista dalla transazione, e cioè, in linea capitale, Lire 269.242.369, inclusa la somma di Lire 50.000.000 di cui al punto 6 della transazione stessa, detratta la quota parte della tassa di successione anticipata dai fratelli, anche la somma di Lire 3.016.511 a titolo di interessi, pur se non dovuta, e una ulteriore somma di Euro 3.000.014 a copertura di eventuali errori di calcolo, per la somma complessiva di Lire 275.258.994, vale a dire una somma che la corte d’appello avrebbe dovuto necessariamente considerare come congrua, come, del resto, ritenuto dallo stesso consulente tecnico d’ufficio.

7.1. Con il secondo motivo, i ricorrenti principali, lamentando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza definitiva nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di considerare un fatto che era stato oggetto di discussione tra le parti, la cui valutazione l’avrebbe certamente indotta ad escludere che i fratelli D. fossero tenuti a versare a Do.Gi.Pi. somme a titolo di interessi.

7.2. Si tratta, hanno chiarito i ricorrenti, del fatto costituito dal conclamato inadempimento di quest’ultimo, quale emerge dalle risultanze documentali della causa e dai convenuti denunciato sin dalla fase esecutiva della transazione, rispetto alle obbligazioni assunte dallo stesso con le clausole 5 (pagamento degli oneri fiscali di sua pertinenza), 12 (estinzione dei procedimenti giudiziari in corso di qualsiasi tipo e cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli) e 7 (stipula della vendita della quota di sua proprietà di un immobile entro il 27/12/1993) di tale atto.

7.3. Tale inadempimento, infatti, hanno osservato i ricorrenti, di gran lunga preesistente rispetto alla missiva indirizzata ai fratelli il 4/6/1994, non è stato minimamente considerato dalla corte d’appello la quale, al contrario, se ne avesse tenuto conto, avrebbe dovuto logicamente escludere la prospettabilità, a carico dei fratelli D., di qualsivoglia debenza in favore di Do.Gi.Pi. di somme a titolo di interessi e, di conseguenza, a riconoscere la piena conformità dell’offerta reale alle previsione di legge, oltre che alla scrittura transattiva in questione.

8.1. Con il terzo motivo, i ricorrenti principali, lamentando la nullità del procedimento per violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, hanno censurato la sentenza definitiva nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto incongrua l’offerta reale sull’unico presupposto del computo degli interessi moratori a suo dire spettanti a Do.Gi.Pi., rilevando, tuttavia, tale questione in mancanza di una esplicita e specifica domanda e allegazione da parte di quest’ultimo, il quale si era limitato a domandare la declaratoria di invalidità e/o risolubilità della transazione ed a rigettare la richiesta di convalida dell’offerta reale, senza, tuttavia, fare alcun cenno, nell’atto d’impugnazione del lodo, alla carenza dei presupposti di cui all’art. 1208 c.c., specie per ciò che riguarda il quantum indicato a titolo di interessi ed al relativo periodo di riferimento.

8.2. I profili relativi al quantum in punto di interessi offerti, in effetti, hanno proseguito i ricorrenti, mai proposti nel giudizio arbitrale, sono stati dedotti da D.G.P., come subito denunciato dai convenuti, per la prima volta solo nella comparsa conclusionale del 29/1/2015, dolendosi, peraltro genericamente, della pretesa insussistenza dei presupposti di cui all’art. 1206 c.c. e ss. senza neppure accennare specificamente al tema degli interessi.

8.3. Del resto, nel quesito demandato dalla stessa corte al consulente tecnico d’ufficio, non vi è alcun riferimento alla ricostruzione della congruità dell’offerta in ordine alla determinazione dell’importo e del computo degli interessi.

8.4. La corte d’appello, quindi, hanno concluso i ricorrenti, si è pronunciata oltre le domande e le eccezioni proposte dalle parti.

9.1. Con il quarto motivo, i ricorrenti principali, lamentando la radicale insussistenza della motivazione circa il discostamento dalla consulenza tecnica d’ufficio, che aveva concluso per la sostanziale congruità dell’offerta reale, e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ed, in ogni caso, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza definitiva nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di considerare un fatto che era stato oggetto di discussione tra le parti.

9.2. Il consulente tecnico d’ufficio, infatti, aveva determinato che la somma dovuta dai fratelli D., in esecuzione della transazione, a Do.Gi.Pi. ammontava a Lire 269.401.420, vale a dire una somma addirittura inferiore rispetto a quella oggetto dell’offerta reale, pari a Lire 275.259.000, la quale, pertanto, era incontestabilmente congrua e doveva essere, quindi, convalidata, con liberazione degli offerenti, a far data dal 20/10/1994, da ogni obbligazione assunta nei confronti del fratello per effetto della transazione V..

9.3. La corte d’appello, invece, hanno osservato i ricorrenti, pur a fronte di tali univoche circostanze, ha del tutto omesso di dare conto del risultato dell’indagine dalla stessa disposta, e ciò, peraltro, senza minimamente motivare, pur avendone l’obbligo, circa le ragioni che l’avevano indotta a discostarsi rispetto alle conclusioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio.

10.1. Il secondo motivo è fondato, con assorbimento degli altri.

10.2. La corte d’appello, infatti, ha ritenuto che l’offerta reale operata da S., G. e Do.St. non fosse valida sul rilievo che, in forza dell’accordo transattivo intercorso con il fratello Gi.Pi., la somma spettante all’attore, così come determinata in base ai criteri stabiliti dalle parti, avrebbe dovuto essere pagata dagli altri coeredi non appena avessero avuti) la disponibilità delle somme pervenute in eredità e, comunque, entro il termine finale del 31/3/1994 e che tale termine, ancorché non essenziale, era comunque “idoneo”, “in presenza di una obbligazione consistente nel pagamento di una somma di denaro”, “a far decorrere dalla sua scadenza gli effetti della mora debendi” ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 3 con la conseguenza che i convenuti avevano l’onere di pagare sulla somma dovuta gli “interessi moratori” maturati per il periodo corrispondente al ritardo nell’adempimento in cui erano incorsi, laddove, al contrario, gli stessi avevano “inspiegabilmente” inserito nell’offerta reale in questione, “oltre alla somma in linea capitale”, “un importo a titolo di interessi moratori, calcolato su un periodo di soli 40 giorni”.

10.3. Così facendo, però, come giustamente denunciato dai ricorrenti, la corte d’appello, lì dove ha riconosciuto che fossero dovuti gli interessi di mora sulla somma contrattualmente (e, oramai, definitivamente) dovuta dagli stessi (quale debito definitivamente depurato da ogni questione relativa all’invalidità e/o all’inefficacia, originaria o sopravvenuta, della transazione da cui ha avuto origine), ha del tutto omesso di considerare il fatto che, al contrario, come emerge dagli atti del giudizio di merito così come allegati al ricorso ed ivi riprodotti nel loro contenuto essenziale, S., G. e Do.St. avevano più volte contestato all’attore di non aver adempiuto gli obblighi posti a suo carico dalla transazione e di avere, per tale ragione, sospeso, sia pur temporaneamente, e cioè fino all’offerta reale, l’adempimento della predetta obbligazione.

10.4. Si tratta, com’e’ evidente, di un fatto decisivo a fini del giudizio se solo si considera il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui “la parte che si avvale legittimamente del suo diritto di sospendere l’adempimento della propria obbligazione pecuniaria a causa dell’inadempimento dell’altra non può essere considerata in mora e non e’, perciò, tenuta al pagamento degli interessi moratori e degli eventuali maggiori danni subiti dall’altra parte per il mancato adempimento, nei termini previsti dal contratto, di quanto a lei dovuto, non essendo applicabile l’art. 1224 c.c., che ricollega alla mora del debitore il diritto del creditore al pagamento degli interessi di mora e dei maggiori danni conseguenti all’omesso pagamento della prestazione pecuniaria” (Cass. n. 8567 del 1996; Cass. n. 14926 del 2010; Cass. n. 21315 del 2017, la quale, tra l’altro, dopo aver affermato che la relativa eccezione “non richiede l’adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte di sollevarla sia desumibile, in modo non equivoco, dall’insieme delle sue difese”, ne ha condivisibilmente rinvenuto la deduzione nel mero fatto che, nel caso esaminato, la parte aveva sospeso l’adempimento della propria obbligazione di pagamento in ragione dell’inadempimento dell’altra: “sospendendo l’adempimento della propria obbligazione di pagamento in ragione dei vizi denunziati, la committente ha posto in essere una condotta qualificabile come exceptio non rite adimpleti contractus”).

10.5. Resta, naturalmente, fermo che tale eccezione, in tanto può produrre i suoi effetti, in quanto la stessa risulti proporzionata all’inadempimento della controparte, in base ad una valutazione da compiersi in termini oggettivi, vale a dire con riferimento all’intero equilibrio del contratto ed alla buona fede. In effetti, “in tema di responsabilità contrattuale, l’exceptio non rite adimpleti contractus di cui all’art. 1460 c.c., comma 2, postula la proporzionalità in relazione all’inadempimento della controparte, da valutarsi non già in rapporto alla rappresentazione soggettiva della parte bensì in termini oggettivi, con riferimento all’intero equilibrio del contratto ed alla buona fede” (Cass. n. 58 del 2004). Nei contratti con prestazioni corrispettive, dunque, “quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l’inadempimento dell’altra ai sensi dell’art. 1460 c.c.” occorre procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti con riferimento non solo all’elemento cronologico delle rispettive inadempienze, ma altresì ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle stesse rispetto alla funzione economico-sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione dovuta” (Cass. n. 699 del 2000), ed in quale misura, tenendo presente il principio secondo cui, quando l’inadempimento di una parte non è grave, il rifiuto dell’altra non è conforme a buona fede e quindi non è giustificato (Cass. n. 16822 del 2003). In proposito, si è ulteriormente chiarito che “la salvaguardia del nesso sinallagmatico tra prestazioni corrispettive da adempiere simultaneamente, riconosciuta a ciascun contraente dall’art. 1460 c.c. mediante la facoltà di sospendere l’adempimento della propria obbligazione fino a quando l’altra parte non adempia, o non offra di adempiere, la propria” impone al giudice di “valutare, secondo il principio di buona fede e correttezza, in senso oggettivo, quale tra le due condotte, in relazione non soltanto alla relativa successione temporale, ma anche avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito da ciascuna parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (Cass. n. 16822 del 2003; Cass. n. 5869 del 2007).

10.6. La corte d’appello, al contrario, nel valutare la validità dell’offerta reale, ha erroneamente omesso di considerare, in sede di determinazione del contenuto della prestazione effettivamente dovuta dai ricorrenti e dei relativi interessi (se e nella misura in cui siano effettivamente maturati: tenuto anche conto della “precedente offerta” operata dai ricorrenti il 30/9/1994, cui accenna il controricorrente, a p. 50, e del principio, affermato dall’art. 1220 c.c., per cui l’offerta della “prestazione dovuta”, pur se operata senza osservare le forme indicate dalle norme sulla mora del creditore, esclude che il debitore possa essere considerato in mora ed, in ogni caso, determina la cessazione degli ulteriori effetti di una precedente costituzione in mora dello stesso, come l’obbligo di pagare i relativi interessi, salvo il caso che “il creditore l’abbia rifiutata per un motivo legittimo”, non rinvenibile, peraltro, nella mancata offerta di una piccola quota di interessi: cfr. Cass. n. 2730 del 1995), l’incidenza che avrebbe potuto, a sua volta, avere l’inadempimento, se e nella misura in cui fosse ritenuto sussistente (e proporzionato), che gli offerenti avevano contestato al beneficiario della stessa: tanto più se si considera che, a ben vedere, l’offerta reale dei fratelli D., per come risulta riprodotta in ricorso (p. 33) e ad esso allegata, contiene l’iscrizione di una somma a titolo di meri “interessi legali” maturati per quaranta giorni, pari ad Lire 3.016.114, e non, come ha invece ritenuto (in termini di sostanziale ammissione della loro debenza) la corte d’appello, a titolo di “interessi moratori”.

11. La sentenza impugnata dev’essere, quindi, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale; accoglie il secondo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri ed, in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2022

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